Niente come allora
di Massimo Malpezzi
(capitolo estratto dal libro Niente come allora, autoprodotto)
1976-1981 – Il libro dei sogni e quei 100 Nuovi Mattini
“Tutto è già cominciato prima, la prima riga della prima pagina di ogni racconto si riferisce a qualcosa che e già accaduto fuori dal libro (Italo Calvino)”.
Sono sempre stato attratto dalla letteratura di montagna, conoscere le storie incredibili dei grandi interpreti dell’alpinismo è indispensabile per capire cosa davvero spinge l’uomo a scalare una montagna.
Attraverso il passato possiamo ripercorrere le grandi imprese e assaporarne la loro bellezza, il coraggio di chi 50 anni prima ebbe l’ardire solo di immaginare che si potesse salire su pareti repulsive. Erano i racconti delle grandi avventure a catapultarmi dentro quei “Giorni Grandi”, come li chiamava Walter Bonatti. Le grandi pareti sembravano non avere più segreti, cime che non avevo mai visto assumevano forme e colori, socchiudendo gli occhi potevo toccar con mano quell’appiglio, attraversare una parete di ghiaccio, bivaccare su una scomoda cengia, l’azione si concretizzava attraverso l’immaginazione, potevo conoscere virtualmente uomini e culture lontane, si narravano dolori, fatiche, gioie, felicità all’insegna dell’amicizia, quella forte e indissolubile. Spesso mi accorgevo che la retorica prendeva il sopravvento, era normale là dove l’alpinismo incarnava ancora quell’idea di lotta estrema con gli elementi e che Lionel Terray, grande alpinista degli anni ‘60, chiamò “La conquista dell’inutile”.
Leggere, consultare, informarsi: nei primi anni ‘80 Internet non era neppure un’idea, da parte mia avevo trovato il mio “covo” culturale affidandomi ad una libreria milanese specializzata in editoria di montagna che era diventata un vero punto di incontro tra gli appassionati.
Unica e molto ricca di titoli era quella di piazza Duomo, la libreria Internazionale.
Ci capitavo spesso, ne conoscevo ogni scaffale, là dentro avevo sfogliato libri e guide fino alla nausea alla ricerca di qualche chicca, finché un giorno mi capitò “Il libro”.
In realtà qualcosa già si sapeva, il tam tam ne parlava come una grande nuova possibilità, si diceva che incarnasse il verbo del nuovo modo di stare sulla roccia: insomma un vero salto di qualità, e quando mi fu tra le mani capii esattamente cosa volesse dire imboccare una nuova strada. Sin dalle prime pagine l’euforia prese il sopravvento affogando qualsiasi intenzione di ragionevole razionalità.
Non era una guida classica, intendo come formato, anzi, non era proprio comodo da portare in giro quel libro, ma che importava! Era una vera e propria provocazione, la grafica, le sue grandi foto spettacolari, i testi che introducevano nuove terminologie rivoluzionarie e fantasiose.
100 Nuovi Mattini
A compilare quella lista di scalate moderne fu un “Classico”, un grande dell’Alpinismo, un uomo carico di sensi di colpa verso un mondo, quello dell’alpinismo, che non era ancora riuscito a prendere una strada libera dal martirio, un uomo che si caricò oltre modo di tormento alla perenne ricerca di risposte plausibili anche a costo d’essere isolato.
Mente aperta, perennemente inquieto, autore di salite estreme sulle Alpi, si chiama Alessandro Gogna, nasce a Genova nel 1946, annovera imprese di prim’ordine come la prima invernale della Cassin al Pizzo Badile nel 1968 dove ci rimase per ben 13 giorni, la prima solitaria alla Punta Walker alle Jorasess lungo la via Cassin, nel 1969 realizza probabilmente la sua più grande impresa con la prima salita del Naso di Zmutt al Cervino con Leo Cerruti, nel 1970 cambia terreno e apre una superba via alla Sud della Marmolada con un’ardita scalata disegnando la direttissima alla Punta Rocca.
Gogna è anche Guida Alpina. Oggi, soprattutto, storico dell’alpinismo, molto attento e curioso verso quelle forme nuove che lo sport dell’arrampicata ha prodotto. La storia di quel suo libro prodotto con grande coraggio editoriale, credo, sia ancora oggi in assoluto la più grande intuizione di sempre nell’ambito della letteratura di montagna.
Ci arrivò cogliendo in perfetto orario il momento storico ascoltando con attenzione quella nuova generazione che scalpitava, ma non ancora pronta a sfidare con leggerezza un mondo arcaico.
Gogna capì che bisognava “ri-scalare” le vie classiche, inventarsene delle altre, riscrivere le relazioni tecniche, dare loro un nome nuovo, bisognava liberarle dal tormento della fatica e della battaglia, soprattutto dalla vetta come unico obiettivo. Non ci fu in lui arroganza perché era conscio che nell’aria già si respirava quel pensiero. Lo scrisse nell’introduzione del suo libro che non fu certo lui il primo ad accorgersi di quante nuove strutture di fondovalle avrebbero potuto ospitare e soddisfare la voglia di arrampicata senza vetta.
Prima di lui Gian Piero Motti
Esisteva un altro grande personaggio che già da qualche anno incarnava quella nuova filosofia, probabilmente il fondatore di quel movimento, si chiamava Gian Piero Motti, nato a Torino il 6 agosto del 1946, fu ammesso nel 1972 nelle file del Club Alpino Accademico Italiano, immediatamente entrò a far parte l’anno successivo nel Groupe de Haute Montagne francese, una riconoscenza che veniva data solo per alti meriti alpinistici. A metà degli anni Settanta infatti aveva alle spalle una notevole attività, come la prima salita in solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul o la Cassin sulla Nord delle Grandes Jorasses, lo spigolo degli Scoiattoli alla Cima Ovest di Lavaredo. Era soprannominato “Il Principe” per la sua eleganza quando arrampicava, filosofo e intellettuale, scrittore di saggi e pensieri arditi carichi di romanticismo, primi fra tutti I Falliti, Il Nuovo Mattino, Zero the Hero e tanti altri contributi di alto livello intellettuale. Una personalità forte ma al tempo stesso fragile e sensibile da renderlo vittima di se stesso portandolo al gesto più drammatico. Lasciò, per sua volontà, il mondo ancora molto giovane nel 1983.
Non so se fu Gian Piero Motti ad accendere una lampadina ad Alessandro Gogna, mi piacerebbe pensarlo, sicuramente Motti seppe indirizzare le nuove generazioni verso una scalata intesa come gesto fine a se stesso ancor prima della difficoltà, (senza scordare mai l’utilità del grado); certamente fu lui il padre di quel Nuovo Mattino che nasceva come punto di collegamento tra la città e la montagna.
E anche io, antecedente al libro 100 Nuovi Mattini, cercavo, come molti, una nuova strada comprese alcune letture interessanti, ero affascinato dalle filosofie intellettuali che potessero aprire la mente, che non raccontassero solo di appigli, di cime con bandiere piantate.
Scovai nella vecchia libreria di mio zio una rivista del CAI, maggio 1974, la sfogliai con superficialità, nulla di moderno, ad un tratto venni colpito da una articolo di Armando Biancardi, non so chi fosse, ma gli fu concesso spazio sulla rivista, questo già di per sé era una garanzia, il titolo del pezzo non inneggiava a conquiste, anzi tutt’altro, La fuga dalle frustrazioni.
Accidenti, questa è cosa spessa, mi dissi, si narrava di un uomo carico di pena, alla ricerca di una identità, lo scritto raccontava “… “Sono un travet, mi sento sfruttato, Malmenato, Stritolato. Ho addosso, continuamente, un vivo senso di frustrazione. Ho provato a combattere. Ma contro chi? Di me, don Chisciotte era molto meno sprovveduto e molto meno in difficoltà…” e ancora “… Sento fermentare, ribollire dei “valori” dentro di me. E la strada che potrei imboccare potrebbe perdermi o valorizzarmi con le stesse probabilità” continuavo a leggere esterrefatto “… Per un caso, io ho cominciato con la montagna, e non sono più capace di smettere.
Aspettavo con impazienza il mio fine settimana o le mie ferie per correre lassù” concludeva amaramente “… Ma, alla fine, chi mai veniva a sapere delle mie imprese? Piccole o grandi che fossero, sono sempre stato schivo, un introverso, un modesto. E allora, il vizioso giro restava concluso. Ero sempre, sul lavoro l’oscuro travet”.
Erano storie correnti, si cominciava ad andare oltre l’azione, ci si interrogava.
Nel frattempo un altro grande personaggio sembrava aver sincronizzato il suo orologio con Motti. La sua area di azione erano le Alpi Centrali, si chiamava Ivan Guerini. Era sui sassi la ricerca della sua personale rivoluzione, sulle placche lisce della Val di Mello fino a creare il capolavoro che scosse tutto l’ambiente ben pensante dell’alpinismo con una sua nuova via al Precipizio degli Asteroidi “inventandosi” quel primo settimo grado delle Alpi Retiche, si chiamava Via dell’Oceano Irrazionale.
Più tardi, sull’onda delle sue visionarie fantasie compilò la prima guida delle vie della Valle intitolandola Il gioco-arrampicata in valle di Mello.
Sembrava che ovunque, sulle Alpi, si fosse sparso il virus del “Nuovo Mattino”. Sulle Dolomiti un gruppo di giovani facevano scorribande sulle pareti del Piz Ciavazes e della Marmolada, a torso nudo scalavano le placche e i gradi che mai nessuno aveva osato affrontare, Heinz Mariacher, Luisa Iovane, Maurizio Zanolla detto Manolo, Roberto Bassi. Era L’asse est-ovest. Sembrava ci fosse una sorta di appuntamento epocale, tutti stavano dando inconsapevolmente un apporto affinché quell’alba nuova illuminasse la mente di tutti.
Quel mondo non mi apparteneva ancora, ero un giovane che amava la montagna, da poco avevo finito un corso di Alpinismo classico e dopo un annetto di esperienze sulle rocce della Grignetta ripetevo le facili vie fatte da allievo, però iniziavo a curiosare annusando nell’aria la provocante ed eccitante possibilità di dare una svolta al mio modo di scalare.
Si attendeva solo il manifesto ufficiale che si concretizzò sotto forma di libro, quello era il percorso da seguire. 100 Nuovi Mattini fu la prima grande risposta ai miei interrogativi.
La storia di quel libro e della sua scoperta
Ero passato in libreria quella sera, dopo il lavoro, piazza Duomo era illuminata dalle luci di Natale, mi divincolavo tra la folla che correva a comprare gli ultimi regali e raggiunsi la libreria, questa volta non feci il giro dei banconi, già sapevo cosa avrei acquistato. Me ne tornai a casa eccitato voglioso di gustarmi il mio nuovo libro, iniziai a sfogliarlo subito dopo cena, le pagine erano illuminate dalla fioca luce della lampada posta sul mio tavolino, sentivo la pioggia battere sulle tapparelle, un dicembre umido e freddo che preannunciava solo neve, tra non molto avrei dato spazio allo scialpinismo.
Le nostre stagioni erano fatte per vivere la montagna in tutte le sue forme, così dopo l’inverno, che durava con gli sci ai piedi fino a primavera, si ricominciava timidamente ad arrampicare per riprendere la forma sulle rocce amiche della Grigna o del Medale per essere poi pronti per le vacanze estive che ci avrebbero visto protagonisti sulle grandi pareti delle Dolomiti o del Monte Bianco. Ma quella pubblicazione stava cambiando le abitudini di tutti, si stava delineando un fronte di arrampicatori pronto a vivere la roccia cercando un’alternativa, era chiaro che tutto sarebbe stato diverso.
Accarezzavo per la prima volta quell’idea di accantonare il freddo e la fatica dello scialpinismo lasciando in un angolo l’inverno a favore del sole e della calda roccia.
Le neonate falesie cominciavano a materializzarsi sotto forma di strutture attrezzate permettendoci di concentrarsi sulla difficoltà pura. Alcuni degli arrampicatori moderni già stavano sperimentando l’opportunità di vivere la scalata come un fatto fine a se stesso dedicandosi al gesto e al divertimento puro, poca fatica minimo avvicinamento, chiodature sicure, rientri privi di problemi, tutto a favore del divertimento, concentrati esclusivamente a risolvere tratti di parete che un tempo si superavano in artificiale salendo su e giù i monotiri per il solo gusto di scalare.
Continuavo con eccitazione a sfogliare 100 Nuovi Mattini accorgendomi di quanto l’immagine, prima che la lettura, fosse importante, la mia morbosa attenzione passava dalle grandi foto stampate a tutta pagina, facevano sognare, nitide, volutamente curate nei particolari, erano parte integrante di quel progetto, per la prima volta esisteva un fotografo dedicato che si posizionava volutamente dall’alto fermando l’azione creando prospettive ad effetto, il vuoto sotto quegli arrampicatori era agghiacciante dando un’idea precisa di cosa ci si poteva aspettare una volta lì. In quelle foto lo scalatore esprimeva il massimo dello sforzo e della tensione ma non ebbi mai la sensazione di drammaticità, sembravano sempre divertirsi curandosi dello stile e compiacendosi del gesto assumendo posizioni particolarmente suggestive verso la soluzione del passaggio.
Rimasi per molti minuti a osservare ogni particolare di quelle foto, lo stupore si confondeva con l’attenzione maniacale, quel piede messo lì, perché? Ci sarà un appoggio oppure era “spalmato”, quell’allungo con la mano, le dita che arcuavano l’appiglio.
Osservavo attento le contrapposizioni del corpo, quel tallone a sostenere il peso, quegli sguardi spesso allucinati che miravano l’appiglio risolutore, mi preoccupavo di intravedere dove fosse posizionata l’ultima protezione, se fosse un chiodo o un dado, tutte informazioni importanti nell’ottica di una futura ricognizione.
Sin da subito ebbi chiara l’intenzione di stilare una lista di quelle proposte, era necessario andare a provare, iniziare a mettersi in gioco.
Subito dopo le foto era giunta l’ora di documentarsi, leggevo le relazione, nomi nuovi introducevano quelle avventure, scoprii i nomi dati alle nuove vie: alcuni ripercorrevano la storia politica e sociale dei giorni nostri, nasceva così Via i Russi dall’Afghanistan, Il Giardino delle Bambine leucemiche, Vortice di fiaba. Alcuni avancorpi granitici in Piemonte diventavano l’alter ego delle più famose pareti americane, il Capitan diventava il Caporal.
Risalire le vie ri-creandole
Da quello che avevo capito l’istruzione per l’uso sembrava più semplice di quello che poteva sembrare, il gioco si riduceva nel ripercorrere gli itinerari senza attaccarsi ai chiodi usati dai primi salitori. Come? Semplicemente immaginando nuovi appigli e appoggi naturali che erano sempre stati lì ma che nessuno aveva osato pensare utili. Oggi sembra assolutamente naturale fare tutto ciò ma a quei tempi non era così scontato.
Il compito di quel libro 100 Nuovi Mattini era questo, scardinare l’ordinamento che costringeva l’arrampicatore-alpinista a conservare uno status di regressione piuttosto che di progressione, soprattutto mentale.
E fu così che Alessandro Gogna ebbe l’idea di mettere insieme 100 nuove possibilità di redenzione, 100 proposte, 100 possibilità innovative in 100 luoghi diversi d’Italia dando vita al viaggio come parte integrante dell’arrampicata, raccontare storie facendo conoscere personaggi carismatici e di grande forza comunicativa usando “testimonial” essenziali per smuovere le acque.
A quel libro devo molto come molto devono tutti coloro che in quel periodo stavano transumando dall’alpinismo eroico alla libera interpretazione della roccia come luogo fine a se stesso.
Significò poter scegliere diversamente, voleva dire affrontare un itinerario senza paura ritrovando il gioco di un bambino.
In questo cammino il mio zaino sarebbe stato comunque uguale, riempito dalle solite cose, lasciai però nell’armadio la mia vecchia imbracatura, quella con gli spallacci, la sostituì con una più moderna che aveva solo il cinturone e il cosciale più un porta materiale, le scarpette erano di quelle a suola liscia, le usavo già da quel primo corso di roccia del 1975.
Fu in assoluto la calzatura a creare davvero un nuovo modo di concepire il gesto dell’arrampicata, le nuove scarpette divennero immediatamente il simbolo di un approccio tecnico e mentale ideale per arrampicare in un’altra maniera.
Ricordo che, quando mi presentai al corso di Alpinismo del CAI nel 1975 con quelle nuove pedule, ci fu un misto di ilarità e di stupore tra alcuni dei miei istruttori, loro scalavano ancora con gli scarponi. Le acquistai inconsapevolmente, scelte in un pomeriggio di un sabato di aprile nell’unico fornitissimo negozio di alpinismo di via Torino a pochi passi da piazza Duomo di Milano, “Carton” si chiamava, mi ci portò mio zio, che con la tessera del CAI aveva lo sconto, dico inconsapevolmente perché non ricordo come alla fine le scegliemmo quelle mitiche P.A. sigla che stava per Pierre Allain, grande scalatore pariAgostino, non fui spinto da una moda o dall’idea che con quelle scarpe si potesse scalare meglio, capitò e basta.
Certo presentarsi ad un corso del CAI in quel periodo con ai piedi così tanta provocazione… Tecnicamente la pedula semi rigida imponeva una scalata classica, didatticamente ci veniva insegnata una posizione d’approccio frontale, la punta della pedula aveva il compito di poggiarsi con precisione sull’appoggio lasciando il tallone lievemente più basso, una tecnica che spesso andava in tilt in mancanza di appoggi netti.
Alla prima uscita, quando tirai fuori dallo zaino quelle scarpette sotto il monolito del Campaniletto, ci fu un silenzio tombale: sollevando lo sguardo vidi che due istruttori stavano fissando quelle cose che erano poco più che una scarpa da tennis. Mi dissi, qua mi prendono a calci nel sedere, l’imbarazzo durò solo pochi istanti poi uno dei due rise di gusto e disse, “ueeee bagaj, gavem un freeclimbing a ‘sto corso” poi più nessuno si interessò alla mia calzatura per tutta la durata del corso.
Quelle scarpe continuai ad usarle negli anni a venire rivitalizzandole senza doversi sobbarcare la spesa di comprarne un altro paio semplicemente risuolandole, così in maniera artigianale, non facemmo altro che reinventarci provetti ciabattini.
Furono proprio le foto di quel libro a svelarci il segreto. Alcuni climber, soprattutto sulle lisce placche di granito della val di Mello e della val dell’Orco, cercavano la massima aderenza con ai piedi delle scarpe da tennis: i due i modelli che sembravano rispondere meglio alle esigenze arrampicatorie erano le mitiche Tepa Sport e le meno famose Form Sport dalla pelle scamosciata e dai colori più accattivanti. Era però la loro suola il segreto di tanta aderenza. Negli ambienti si narrava di una gomma magica, bianca e morbida, zigrinata a quadrettini, si chiamava Aerlite. Fu facile venirne a capo, un calzolaio di Lambrate la vendeva a metri quadri, così mi ritrovai sul bancone una bella fetta di quella gomma spessa non più di 5 mm, un barattolo di colla di quelle potenti e una spatola di plastica, bisognava solo mettersi al lavoro.
Istruzioni per l’uso e quella nuova attrezzatura
Risuolai subito le mie originali scarpette Pierre Allain. Sul tavolo di cucina poggiai il metro quadro di Aerlite ci spalmai la colla sufficiente ad accogliere tutta la suola, poi pressandola ne tagliai il contorno lasciandolo abbondante, con delle mollette bloccai scarpa e tomaia e per tutta la notte se ne stettero sul balcone perché la colla aveva un odore nauseabondo; una volta asciutta, con una lama molto affilata, ne contornai con precisione il bordo togliendo l’eccedenza, la scarpa era pronta.
Lo si faceva anche con le scarpe da ginnastica, per tutto l’anno eravamo posto. Funzionava eccome, la gomma si scaldava e faceva il suo sporco dovere soprattutto in aderenza, d’altra parte le scarpette vere erano rare e difficili da trovare e costavano ancora troppo.
Ci si accorse subito che l’immagine aveva la sua importanza, il nuovo look personificava bene quell’onda nuova, il libro guida 100 Nuovi Mattini era di fatto un vero catalogo di moda, tutti si preoccupavano di somigliare il più possibile a uno di quegli arrampicatori riformisti fotografati sulle pagine di Gogna, così anche io mi adeguai procurandomi una salopette di tela blu usata dai rotativisti della Rizzoli e rubata dall’armadietto degli spogliatoi, gamba larga, con tasconi laterali che puntualmente si impigliavano su tutti gli spuntoni di roccia facendo spesso perdere l’equilibrio. Passai poi ad una capo più appariscente, il suo tessuto somigliava al nylon, erano dei pantacollant sinceramente osceni da vedersi indossati, ed in fine, non potei fare a meno dei mitici pantaloni della Think Pink che per molti anni furono l’icona dell’arrampicata rivoluzionaria: ricordo il suo testimonial sulle pagine della rivista del CAI, Franco Perlotto, fortissimo climber vicentino che si era misurato con le durissime fessure californiane e con le pareti del Capitan.
Adoravo quei pantaloni bianchi panna dalla tela spessa. Camminare per le vie di Finale o di Canazei vestito così in un periodo che apparteneva ancora in gran parte agli alpinisti classici mi rendeva libero e orgoglioso anche se ancora non avevo osato molto per esserlo. Quei nuovi abiti erano comodi, leggeri, poco ingombranti soprattutto per la mente, attaccato all’imbracatura tenevo un vero bidone di stoffa, era il mio “sacchetto” di magnesite, polvere bianca che si diffondeva nell’aria. Quando si diffuse questa abitudine, ricordo un amico lecchese soprannominato Pelli di Foca, forte arrampicatore, soprannominato così per i suoi capelli diritti a spazzola, che andò a procurarsi la polvere in farmacia, evidentemente l’aveva confusa con la magnesia per digerire, il risultato fu tragicomico soprattutto quando riempì il suo sacchetto e le sue mani cominciarono a friggere bollicine a contatto con le mani sudate.
Quegli anni furono di grande ricerca, ma anche di ironia e di divertimento, si andava un po’ per tentativi, tutto era nuovo. Scoprimmo nuovi luoghi lontani da casa invogliati dalle proposte del “Libro”, il viaggio divenne così un momento importante interagendo con realtà differenti aiutandoci a diventare più bravi a scalare, le rocce di Finale, della valle dell’Orco, della val di Mello, alla Pietra di Bismantova, in valle del Sarca e del lago di Garda divennero il nostro terreno ideale per vivere il Nuovo mattino.
Le sperimentazioni sul campo
Non riuscivo a capacitarmi come fosse possibile risolvere in libera tratti di parete che, viceversa, era possibile originariamente superare solo tirandosi sui chiodi. Pensavo che se qualcuno ci aveva infilato una sfilza di chiodi il motivo fosse l’impossibilità di progredire arrampicando (blocco mentale). Una delle prime esperienze in quell’ottica fu ripercorrere una via che avevo già scalato alcune volte in maniera classica, si trattava dello spigolo del Fungo o meglio Spigolo Boga, uno spettacolare monolito solitario nel cuore delle Grigne, naturalmente faceva parte delle proposte dei 100 Nuovi Mattini. In questo caso la parola ri-creazione sembrava perfetta applicata ad una via storica aperta in artificiale in alcuni tratti.
La proposta era la numero 97, pagina 224, “la ri-creazione” recitava: Una delle più belle combinazioni di tutte le Prealpi Lombarde, è preferibile però un giorno feriale. Si può fare sicuramente tutta in libera.
Ecco la frase rivelatrice che ci aveva intrigato, si può fare in libera, eravamo vogliosi di metterci alla prova su un terreno “amico”, la Grigna.
Su quelle rocce spugnose e ben lavorate avevamo scalato tanto, ma mai forzando davvero i passaggi in artificiale, anzi non ci avevamo neppure pensato. Ci andai con il Giampa compagno fidato di tantissime avventure in montagna entrambi uniti dalla una grande passione per l’alpinismo e l’arrampicata. Ricordo che la prima lista la stilammo insieme nelle serate invernali in qualche birreria con quel grosso libro aperto sul tavolaccio manco fosse la Bibbia e un blocchetto per gli appunti.
Dopo averlo consultato fino alla nausea avevamo individuato alcune proposte molto diverse tra loro per caratteristica e logistica, ci incuriosiva provare la via Gogna-Cerruti alla Corna del Medale, pagina 206, itinerario 89, Sui nostri foglietti appuntavamo le vie future da fare, la Gogna ci affascinava molto soprattutto attratti dal nome del primo salitore (ancora così legati alla forma e alla storia), ma ci sembrò un po’ troppo come inizio, complice anche la solita foto a tutta pagina del terribile vuoto e del climber alle prese con gli strapiombi di quella parete. Il Fungo fu la scelta giusta, in una bella domenica di maggio del 1979 (non può essere: 100 Nuovi Mattini fu pubblicato solo nel settembre 1981, NdR) ci trovammo a camminare avvolti nella solita nebbia che saliva e scendeva dai profondi canaloni, sembrava un polmone che aspirava e buttava fuori fumo. L’oppressione dentro quella coltre era angosciante, ma quando le folate di vento spazzavano via la nebbia tutto l’ambiente si illuminava regalando profondità e serenità, il cielo azzurro era appena sopra le nostre teste e lo avremmo trovato probabilmente 200 metri più in alto, conoscevamo a memoria quei terreni, in passato ci avevo fatto il corso di roccia e tutte le volte che ci ritornavo mi domandavo, scherzosamente, se scalare in Grigna volesse dire farlo sempre nella nebbia.
Mentre camminavo il mio pensiero era rivolto al primo e al secondo tiro, era evidente che ormai non era più la cima l’obiettivo del nostro andar per rocce ma la ricerca spasmodica dello scalare “puliti”, cercavo di immaginarmi su quei tratto di calcare segnato da una lunga fila di chiodi ad espansione che indicavano la direzione obbligando la scalata all’artificiale.
Quando fummo alla base della via, dopo aver scalato gli 80 metri della Corti sulla Torre ed esserci calati lungo il canalone opposto fino alla base della via, tirammo a sorte su chi dovesse partire per primo: mi toccò.
Sistemai ordinatamente i rinvii, qualche piccolo nut, perché non si sa mai, poi misi il cordino con il nodo strozzato del fifi (un gancio che si usava per ancorarsi provvisoriamente ai chiodi appendendosi), lo infilai dietro l’imbracatura a non darmi fastidio, testimonianza di un’abitudine che sembrava non appartenermi più. Poi iniziai la mia scalata, quel tratto non più lungo di una decina di metri si mostrava inedito, come se ad un tratto le asperità della roccia avessero disegnato nella notte appigli e appoggi nuovi, il calcare era pulito e aderente, pochi segni di sporco, segno evidente che non molti arrampicatori avevano osato scalare il libera quel tratto, oggi il grado si aggira intorno al 6b ma per quei tempi era davvero dura.
Naturalmente dopo tre o quattro metri mi ritrovai appeso, ero però soddisfatto di aver fatto a meno dei primi 5 chiodi, piccole liste e alcuni appoggi da spalmare avevano risposto positivamente alle mie aspettative, mi sforzavo di leggere al meglio la roccia, destro sinistro, poi ancora sinistro, su il piede, spinta e di nuovo destro su quella piccola pinzata in alto, stavo scalando come quelli delle foto del libro mi dissi, in arrampicata libera, l’albore, l’inizio, un idea.
Giunto in sosta recuperai il mio compagno che fece meglio di me, anche se da secondo, tirò solo un paio di chiodi risolvendo alcuni tratti incomprensibili per me, ma il Giampa era davvero forte, un cavallo di razza.
Ci aspettava ancora un altro tiro difficile che ci vide impegnarci non poco sempre in quella nuova idea di “ri-creazione, ci si sforzava se non altro di capire le sequenze proprio come se fossimo in falesia, avevamo compreso il meccanismo mentale sbloccandoci. Non ci fu delusione per la mancata libera, dovevamo avere solo pazienza il nostro percorso era solo all’inizio.
Oppressi dal tarlo, tornammo ancora un paio di domeniche, poi capitò di scalare lo spigolo del Fungo in una bellissima giornata di giugno completamente in libera e ci sembrò tutto così naturale.
Molte di quelle vie descritte sui 100 Nuovi Mattini erano classici itinerari della Grignetta, la difficile fessura-camino della via Cassin al Torrione Costanza, la meravigliosa via Magni alla Piramide Casati che definimmo “Verdoniana” oppure l’aerea Brianzi alla Corna del Medale.
Scoprimmo le rocce granitiche del Piemonte, il Diedro Nanchez, con i suoi diedri yosemitici o Itaca nel Sole al Caporal.
Da quel momento 100 Nuovi Mattini divenne la nostra unica Guida, abbandonammo tutto il resto come fossimo discepoli di un unica religione, la giusta direzione era nero su bianco, pagina dopo pagina scegliemmo le nostre vie cercando la maturazione indispensabile attraverso quelle esperienze che si sommavano una dopo l’altra fino ad arrivare a capo dei problemi (in realtà qui s’indovina che a 100 Nuovi Mattini si era già aggiunto Rock Story, con le sue relazioni di vie in provincia di Torino, NdR).
Gian Carlo grassi e quell’incontro storico
Era soprattutto lo stupore ad accompagnarci in quei luoghi dove si stava mettendo in scena la grande rivoluzione, tutto era nuovo e potete solo immaginare il continuo stupore che ci circondava in quegli ambienti naturali incontaminati. Fu una di quelle radiose giornate di sole in valle dell’Orco a farci incontrare con un mito dell’alpinismo e dell’arrampicata.
Avevamo appena salito alcune placche dal colore rosso e dal granito ruvido, a destra Giack (Giacherio), che già da alcuni anni sperimentava quel mondo, stava scalando su Paperinick, eravamo ammaliati dal suo andamento sicuro ed elegante, d’altra parte la valle dell’Orco da tempo aveva catalizzato l’attenzione dei più forti ed erano loro a delineare le aree di maggiore auge, un po’ come a Finale o in val di Mello, era sufficiente che un testimonial di rilievo, con il suo entourage, scegliesse un’area da valorizzare ed ecco che quel luogo diventava magicamente un punto di riferimento per tutti e lì tutti andavano a misurarsi e a sfidarsi.
Noi come loro eravamo lì a spellarci le dita con le nostre scarpette lisce cercando aderenza su quel granito perfetto. Giunti alla fine della nostra via (credo si chiamasse Via della Situazione Insostenibile) sbucammo su una cengia senza cima, non paghi, venimmo intrigati da un muretto liscio che portava ad un grande camino fuori misura, ci piaceva stare il più possibile su quelle rocce e l’idea di proseguire lungo altri itinerari ci esaltava.
Nel frattempo ci raggiunse in sosta un arrampicatore assai pittoresco: si chiamava Gian Carlo Grassi, era con un cliente e sembrava proprio puntare verso quella fenditura chiamata “Camino Bernardi” (altro giovane e fortissimo climber piemontese). Grassi se ne stette tranquillo in sosta dandoci la precedenza, di lui avevo letto cose mirabolanti sulle riviste del CAI, sapevo che faceva parte di quel movimento piemontese che “rompeva le balle” ai classici, esempio fu la fessura che nel 1973 scalò in libera al Sergent, chiamandola Cannabis, giusto per inquadrare il personaggio.
Le pareti della valle dell’Orco portavano con sé storie particolarmente interessanti, il Caporal e il Sergent erano pareti lisce che le facevano somigliare alle famigerate pareti americane del Capitan e dell’Half Dome, quell’idea di inseguire tendenze filosofiche americane aveva suggerito di dare quei nomi alle strutture, un po’ ironicamente. Così i levigatissimi scudi di granito rosso ebbero umilmente la loro dignità nella gerarchia militare.
A sostenere ancora di più quel granito ci pensò Gian Piero Motti grande alpinista, sassista, arrampicatore filosofo e intellettuale piemontese, scrivendo di quei luoghi “Sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre maggiormente quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di “gloriuzza” da regime, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in una atmosfera gioiosa con l’intento di trarre come gioco, il massimo piacere possibile da una attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere stesso”.
Come non dargli torto… quell’ambiente era incredibilmente selvaggio, una stretta strada si snodava sul fondo della valle tra centinaia di sassi che costellavano gli ampi prati verdi come meteoriti cadute primordialmente, era facile perdersi e confondendosi con i profumi e con i colori di quella natura.
Dalla sosta potevamo scorgere le altre strutture, sembravano impossibili da scalare tanto erano lisce, perfette fenditure solcavano il granito creando fessure da scalare ad incastro come la famosissima Fessura della Disperazione che 100 Nuovi Mattini, nelle impressioni quotava: un’esperienza indimenticabile.
Era tardi, dovevamo spicciarci, toccò al Giampa farselo da primo quel camino nero, iniziò a scalarne le due facce perfettamente in opposizione, schiena su un lato e piedi altissimi sull’altro, lo sentivo ansimare, guadagnava centimetro su centimetro, man mano che saliva il camino si apriva sempre più, ormai il mio compagno sembrava non riuscire più a creare quell’aderenza necessaria tra schiena e piedi e fu costretto a iniziare un’arrampicata in spaccata, la cosa drammatica è che era ormai alto una decina di metri e non aveva ancora trovato nessun tipo di protezione, ero molto preoccupato.
Grassi, vicino a me, sotto i suoi grandi baffi se la ghignava, commentando l’azione del mio compagno, sapeva che sarebbe toccato anche a lui spaccare così tanto, mi disse imprecando che con le sue gambette corte non ci sarebbe mai arrivato, conoscevo di fama quell’uomo e mi sembrava strano vederlo così preoccupato. Nel frattempo il Giampa si filò 25 metri di corda senza protezioni sfiorando il settimo grado, quando lo vidi scomparire rimasi molti minuti in attesa con il fiato sospeso, ero pronto a vedermelo volare sopra la testa da un momento all’altro poi una voce liberatoria mi gridò, mollaaaatuttoooooo, era in sosta.
Arrancai su quel tiro, dietro mi tallonava Grassi che non finiva di bestemmiare ad ogni passo con la sua fascia rossa sui lunghi capelli e quei pantaloni rossi larghi, guardandolo ebbi con orgoglio la certezza di far parte di quel circo di pazzi. Bestemmiava ma se la scalava senza fare un cenno di fatica. Ci prendemmo gusto, non c’era come continuare a scalare in quei luoghi per entrare in sintonia con quelle rocce, così iniziammo a specializzarci su quel tipo di arrampicata che alternava le placche alle fessure.
Oggi quel libro dalle pagine gialle patinate, porta i segni consunti: gli angoli piegati testimoniano le tracce delle vie ancora da scalare, moltissimi di quegli itinerari sono cerchiati da inchiostri dai colori diversi, erano i miei “sballettamenti” che segnavano l’audacia delle vie portate a casa, di avventure vissute, di spaventi e adrenalina, gioia, divertimento, di viaggi lontani e di quella bella sensazione di fatica che rimane sugli avambracci.
Poi rimanevano solo i racconti dei passaggi, su come li avevamo risolti e già si sprecavano i confronti con altre vie.
Don Agostino Butturini e quei terribili ragazzini Lecchesi
Qualche anno prima del Fungo, appena uscito dal corso di roccia del CAI di Milano, correva il 1975, si formò un gruppetto di amici scalatori, erano tutti compagni di corso, ci avevano detto che sarebbe stato indispensabile ripercorrere con umiltà le vie fatte in totale autonomia, eravamo una comitiva che per la verità non eccelleva in determinazione e coraggio ma la passione non mancava, sapevamo che era già nell’aria quel prurito chiamato “Nuovo Mattino”.
Nei bar diventati famosi come punti di partenza, punti di partenza per le falesie, si radunavano gli arrampicatori moderni.
Le neonate falesie avevano avvicinamenti corti, ottime chiodature al sole, luoghi adatti per concentrarsi alla sola arrampicata senza scomodare stress inutili. Per quanto ci riguardava continuavo a vivere la mia montagna sognando e passando molte domeniche sulle rocce della Grigna oppure sui fini graniti di Traverselle o della Rocca Sbarua e quando decidevamo di osare un po’ di più era matematico tirare notte e molto spesso tornavamo al buio, la velocità non ci apparteneva, sbagliavamo via, ci si impigliava spesso la corda doppia, i sentieri di rientro non erano mai chiarissimi e un paio di volte ci scappò anche il bivacco inatteso portando scompiglio e panico nelle nostre famiglie.
Il concetto di vie di fondovalle non era ancora completamente in voga ma quando scoprimmo che la Valsassina, a pochi chilometri dalla città di Milano, poteva essere una valida alternativa alle Grigne, ma soprattutto allo stress lasciammo volentieri l’idea di smazzarci ore di sentiero vie sconosciute e ritorni faticosi in cambio di facili rocce a pochi minuti dall’auto.
Un alibi perfetto per nascondere il nostro poco coraggio.
Ci avevano detto che esisteva una falesia chiamata Rocca di Baiedo, di fatto una cava attrezzata con chiodi nuovi chiamati spit, ci si arrivava praticamente sotto, dall’auto era sufficiente traversare lo sterrato, non ci sembrava vero.
Sopra la cava incombeva lo Zucco Angelone, prototipo perfetto di ciò che voleva dire struttura di fondovalle, anch’esso citato abbondantemente nei 100 Nuovi Mattini, come pure la citata Rocca di Baiedo. Sullo Zucco c’erano pilastri alti dai 50 ai 200 metri, appena appoggiati, di solidissimo calcare grigio, speroni intervallati da canaloni e da fitti boschi che scendevano fino alla cava di Introbio.
E come tutti i luoghi della libera anche lo Zucco Angelone aveva il suo Guru che aveva dedicato una guida di arrampicata sui modelli visionari dell’ultima generazione, un po’ come la fantasiosa guida dell’Ivan Guerini Il gioco-arrampicata in val di Mello. Si chiamava Andrea Savonitto detto il Gigante per la sua mole fisica, e proprio a quelle rocce compilò la sua personale interpretazione dello Zucco intitolandola La chiusa della Valsassina.
Vale la pena dedicare qualche riga su quell’opera che incarnava soprattutto tanta ironia. Savonitto seppe dedicare a quelle rocce, ma soprattutto al vagare alla ricerca delle vie, uno scritto memorabile che introduceva la filosofia scanzonata dell’arrampicatore moderno ma che sembrava ancora figlio di una posticcia ideologia non ancora molto chiara a tutti. Lo fece scrivendo un piccolo poema ad introduzione della citata guida intitolato “Un Grillo”. Un testo illuminante per descrivere cosa significasse inoltrarsi nei boschi dell’Angelone, che voleva dire spesso perdersi: con grande fantasia Savonitto ci regalò un inno alla fusione tra uomo, natura e roccia.
In fondo la parola d’ordine era vivere l’universo naturale attraverso la libertà di azione rispettando flora e fauna parte integrante dell’amore per la montagna.
Un grillo di Andrea Savonitto (La chiusa della Valsassina)
“Infuriato, lasci il sentiero all’improvviso e ti lanci brancicante su direttamente per il bosco, alla ricerca di quel fantasma che il tuo orgoglio di grande esploratore ormai percepisce. La beffa e lo sbigottimento ormai aleggiano infatti tutt’attorno. Gli alberi sfottono e cosi le foglie secche o le pietre che hai ai tuoi piedi stanno smuovendo e rotolano via.
Ben presto, però, sconfitto ti fermi ansimante, ormai rassegnato ad una “piacevole gita nei boschi” ti siedi imprecando alla sfiga e a tutto il resto…
Ti rialzi, dopo due sigarette, indeciso se tornare a casa o andare verso quella radura che appena riesci a scorgere là al limite del bosco.
Tanto ormai la giornata è persa, e un po’ di sole non fa male! Segui la luce che filtra tra gli alberi. La raggiungi e, in un luogo del pascolo che ti saresti aspettato, trovi la placca liscia e solare, che sembra nascere dai noccioli per poi tornare a morire in essi cinquanta o cento metri più in alto.
Interdetto e timoroso di aver alzato un po’ troppo il gomito la sera prima, ti avvicini, la tocchi, fai prima dei movimenti incerti ma poi ti lasci assorbire da quel calcare bianco, eroso, monolitico… (Andrea Savonitto)”.
Seppi toccar con mano quel girovagare allo Zucco Angelone come nei fitti boschi di Finale alla ricerca della falesia, sembrava che quella pre-azione alla scalata facesse parte integrante dell’avventura, come se immergersi in così tanta natura fosse il giusto prezzo da pagare per essere accettati nell’universo di madre natura. Quelle esplorazioni fortunatamente non portavano mai toni drammatici, si sorrideva, ci si prendeva in giro e spesso si iniziava a scalare solo nei tardi pomeriggi.
Raggiunta la cava in una mattina di inverno si potevano vedere bene quei pilastri, ci saremmo andati in futuro, ma oggi era tempo di stare sulla roccia facile senza pensare alla fatica.
Altri arrampicatori stavano frequentando la falesia, noi avevamo scelto di esercitarci sulla via degli Amici, un’ostica fessurina diagonale che solcava la placconata con un andamento da sinistra a destra incidendo la roccia allargandosi e stringendosi regalando qua e la qualche discreto punto di riposo; a destra, tre vie tiravano diritte protette solo da 3 piccoli spit, aderenza pura su piccole onde di marmo scivoloso.
La fessura la provammo su e giù diverse volte, la davano di quarto più con un passaggio di quinto, protetta abbastanza bene ci diede l’opportunità di raggiungerne la catena e da lì potemmo agganciarci alle soste delle vie più dure: così, dopo esserci stufati di scalare la fessurina, decidemmo di arrampicarci protetti con la corda dall’alto e confrontarci con la liscia difficile placca. Con la corda ben tesa procedevo con ritmo, ero orgoglioso di riuscire a starci su, mi chiedevo quando mai sarei riuscito a scalarla da primo.
Quell’esercizio faceva parte di una sperimentazione sulla tenuta delle nostre scarpette e sul nostro introspettivo self control.
La mattina volgeva al termine, ero l’unico del gruppo che era riuscito, al terzo tentativo, di scalarla senza rimanere appeso o cadere.
Mentre venivo calato, dalla strada, venni infastidito da un rumore di un motore smarmittato e da lamiere che sfregavano tra loro, era una Simca 1000 dal colore improbabile, mi sembra un verde smeraldo: l’autista parcheggiò di fronte alla cava, noi continuammo a scalicchiare facendo traversi a pochi centimetri da terra senza farci caso. Si avvicinò un tipo non giovanissimo interessato a quello che stavamo facendo, accidenti era un prete, lo intuimmo solamente dal colletto bianco e da un piccolo crocifisso dorato applicato al bavero della giacca nera smunta e consumata, per il resto, pantaloni beige di velluto a coste grosse e sotto la giacca un maglione grigio fatto a mano, ai piedi un grosso paio di scarponi di cuoio, era il Don, don Agostino Butturini, sacerdote e responsabile della scuola media del Collegio Volta di Lecco sin dagli anni Settanta e parroco del comune più piccolo d’Italia, il Morterone. Un uomo che viveva la fede in prima linea dedicandosi al sociale con passione e con la stessa passione amava scalare e lo faceva in maniera pregevole: il suo curriculum era di primissimo piano, Via Steger al Catinaccio, Spigolo Vinci al Cengalo, Nord della Cima Ovest di Lavaredo, e una apparizione pregevole sul Cervino.
Don Agostino apre anche numerose vie e lo fa per lo più con i ragazzini della sua scuola media proprio sulle prime strutture del fondovalle, anche lui stregato dall’ondata del nuovo.
Fa della montagna una forma di scuola di vita, la sua figura di educatore utilizza infatti il terreno verticale come insegnamento caratteriale ai giovani della sua scuola formandoli sia psicologicamente che fisicamente, tanto da aprire addirittura nel 1974 un corso di alpinismo al CAI di Valmadrera riscuotendo un grande successo, un’esperienza positiva.
Molti di quei ragazzi mettono sul campo una notevole predisposizione e così don Agostino Butturini, cui non mancano le idee, forma un gruppo alpinistico che raduna tutti quei ragazzini con la passione per la montagna, nasce così il Gruppo Condor.
L’entusiasmo è alle stelle, quei giovani vogliono giocare, arrampicarsi, divertirsi, molti di loro in futuro saranno protagonisti di grandi salite su itinerari estremi delle Alpi. Don Agostino fa suo un terreno di azione inedito, perfetto per la formazione arrampicatoria, a pochi chilometri da Lecco esistono la Valsassina e la Chiusa, la Rocca di Baiedo, le pareti della Grande Placca che comprende anche la cava, dove stavamo quel giorno provando le nostre scarpette.
Su quelle rocce il Don inizia a chiodare in ottica di falesia su roccia ottima e su quelle rocce si forma un fortissimo climber, Marco Ballerini, grazie a lui nasceranno itinerari molto duri come il famoso tiro Incubi Motopsichici alla Pala Condor. Altri nomi divennero poi prestigiosi alpinisti e arrampicatori come Michele Anghileri, Paolo Galli, Danilo Permici, Antonio Peccati detto Briciola. Il gruppo sa che il periodo è carico di fermento, quei ragazzi stanno scalando con le loro braccia e le loro gambe ma soprattutto con una nuova testa e don Agostino diventa l’osservatore di quel suo movimento formando addirittura un giornalino che da un punto di vista editoriale potrebbe apparire come uno dei primi magazine di arrampicata: si chiama Primo Più che sta a significare la passione per l’arrampicata che spinge a fare qualche cosa in più del primo grado.
Una storia romantica quella che Butturini seppe regalare, indispensabile per capire meglio quel personaggio carismatico che si presentò a noi in quella mattina che sarebbe stata per me storica e probabilmente di svolta.
Ci intrattenemmo qualche minuto chiacchierando sull’arrampicata in generale, scoprimmo che era lui l’artefice di tutte quelle linee di salita. Ascoltammo divertiti alcuni aneddoti e storie intriganti di vie aperte, poi il tono scherzoso assunse un aria seriosa e ci disse: Uèèè bagaj, chi è che ha voglia di venire con me a ripetere la via della Solitudine alla Rocca? Ci fu un inevitabile momento di imbarazzo, noi alle prese con la nostra paretina di 15 metri e forse più intimoriti dal personaggio che altro.
Un cenno di intesa dei miei compagni e venni prescelto come il più in forma e rappresentativo del gruppo per andare a scalare con il Don diventando il suo compagno di cordata.
La Via della Solitudine sarebbe appartenuta a quel libro magico di Gogna, così ricorrente, per me sarebbe stata la mia prima via da arrampicatore “libero” e per di più, da quando l’avevano aperta, non era ancora stata ripetuta.
Era una occasione unica e non me la feci sfuggire. Il Don aprì il cofano dell’auto ricolma di ogni sorta di aggeggi per la scalata, decine di moschettoni sciolti insieme a corde più o meno sane, ganci di tutte le forge, nut e grossi bong da incastrare nelle grandi fessure.
In fretta si imbragò liberandosi della giacca nera da parroco e dal colletto di plastica bianco che lanciò sul sedile.
La via si trovava dall’altra parte della strada provinciale, così imbragati e con le corde in spalla e il materiale che tintinnava ci avviammo attraversando il grande prato posto sotto la Rocca immergendoci nel bosco fino ad una piccola radura che segnava l’inizio della via che si snodava attraverso le grandi placche congiunte da aree boschive sospese.
Gogna nel suo 100 Nuovi Mattini avrebbe scritto a proposito di quella via: “Gli Anglosassoni chiamano “gardening”, giardinaggio, il ripulire un probabile percorso di roccia, da terra e arbusti, rovi, in modo da ottenere una via pulita e sgombra da quelle espressioni naturali definite fastidiose”.
Altro che giardini, a me sembrava di stare sui Dru, in fondo avevo solo 17 anni, io e la mia saloppette arancione con le mie nuove Mariacher alte sulle caviglie dalla fodera scamosciata viola con il bordo di gomma nera. Ero orgoglioso e soprattutto sicuro di essere visto dagli amici dalla Cava, probabilmente anche un po’ invidiosi.
Da quella posizione la Via della Solitudine sembrava assai più ardita, la linea di salita era divisa in due settori inframezzati da isole boschive e da alcuni collegamenti fatti di rovi e cespugli.
Fu il solito Savonitto, a proposito di sterpaglie, a descrivere bene nella sua guida cosa significasse l’estetica e l’esistenza di vie non proprio esteticamente belle: “A volte è sconcertante verificare che luoghi dall’aspetto insignificante offrono in realtà sensazioni cosi intense da trasformarsi in esperienze indimenticabili”.
E fu così, una esperienza indimenticabile. Camminando verso l’attacco don Agostino camminava davanti a me con passo svelto tanto da essere io costretto a prendere piccole rincorse per stargli dietro, fortunatamente l’avvicinamento era davvero esiguo. La nostra montagna da scalare si presentava come una tozza collina di rincalzo alle montagne più alte e importanti come il Grignone.
Superammo il primo tiro facile su una paretina molto lavorata trovandoci immediatamente alle prese con un pilastro tondeggiante molto liscio, era dato come passaggio chiave, quel tratto concentrava in pochi metri quella filosofia di “ri-creazione” che 100 Nuovi Mattini avrebbe proposto come sperimentazione. Il passaggio era possibile superarlo anche in A0, cioè tirandosi sui chiodi, sentivo la responsabilità nell’assicurare don Agostino sul passo chiave, credo lo volesse fare in libera, mi ancorai bene sull’albero dove ero seduto, in mano le corde ben strette tenendo il mezzo barcaiolo pronto a farlo slittare strozzandolo in caso di caduta, ma non fu necessario. Don Agostino, con destrezza e stile, passò di getto la placca fino a raggiungere la sosta, ora toccava a me.
Era la prima volta che affrontavo un tratto così difficile, sentivo la pressione di un’azione prossima ad essere dirompente, mi dissi che con un po’ di fortuna, magari, quella placca sarei riuscito a passarla in libera, dal basso tutte le rocce sembrano meno difficili di quello che sembrano. Con il passare degli anni e con l’esperienza accumulata ho imparato a diffidare da tali sensazioni, spesso le pareti che sembrano estreme riservano possibilità di successo maggiori di altre che non sembrano cosi difficili.
Ma era ora di lasciare da parte i pensieri, allacciai bene le mie scarpette, “pucciai” le mani nel grande sacchetto di magnesite e iniziai ad avvicinarmi al passo chiave, provai due o tre volte, e tutte le tre volte tornai indietro caparbio pronto a riprovaci in libera. Don Agostino lasciò la mia corda abbastanza lasca, gli urlai di recuperare poi spalmai le suole sulla roccia rugosa e verticale come non avevo mai fatto e in un allungo improbabile riuscii a prendere la presa d’uscita, era fatta, ero passato “liberamente”. Dall’alto il mio compagno si congratulò, il resto della via fu divertimento puro attraverso l’enorme placconata centrale fatta da grandi erosioni profonde fino a sbucare sui boschi sommitali dove ancora una volta non c’era una cima ad attendermi, nessuna vetta. Ci stringemmo la mano e fu sufficiente.
Rincontrai don Agostino Butturini una trentina di anni dopo, scalava con due ragazzini molto bravi ai pilastrini della Valsassina, lo faceva come allora, incitandoli: ci siamo sorrisi, non so se lui si ricordò di me e di quella giornata piena di emozione, ma non fu un problema, mi fece piacere vederlo ancora sulla roccia con lo stesso spirito e la stessa passione.
Lasciai quel gruppo della cava, amici che avevano condiviso il mio corso, indirizzando le mie forze verso l’arrampicata sportiva.
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Caro Massimo, visto che sei qui ti ringrazio per aver riportato in vita epoche, gesti, pensieri ed emozioni.
È proprio vero: bisogna raccogliere il gomitolo per non perderlo, custodendolo con la nostra attenzione.
Gli errori mi sembravano troppi per il Gogna blog, doveva esserci una spiegazione!
Davvero bello…se posso aggiungerei che i 100 mattini in quei primi anni 80 si sono moltiplicati nello spazio del tempo con cifre e momenti davvero importanti.Nel mio paesello dolomitico alle prime avvisaglie della forza calamitica esercitata dalla roccia su di me Gogna e il suo libro era sconosciuto.
Quando poi a Savona durante il CAR nevale militaresco distante dalla mia passione ma non dalle ginniche con l aerlite che erano nel borsone feci amicizia ,ancora in borghese complice la giacca blu della F..a . (Marchio non vulvare) con forse l’unico su 700 che arrampica Carlo Malerba.(che saluto)Lui nel borsone insieme a scarpe e qualche rinvio e corda aveva anche il libro.Ricordo la bellezza delle pagine e delle foto come fosse ieri ,era il marzo del 82.Vi era anche la relazione del lungo traverso di capo Noli che nella libera uscita serale facemmo nostro raggiungevamo o in pullman o in autostop o non raggiungevano affatto e dai guard rail dove avevamo lasciato un sasso da segnavia continuavamo la bella traversata filo mare con 1 o 2 tiri al massimo visto il poco tempo a disposizione .
Non so a che punto del nuovo mattino io venni preso dalla luce solare portata dall autore …ma non è ancora sera .
Un caro saluto a tutto clan-blog di Gogna che trovo di grande compagnia e interesse.
Grazie a tutti, ciò che avete letto è un diario che non vuole essere una celebrazione personale, dio me ne scampi, piuttosto una scusa per parlare di chi davvero scrisse pagine grandi nell’alpinismo e nell’arrampicata. Grazia perdona gli errori io credo che Alessandro ricevette una stesura non ancora corretta del tutto…oggi il libro è a posto. Ancora oggi, senza retorica, ho perfettamente davanti come un film, profumi, fatiche, gioie, paure e tanto stupore. Niente come allora è fatto di tanti capitoli, ognuno legato da un filo che va raggomitolato per capire davvero il significato di ciò che fu il nostro modo di andare in montagna. Non finirò mai di ringraziare Alessandro Gogna per quella magica intuizione che fu 100 Nuovi Mattini
Ho amato la lettura di quest’articolo (nonostante i numerosi errori) quanto lo scambio fra di voi.
Grazie per i racconti di vite e movimenti che non ho vissuto e per i sorrisi che avete acceso.
Sí, Marcello, siamo andati del tutto fuori tema. Mi affido alla clemenza dei lettori.
Che farà Gengis Khan, con le sue orde belluine, del canto di un pastore errante?
Cominetti. Ci rivolgiamo alla corte chiedendo clemenza anche se un grido si alzò solenne e possente dai possedimenti orientali in questa giornata di pioggerellina tropicale: pagherete caro! Pagherete tutto ! ( a proposito di Niente come allora.)
Bertoncelli e Pasini, secondo me siete andati fuori tema ma succede anche a me.
Caro Roberto, visto che siamo in ballo, balliamo. E cosí posso continuare col mio classico lamento leopardiano e aprirmi il cuore di fronte a voi, amici sconosciuti.
Con gli anni la nostalgia si acuisce, e con essa la malinconia dell’esistenza. Però non meno vero che con gli anni la scorza si indurisce. Chi prevarrà dei due? Non so. È tutto cosí incerto. In questo mondo e in questa vita tutto è incerto e passeggero.
Che posso dirvi? Speriamo bene.
Fabio. Come mi pare abbiamo già detto, la nostalgia è un sentimento dolce e sognante. che induce al ricordo delle parti migliori del passato. Io non penso vada repressa, anzi. Certo se inacidisce, come accade al vino che si trasforma in aceto, può diventate rimpianto, risentimento o piagnucolosa lamentala verso il presente. Molti ci cascano purtroppo. Però dipende da noi. I dosaggi ormonali contano ma la volontà gioca comunque un suo ruolo.
Caro Marcello, caro Roberto, cari voi tutti, è inutile che piangiate di nostalgia. Ed è inutile che io pianga di nostalgia.
Invecchiamo tutti. Moriremo tutti. E dopo un po’ non rimarrà neppure il ricordo. Come disse quel tale: lacrime nella pioggia.
Cosí è la vita. Non ve lo avevano detto?
… … …
Con simpatia, verso tutti.
Ogni generazione ha il suo”NIENTE COME ALLORA”.L’ho sentito declamare da ultraottantenni Trentini nel corso di pranzi di nozze o allegre tavolate con vino ad accesso libero. Raccontavano con nostalgia di trasferte in biciclette monorapporto, gia’tanto se avevano copertoni robusti e grasso alla catena e nei perni. Abbigliamento variegato con capi preda bellica o frutto di mercatino di scambio con sopraggiunte truppe alleate, corde sottratte temporaneamente ad usi agricoli..scarponi chiodati. con il boom riuscirono a comprarsi veri scarponi con lamina e suola Vibram, vere corde e veri ramponi e piccozze e…moto Guzzi, Vespa, Lambretta, Gilera, Topolino, Seicento, Millecento..Campagnola..pernottamenti in fienili , sotto sassi, in tende .. poi in rifugi nel camerone ..poi in camera con piumino e bagno..
Bella lettura, specialmente per chi ha vissuto quegli anni. Però ricordo anche che nessuno parlava di “Nuovo mattino” come di una corrente a cui aderire. Semmai se ne è parlato dopo, quando l’arrampicata divenne “sportiva” con l’organizzazione delle prime gare.
Avendo iniziato ad arrampicare a Finale, io ricordo come rivoluzionario, a fine anni ’70, l’utilizzo delle prime scarpette a suola liscia in luogo degli scarponi. Ma non si avvertiva quel bisogno di contrapposizione verso la lotta con l’alpe semplicemente perché scalare in falesia lo si faceva già, anche se per i più, con l’obiettivo di allenarsi per le salite alpine. Insomma, la contrapposizione io avvertivo semmai più tra le persone che tra gli ambienti naturali. C’erano quelli dello zoccolo duro Caiano: incapaci e testardi, decisi a difendere il loro “prestigio” e quelli che semplicemente si divertivano in maniera spassionata credendo che l’atletismo dovesse avere una parte importante nel tempo dedicato alla roccia. Certo tutti leggevamo la Rivista della montagna e (specie in Liguria) Scandere, ma l’uscita di Cento Nuovi Mattini io l’avvertii più dal punto di vista fotografico che da quello filosofico. In fondo si trattava di una raccolta di itinerari buoni per l’allenamento invernale con didascalie che diverranno parte integrante del linguaggio di ogni scalatore.
Un dubbio me lo mette l’uso del pantacollant prima dei pantaloni Think Pink che secondo me cronologicamente fu alla rovescia.
Quando vedo nella mia libreria Cento nuovi mattini e Mezzogiorno di pietra ormai ingialliti e con le pagine e gli angoli delle copertine consumati, mi dico con serenità “quanto è stato bello” e mi commuovo almeno una volta al giorno, cercando di non fare smettere quella fiamma di inutile ma bellissima voglia di fare che per fortuna ho ancora. È una cosa che vorrei augurare a chiunque, perché fa sentire bene.
Nostalgia canaglia in una calda e placida mattina di Ferragosto al mare. Lo scritto di Malpezzi fa rivivere esperienze comuni di un’epoca, come la famosa madeleine. Il colpo di grazia e stato il ricordo di Solitudine, con tutto il suo carico simbolico esplicitato da don Butturini. Insieme ma sostanzialmente sempre soli, come il primo di cordata mentre i compagni sotto cazzeggiano. Il mitico traversino liscio del secondo tiro con vipera nella fessurina poca sopra. Che brividi. Confermo il ruolo cruciale di Cento nuovi Mattini. Nel mio gruppetto lo chiamavamo goliardicamente con un’espressione maschilista volgare Cento nuovi P….ni. Era un po’ come sfogliare il catalogo dei trenini Marklin da bambino: Luna Nascente era il famoso locomotore coccodrillo verde. Un mito e un sogno. Il locomotore purtroppo non fu mai comprato per ragioni di ristrettezze economiche. Al massimo i miei potevano arrivare a Rivarossi o Lima. Luna nascente fu una compensazione in età adulta. Era il 1981, eravamo usciti dal buio di anni difficili. Ogni tanto mi chiedo: era un nuovo Mattino o un tardo pomeriggio, quasi sera? Stava per cominciare la Milano da bere. Buon Ferragosto e magari tradizionale pranzo con gli affetti più cari.