Nino Corsi e Luigino Bianchi

Nino Corsi e Luigino Bianchi
(un intreccio nella memoria corale)
di Silvia Metzeltin
(pubblicato su Alpinismo triestino, n. 188, 2023

Se ne sono andati da questa terra, durante l’anno, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Necrologie stese in consuetudine biografica si pubblicheranno per Luigino Bianchi dalla Società Valdostana di guide alpine e maestri di sci cui afferiva, per Nino Corsi anche dal CAAI di cui era membro.

Qui li ricordo insieme in altro modo, nella loro appartenenza a una specie di ragnatela informale, dove si integravano tanto le loro diversità quanto le loro similitudini. Del resto, li accumunava una generosa bontà quotidiana, l’eleganza del gesto atletico, in arrampicata e non solo, e quella che Pietro Spirito definisce così bene “vocazione al dilettantismo di alto livello”, che ha mantenuto il loro alpinismo personale privo di tensioni verso maggiori risultati e riconoscimenti cui avrebbero tranquillamente potuto aspirare, date le rispettive esperienze e capacità – ma non gliene importava poi molto.

Silvia Metzeltin

Abito poeticamente il mondo quando sono artigiano-artista della mia esistenza“: mi piace riferire questa espressione di Gianni Vacchelli a componenti di quel gruppo informale di cui vorrei parlarvi, e ciò vale anche benché diversamente per loro due. Legati in cordata, insieme hanno salito la Nord della Grande per la via di Comici.

Con Nino, ho condiviso l’invernale alla Torre Siorpaes; con Luigino lo spigolo nord dell’Agnèr e varie altre. Ci stavo ripensando mentre ammiravo, nella luce di un giorno ventoso che evidenzia perfino gli appigli, la linea slanciata dello spigolo di Cima d’Oltro dove, molti anni fa, con lui ci eravamo persi in discesa all’annottare. Mi giunge laconica la notizia: è morto.

Dopo poco, altra laconica notizia. Se n’è andato anche Nino. Per ambedue, ho il tarlo dell’omissione, nell’aver rimandato incontri promessi da tempo. Ogni addio terreno porta con sé nella tristezza anche il riemergere quanta parte di sostanza nella vita abbiano rappresentato da lunga data gli amici scomparsi, ma questo sentimento finirà con me.

Sui novant’anni, si dirà, dopo tutto è normale. C’è chi muore molto prima. Se riguarda un giovane, il lutto sconvolge, invece l’anziano verrà dimenticato presto, perché “la ruota gira”, e nella dinamica del tempo che incalza non c’è spazio per i rimpianti. Però, parafrasando un titolo pure di Pietro Spirito, nel “vivere il presente” – cioè qui, il mio di oggi – “in prospettiva storica” – vorrei non ingessare le mie esperienze nel passato, bensì proiettarle nel futuro. Vorrei lasciar emergere dallo sfumare di episodi biografici l’atmosfera, uno Zeitgeist speciale, in cui abbiamo pilotato le nostre vite tra affinità elettive. Vorrei che non si cancellassero subito i tasselli di una storia minore, nel cui contesto marginale eravamo immersi senza consapevolezza, pur essendone i protagonisti. Storia minore, ma non per questo meno reale. Come le vite di Nino e di Luigino.

Lo spigolo nord dell’Agnèr

Alpinismo modello ZAT
Per cerchie informali di un certo tipo, nel suo libro del 1991, Hakim Bey aveva coniato l’acronimo inglese TAZ, Temporary Autonomous Zone, dal significato antropologico e sociale. Mi piace estenderlo a marginalità del mondo alpinistico. In italiano, lo indico ZAT, Zona Autonoma Temporanea, e nell’inversione della sigla richiamo che per noi la traslazione del concetto è solo parziale, data la mancanza di intenzionalità.

Ma buona parte del resto ci sta. Appartenenza spontanea e fluida tra incontri e partenze, scanzonata e libera, con autogestione spontanea e confusa, faro per amicizie solide e stimolo di emulazione improvvisata. Priva di strutture di convenzione, niente tessere né quote, irriverente ma senza visioni di rottura. Affinità di elezione nella casualità: una sezione del CAI bastava nel riferimento, nemmeno era d’obbligo, ma noi avevamo comunque la XXX Ottobre. Ci siamo trovati in una specie di ZAT per decenni, con fili di destino tessuti tra Varese, Cervinia, Trieste e Valmadrera, con altre digitazioni periodiche. Un gruppo senza etichetta, evoluto negli anni, fino a perdersi poco a poco con le vite individuali concluse.

Oggi penso che le relazioni nel gruppo si alimentassero con la prospettiva di una vita un po’ poetica per uscire dai binari che le contingenze sociali avevano previsto per ognuno di noi.

Abbiamo cercato opportunità nella condivisione di alpinismo con compagni di cordata occasionali, poi diventati spesso compagni di strada oltre l’alpinismo. Rifletto sulla valenza importante di questi gruppi spontanei, sul loro telaio di inclusione che può evolvere in duratura, che veicolano una qualità della vita ignota al PIL, sfuggente al codice QR e agli algoritmi delle statistiche. Mi soffermo su queste considerazioni perché mi sembra utile e bello sperare che questa umanità positiva nel modo di frequentare le montagne rimanga o torni a rivivere in ZAT future, senza farsi inglobare e mortificare dagli sviluppi agonistici, scolastici o virtuali: possibilità di scelta individuale concreta per sentire di “esserci al mondo”, come dice la filosofia, specialmente nei rapporti in presenza fisica non convenzionale con altri.

Parole chiave per ricordare
Dopo questa premessa, per collocare Nino e Luigino in una memoria corale, che li colleghi ai tempi e ai luoghi, dovrei imbastire un vero romanzo intorno alla ZAT di cui sono stati attori e protagonisti, insieme ad altri dei miei e loro compagni, integrati casualmente strada facendo. Ci sarebbero perfino alcuni ingredienti sentimentali per impostare una trama avvincente.

Ma non dispongo di capacità per simile impresa narrativa: mi limito a qualche tassello dell’originale mosaico da cui emergano i due amici scomparsi. Concedetemi questi limiti, miei e della contingenza, nel ridurre il ricordo a una serie di guizzi prorompenti dalla memoria.

Quasi fosse una stesura di ricerca – in un certo senso lo è – ve la propongo molto semplificata secondo alcune parole chiave. Sono brevi lampi su questa storia minore, svolgendo a modo mio i fili del destino tessuti nell’alpinismo e contorni, in ragnatela fra Varese, Trieste, Cervinia e Valmadrera, a partire dalla fine degli Anni ‘50 del secolo scorso.

1. “Il Bianchi” da Varese – 2. Quelli di Cervinia – 3. Dopo la spedizione in Patagonia della XXX Ottobre – 4. Nino Corsi, Fulvia e la casetta in Carso – 5. Il Vertice di Valmadrera.

Salto a piè pari il mio approdo alla XXX Ottobre con Bruno Crepaz e quanto i risvolti del legame consolidato significhino tutt’ora nella mia vita personale, per passare ai lampi delle parole chiave.

“Il Bianchi”
Luigino Bianchi era andato a bottega da calzolaio nel laboratorio che suo padre teneva in una delle vie principali di Varese, e ne aveva acquisito le abilità professionali insieme alla capacità di gestire un negozio. Dotato per le prestazioni sportive, dal canottaggio alla bicicletta, quando scoprì l’alpinismo prevalsero sia il desiderio di vita all’aperto, sia il bisogno di organizzarsi la vita in autonomia. Alla morte del padre, si liberò del laboratorio con l’intenzione di diventare maestro di sci. Intanto, era maturata la sua passione alpinistica e la prestanza atletica gli facilitava il trovare compagni nella sezione locale del CAI.

Però non tutti gli andavano a genio: troppo abituato a scegliere e decidere per conto proprio, alla partecipazione a un’ascensione importante anteponeva sintonie personali. Con Gino Buscami e con me, l’accordo si creò spontaneamente e ne conseguirono scalate e viaggi insieme.

Nel frattempo Luigino si era trasferito in Valle D’Aosta per prepararsi all’esame di maestro di sci, allora una specie di epopea per un cittadino. All’inizio, i valligiani lo osteggiarono non poco, poiché in generale temevano che “i foresti” soffiassero loro i posti di lavoro disponibili. Ma “il Bianchi”, esercitandosi sulle piste di Cervinia, aveva già coniugato le sue capacità artigianali con la sua caparbietà per le motivazioni. In un sottoscala, aveva organizzato un laboratorio di riparazione e noleggio sci, cioè qualcosa che mancava sul luogo e che serviva a chiunque. Così non toglieva lavoro a nessuno, anzi, però lavorava solo per chi gli aggradava. “Io, a lei, non aggiusto gli sci” – “Ma io…ma io pago” – “A me non interessa niente dei suoi soldi”.

Soldi che “il Bianchi” sapeva però guadagnare e gestire oculatamente, risparmiando e aiutando generosamente i compagni dietro le quinte. Diversi di noi squattrinati di allora siamo andati a sciare a Cervinia grazie al suo appoggio. Anch’io. E quando Bianca Di Beaco volle conoscere belle piste da sci primaverile, le proposi Cervinia perché potevo contare su Luigino. Così Luigino scoprì che, oltre la folla dei pistaioli lombardi e piemontesi, da Trieste soffiava un modo diverso di vedere la vita, più originale e a lui più confacente. Il suo arrivo nella ZAT è iniziato così, e si è espresso con relazioni via via più frequenti negli andirivieni degli scambi.

Tra l’altro, Gino ed io, lo avevamo coinvolto per formare squadra XXX Ottobre in una edizione del Rally CAI-CAF nel Delfinato, dopo la rinuncia forzata di Gregorio Invrea. Luigino sciava molto bene, noi no, ma i punteggi non si collezionavano su tempi in velocità di salita o discesa, bensì con prove speciali, come dormire in un igloo autocostruito anziché nel rifugio attiguo, e in particolare con una discesa a slalom tra paletti guidando senza rovesciarla una slitta di soccorso, di quelle da montare in emergenza. Quale più leggera, toccò a me il ruolo di finto ferito, con il timore di diventarlo o davvero, ma Luigino ci pilotò sovrano verso una vittoria.
Per la spiegazione, rimando alla prossima parola chiave.

“Quelli di Cervinia”
E’ una parola chiave di collegamento, che non so bene in che ordine presentare. E’ un intreccio arrivato nel tempo fino ai nostri giorni. Ma diciamo che all’inizio “Quelli di Cervinia” erano già una ZAT per conto loro, quando tramite Luigino li abbiamo poi conosciuti e frequentati. La loro era una ZAT di battipista che volevano diventare maestri di sci. Cercavano scampo da lavori cittadini poco amati, senza dover emigrare o magari finire nella Legione Straniera per essersi fatti beccare alla frontiera con la Francia. Le piste di discesa si compattavano già con alcune macchine speciali, ma poi ancora battendole con gli sci ai piedi, e c’era chi si voleva preparare all’esame di maestro, vivendo presso le piste e guadagnare qualche soldo.

Avevo molta simpatia per quella gente, che mi pareva da equipaggio di nave pirata. Qualcuno era alpinista, come Sergio De Infanti che veniva dalla Carnia; qualcuno in fuga dalla FIAT come Cesare Ariella; qualcuno “confinato” a Cervinia come il capitano Lamberti, perché si diceva fosse castigato dalle gerarchie militari, però mi sembra che capisse e appoggiasse questi giovani come aveva, pensom, capito i suoi militari. Si atteggiavano a duri e forti, ma era una vernice da cui spuntava la solidarietà concreta della loro ZAT. Solidarietà della quale “il Bianchi” dette dimostrazione pratica, pagando con i suoi risparmi, frutto del lavoro nel sottoscala, la cauzione per chi era stato intercettato dalla Guardia di Finanza e sarebbe finito in prigione per aver portato una bricolla di sigarette dal confine con la Svizzera, in discesa notturna fino a Cervinia. Era un modo rischioso per integrare la paghetta da battipista – e per imparare a guidare anche nelle peggiori condizioni di neve e visibilità le slitte di soccorso in emergenza.

Dopo la spedizione in Patagonia della XXX Ottobre
Molte spedizioni alpinistiche si esauriscono in un viaggio e conquiste di cime. Ci sono però spedizioni che cambiano decisamente la vita delle persone. E quanto è successo a ognuno di noi cinque di quella spedizione del 1967/68. Silvano Sinigoi, Lino Candot, Walter Romano, Gino Buscaini ed io, al ritorno abbiamo orientato il futuro con nuovi obiettivi.

Nino e Luigino non sono stati in quella spedizione, ma poi coinvolti nella scia dei nostri cambiamenti. Luigino ha partecipato invece con altri amici triestini, anche con Bianca e Silvano Sinigoi, a viaggi alpinistici in Turchia; poi, pur rimanendo di base a Cervinia, ha fatto per anni la spola con Trieste e le Dolomiti. Così era diventato riferimento stabile per altri della ZAT, in particolare dopo quella spedizione patagonica. Dal momento che Gino si era messo al lavoro per la Guida dei Monti d’Italia anche curando due volumi per le Alpi Pennine, l’appoggio ricevuto a Cervinia si estendeva anche alla partecipazione alpinistica di Luigino sul terreno. Lino Candot, che dopo l’avventura in Patagonia non ne voleva più sapere di lavori in città, si stabilì addirittura a Cervinia, diventando guida alpina, specializzata nel condurre in sicurezza i clienti su e giù per “il più nobile scoglio d’Europa”, e disposto nel tempo libero a unirsi nelle ricognizioni per le Guide dei Monti d’Italia. Insomma: hai bisogno di qualcosa o qualcuno ? Vai “dal Bianchi”. Arrivarono a Cervinia perfino gli alpinisti argentini che avevamo conosciuto durante la spedizione, tra cui Pippo Frasson che morirà al Fitz Roy.

Torre Siorpaes

Lino Candot è rimasto vicino a Luigino anche negli ultimi anni, dopo i vari incidenti con gli sci che ne avevano minato il fisico, ma non la predisposizione allo sport e a discese a rompicollo. Da Lino, è arrivata a Silvano la notizia della sua morte, e Silvano me l’ha trasmessa dalla sua barca mentre navigava nel Quarnero. Anche la notizia della morte di Nino Corsi mi è giunta dalla barca di Silvano. Metterei una piccola sigla ZAT su una delle sue vele. Lino rimane in Valle D’Aosta, non tornerà al mare anche se rimpiange l’Istria natale. Ma noi, quando passiamo in barca davanti a Parenzo, il suo luogo di origine, gli inviamo ogni volta un saluto telefonico. Mi viene in mente di aver letto come, nella Liguria di Levante, ci siano navi il cui capitano saluta quando transita davanti a una casa di riposo per marittimi sulla costa: prosegue nel sentimento la condivisione di esperienze del mare, anche con chi prima o poi resta a terra.

Nino Corsi, Fulvia e la casetta in Carso
Nino Corsi ha formato a Trieste con Bruno Crepaz e Gregorio Invrea una triade di riferimento alpinistico nel secondo dopoguerra: era la generazione che succedeva a quella dei reduci e tornava a guardare alle montagne. Figlio di un marittimo non agiato, deluso dopo uno sfortunato esame di Analisi Matematica, Nino rinunciò a proseguire gli studi come gli altri due amici, entrò come chimico allo stabilimento della Coca Cola, che era sorto a Prosecco, e andò a vivere in una casetta nelle vicinanze.

Un filo fondamentale della ZAT è stato e rimane quello tessuto da Fulvia Chiandussi, moglie di Nino, in quella casetta di Prosecco. Fulvia, trasferitasi temporaneamente per lavoro in Svizzera presso la sorella sposata a Como, aveva frequentato gli alpinisti varesini, conosciuto Luigino e anche me, allacciando amicizie prima di tornare a Trieste.

L’alpinista di richiamo era Nino, non Fulvia che pure arrampicava, ma ciò che contava per tutti era l’accoglienza in quella casetta e nel suo giardino. Quando una ZAT trova riferimento in una coppia, l’amicizia si sparpaglia, ma l’atmosfera creata dall’accoglienza ha di solito come anima la donna. Ora Fulvia è rimasta sola. Sul prato che ha visto innumerevoli incontri avanza il sommacco, le panche all’aperto rimangono sempre più vuote. Le abita la memoria. Mentre fra le due sezioni cittadine c’era Tiziana Weiss a gettare ponti nella nuova generazione, in casa Corsi a Prosecco transitavano a qualunque ora esponenti di ogni tipo di alpinismo e di fede politica. Vi ho potuto incontrare Lea, moglie di Vladimiro Dougan, il mite Virgilio Zuani, Danica e Sandi Blazina che venivano da Isola; vi andavano e venivano familiari e colleghi di lavoro; si trovavano alpinisti in cerca di confidenzialità, di ospitalità o di una cena, a volte solo di un posteggio, o perfino di uno spazio per costruirvi una barca come hanno fatto Bianca e José Baron. Altre digitazioni della ZAT in preparazione per partecipare alla Barcolana. La personalità di Nino è stata ovviamente contrassegnata da quelle frequentazioni e aperture, che per molti anni hanno improntato anche la sua generosità pedagogica nel dimostrare scuola di eleganza in arrampicata lungo la Napoleonica.

Ne narro qualcosa nel libro L’alpinismo è un altro mondo, presentato nel 2023 a Gorizia. Con sensibilità nella ricerca, Max Bressan ha sovraimpresso sul manifesto di “èStoria” il profilo di Fulvia, tratto da una fotografia apparsa su un libro ormai di antiquariato: l’avevo scattata al rifugio della XXX Ottobre allora “Dina Dordei” nei Cadini di Misurina – secondo me, la si riconosce subito ancora. E pensando a lei, trovo che, per indicare la ZAT stessa, una parola chiave non sia tanto inclusione quanto accoglienza.

Il Vertice di Valmadrera
Vertice è l’annuario della sezione del CAI di Valmadrera, cittadina nel lecchese geografico dove la fama e le contese sono fondamenti della storia dell’ alpinismo. Che insieme alle eccellenze alpinistiche di Cassin e dei Ragni di Lecco ne sia emerso a Valmadrera anche un pregevole e diffuso prodotto editoriale, è frutto di una consapevolezza non comune nella cultura dell’andare in montagna. Consapevolezza presente tra vari soci, ma realizzata a stampa in volume da alpinisti divenuti mecenati, provenienti dal mondo operaio e passati professionalmente alla grafica.

Uno di loro, Gianni Magistris, che insieme a Luciano Riva è in pratica il factotum dell’annuario, aveva incontrato (e ammirato) Bianca di Beaco anni fa nelle Dolomiti di Brenta. Quando gliene parlai, proponendo una sua collaborazione con Vertice, è stato lieto e d’accordo. Gli scritti di Bianca sono stati molto apprezzati, lei ne è stata grata, tanto da affidare a Gianni una raccolta dei suoi articoli del passato. Gianni ha voluto riunirli in una pubblicazione: grazie al suo impegno privato, il lascito culturale di Bianca ha visto la luce in edizione CAI con il volume Non sono alpinista, che ora circola, premiato in più occasioni.

Ho parlato di mecenati e lo affermo a ragione: anche in memoria di Gino Buscaini, gli stessi hanno allestito una mostra itinerante dei disegni e fotografie di Gino, a disposizione delle sezioni del CAI, che è stata esposta con successo in molti luoghi d’Italia. Ultima in ordine di tempo, ospitata con dedizione speciale dalla XXX Ottobre a Trieste.

Tutto per colpa della ZAT…

Per il domani
Qualunque tipo di ZAT è temporanea per definizione: apre orizzonti, movimenta le vite, poi finisce con noi. Che possa anche evolvere in una forma antropologica permanente come nella prospettiva sociale di Hakim Bey, mi pare anche augurabile, benché per intanto troppo idealistico.

Ma in ogni caso, la variante alpinistica della ZAT che abbiamo vissuto noi ci concede la trasmissione dell’esperienza, con l’auspicio che possa rinascere in qualche forma adatta per gli alpinisti di domani. Così, ho pensato di ricordare ad altri Nino e Luigino in questo modo, e vorrei che del loro transito, inconsueto rispetto al “mondo degli omologati”, rimanga come lascito l’esempio di priorità generosa nei rapporti umani, di iniziative e coraggio senza pretese.

Potete raccogliere l’esempio e tentarlo a modo vostro. Sappiate che si può uscire dai binari senza perdersi, che la nostra vita di alpinismo modello ZAT ci ha arricchito e commosso e fatto piangere da ultimo, ma che ne è valso la pena.

A noi rimane in triestino il quel che xè ciapà, xè ciapà consolatorio, che prosegue in sguardo patagonico di avventura, con un “gracias a la vida” per coloro cui è dato continuarla ancora per un po’ – impigliati con gratitudine negli ultimi fili della ZAT prima che il destino ne distrugga la ragnatela.

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Nino Corsi e Luigino Bianchi ultima modifica: 2024-02-11T05:39:00+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Nino Corsi e Luigino Bianchi”

  1. Grazie Silvia di questi bei ricordi di cui ci hai reso partecipi.
    Leggendo le tue parole vedo il sogghigno compiaciuto del Bianchi palesarsi sul suo volto !
    Spero che le nostre strade possano presto ritrovarsi, chissà magari riuscendo, per l’occasione, a smuovere anche il Lino.
    Un abbraccio Ivan B.

  2. Grande Silvia, in particolare per aver svelato le vostre ZAT, come per tanti di noi : danno la vera direzione alla vita.
    Con sincera stima, franco tosi padova

  3. ———  A  SILVIA  ———
    Avrei voluto lasciare pure io un commento. Il mio rispetto reverenziale per Silvia Metzeltin è però tale che ho perduto la parola…
     
    La ringrazio comunque per la stupenda autobiografia, Alpinismo a tempo pieno. 
    Proprio pochi giorni fa l’ho riletta per l’ennesima volta. In realtà il verbo non è esatto: ho assaporato con lentezza i brani qua e là, gustandomi parole e pensieri.
    In particolare, come le volte precedenti, mi sono commosso di fronte alle riflessioni esistenziali di Forse un fiore azzurro, in memoria di un amico caduto in montagna. Anche Val d’Ansiei però non scherza: breve ma intenso, colpisce il bersaglio.
     
    Il suo libro, assieme a pochi altri, ha avuto un’importanza non lieve su ciò che ora sono e penso. Grazie ancora.
     

  4. Grazie Silvia, per avere detto cose che quasi mai figurano nelle storie dell’alpinismo, ma che rendono gli alpinismi meritevoli di vivere nella memoria. E di avere chi quella memoria sa abitare e trasmettere.

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