Le Olimpiadi hanno costi elevatissimi, spesso di gran lunga superiori alle previsioni. Inoltre, resta da dimostrare che favoriscano la pace o siano in grado di alleviare le tensioni diplomatiche tra paesi in conflitto.
Olimpiadi: sono ancora una buona idea?
di Moisés Naím*
(pubblicato sul numero di luglio 2021 di We World Energy)
Puntualmente, ogni quattro anni alla TV prendono a ricordarci e ripeterci che le Olimpiadi moderne nacquero nel 1896 con il nobile obiettivo di promuovere la pace nel mondo. Restano tuttavia poche le prove di questa loro utilità, e ancor meno quelle della loro supposta capacità di alleviare le tensioni diplomatiche tra paesi in conflitto. Come dimostrato dai boicottaggi di Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni Ottanta, le Olimpiadi possono anche fare il contrario, cioè portare ancor più acqua al mulino delle tensioni diplomatiche.
Gli elefanti bianchi e gli sforamenti di budget
Sforare il budget fa parte della tradizione olimpica quasi quanto l’accensione della torcia. La prima volta fu nel 1976, quando Montreal realizzò uno stadio futuristico, dotato di un tetto telescopico all’avanguardia che tuttavia non era adeguato a sostenere il peso della neve e non fu pertanto mai utilizzato. Il Big O è costato il doppio del budget iniziale (770 milioni di dollari), ed è stato finanziato con un bond a 30 anni che i cittadini di Montreal hanno finito di pagare, a suon di tasse, nel 2006: lo stadio si è ben meritato il sardonico nomignolo di Big Owe, il Grande Debito.
Quello di Montreal è stato solo il primo episodio della lunga tradizione olimpica dei cosiddetti elefanti bianchi: infrastrutture nuove di zecca e scintillanti, per sport quali ciclismo indoor e nuoto, che sono molto costose da mantenere e impossibili da riempire una volta spenti i riflettori sulle competizioni. Come ormai ampiamente dimostrato da Rio e Atene e da Sarajevo e Pechino, subito dopo i Giochi gli impianti olimpici perdono attrattività, sempre, con una regolarità inquietante. Si è così scoperto che profondere denaro in infrastrutture all’avanguardia destinate a essere utilizzate una sola volta non è certo la cosa più prudente, dal punto di vista dei bilanci. Bent Flyvbjerg e Alexander Budzier, ricercatori della Oxford University, hanno rilevato uno sforamento del budget medio del 172 percento in tutte le edizioni delle Olimpiadi dal 1960 al 2020.
L’impatto sull’UE di Atene 2004
Comunque, il problema dei costi riguarda solo gli sfortunati abitanti di quelle città che si fanno ingolosire dalle glorie olimpiche, vero?! Riflettiamo bene. In un futuro ancora lontano, quando gli storici guarderanno alla nostra epoca, ciò che probabilmente più risalterà ai loro occhi sarà come le Olimpiadi estive del 2004 ad Atene riuscirono a destabilizzare il più grande progetto di integrazione degli ultimi cent’anni: l’Unione Europea.
Probabilmente molti lo hanno dimenticato, ma i 9 miliardi di euro spesi per ospitare i Giochi volsero la situazione finanziaria del paese da problematica a catastrofica. Nel 2004 le Olimpiadi portarono il deficit di bilancio greco al 6,1 percento del PIL, più del doppio del limite massimo del 3 percento indicato dalle norme europee. La spesa olimpica, in larga parte profusa in elefanti bianchi abbandonati subito dopo i Giochi, aprì la scena alla profonda crisi del debito 2008-2010, con conseguente destabilizzazione dell’euro, devastazione dei mercati europei e fine all’età d’oro dell’integrazione europea, preparando il terreno per la Brexit. Per non parlare poi dell’impatto sugli stipendi e sulle pensioni dei cittadini greci. Difficilmente Atene potrà mai perdere il posto d’onore che si è guadagnata nella lunga e folle storia delle spese olimpiche.
Forse, le Olimpiadi rivelano il vero carattere di chi le ospita, più che trasformarlo. Alcuni paesi ospitanti hanno tenuto un atteggiamento molto rigido contro lo sforamento dei costi e sono stati intransigenti sulla necessità di piani realistici per il futuro post-olimpico delle infrastrutture. A Vancouver, i Giochi invernali del 2010 sono stati finanziati quasi interamente da privati e si sono costruite solo le infrastrutture ritenute necessarie a prescindere dalle Olimpiadi; i Giochi hanno così generato profitto senza lasciare in eredità alcuno sgradevole imprevisto. Anche i Giochi di Londra del 2012 e quelli invernali di Torino del 2014 sono stati capaci di evitare sprechi.
I costi stratosferici di Sochi 2014
Per le cleptocrazie, tuttavia, le Olimpiadi sono una prospettiva troppo allettante. I famigerati Giochi invernali di Sochi del 2014, in Russia, hanno avuto un costo complessivo di 55 miliardi di dollari, pari a 4,5 volte la stima iniziale, superando di più di otto volte i Giochi invernali al secondo posto per costi. I contribuenti russi si sono visti addossare il 97 percento di tale spesa e continuano a sborsare 1,2 miliardi di dollari l’anno per finanziare il debito così generato e per mantenere impianti che difficilmente si riempiranno mai più.
Naturalmente, Sochi non ha speso tutti i 55 miliardi di dollari in infrastrutture. Dieci miliardi, per esempio, sono serviti a finanziare il collegamento ferroviario e stradale nuovo di zecca tra la città e la località teatro della maggior parte delle gare di discesa, distante circa 48 chilometri. Ormai da tempo i ricercatori hanno rilevato che costruirle in occasione delle Olimpiadi ha fatto inevitabilmente lievitare alle stelle i costi di queste infrastrutture, ma la necessità che il governo ospitante rispetti l’inderogabile scadenza nelle trattative sovverte in modo importante gli equilibri di potere a favore degli appaltatori, che si trovano liberi di approfittare della situazione. In Russia, dove il vero scopo era riempire le tasche dei compari del regime, questa dinamica è stata vista quasi come un tratto di folclore più che come un difetto. Di fatto, le infrastrutture non sportive per le Olimpiadi invernali di Sochi hanno finito per costare il 347 percento di quanto inizialmente stimato.
Tokyo, successo o fallimento?
Venendo a oggi: i Giochi di Tokyo passeranno alla storia come un successo o come un fallimento? Anche per il Giappone i costi sono un problema. Nonostante la drastica riduzione delle ambizioni dello stadio olimpico, il costo degli impianti sportivi è già raddoppiato rispetto alla previsione iniziale e ammonta ormai a 15 miliardi di dollari: un importo che supera i costi di tutte le precedenti edizioni dei Giochi estivi. Si prevede che i costi complessivi (upgrade infrastrutturali compresi) ammonteranno infine a 28 miliardi di dollari: un altro record per i Giochi estivi. Inoltre, la pandemia di Covid-19 ha imposto importanti costi aggiuntivi e complicato enormemente le necessità logistiche. Il professor Jules Boykoff, autore di quattro saggi sui Giochi olimpici, avverte che in Giappone “i sondaggi rilevano che circa l’80 percento della popolazione è contraria a che il paese ospiti le Olimpiadi nel bel mezzo della pandemia. Rispetto alle altre economie sviluppate, il Giappone è in ritardo con le vaccinazioni e solo da poche settimane ha portato finalmente a pieno regime la vaccinazione degli under 65. Agli oltre 11.000 atleti provenienti da più di 200 paesi che parteciperanno ai Giochi non si richiede la vaccinazione”.
Se l’esperienza insegna, è davvero improbabile che il ritorno d’immagine portato al Giappone dalle Olimpiadi possa mai valere l’enorme spesa.
Olimpiadi dalla buona riuscita che abbiano costi ragionevoli e lascino un’eredità positiva alla città che le ospita sono l’eccezione, non certo la regola. Il rischio è che la crescente difficoltà dei governi dei paesi democratici nel giustificare la spesa ai propri elettori spinga i Giochi olimpici sempre più verso paesi autoritari. La soluzione è fin troppo ovvia: scegliere per le Olimpiadi una sede unica e permanente, magari in Grecia, nei pressi del monte Olimpo, o in un paese neutrale, ricco e sobrio come la Svizzera, già sede del Comitato Olimpico Internazionale (CIO).
L’appello a creare una sede olimpica permanente è ormai frequente, ma non ha mai seguito. Forse quest’idea non verrà mai davvero accolta e messa in atto proprio perché è fin troppo sensata, troppo prudente in termini di budget e troppo intelligente dal punto di vista ambientale.
*Moisés Naím è membro del Carnegie Endowment di Washington DC. Il suo libro più recente è The End of Power.
Considerazioni
di Carlo Crovella
Ho seguito le mie prime Olimpiadi nel 1972, erano quelle di Monaco di Baviera. Io avevo 11 anni e ho vissuto due settimane in perenne trepidazione per gli esiti sportivi: ho trascorso l’intero periodo dei Giochi con l’orecchio attaccato alla radio perché al tempo non avevamo la Tv in casa (scelta ideologica famigliare). Ho seguito con interesse e, a volte con rinnovata trepidazione, tutte le edizioni successive: sono ormai 13 edizioni, compresa quella di Tokyo 2020 (in realtà 2021). Idem per i Gioghi invernali, da Sapporo 1972 in poi. Il mio interesse personale per le Olimpiadi è andato scemando via via, in particolare dal 2000-2004 in poi. Si è perso lo spirito olimpico, il circo è diventato solo più un mega business: si seguono le mode del momento (certi sport “storici” sono tagliati a favore di altri “emergenti”). I Giochi sono solo più la celebrazione della cementificazione (nuovi impianti a go-go), spesso con ardite manovre finanziarie che in alcuni casi hanno messo in crisi il Paese organizzatore: è accaduto alla Grecia, indebitatasi oltre misura per l’edizione 2004, a vantaggio del profitto di pochi e a scapito (negli anni successivi) delle fasce più deboli della popolazione.
Ne vale ancora le pena? Da qualche tempo sentivo dentro di me che la risposta è ormai “NO”, ma l’edizione 2020-21 me lo ha confermato in modo irreversibile. Oltre alle motivazioni complessive, così ben illustrate nell’articolo allegato, aggiungo una considerazione personale. Sono conscio che si tratta di una posizione ideologicamente minoritaria, ma questo non significa che sia sconclusionata: io trovo che le grandi manifestazioni sportive per nazionali abbiano ormai perso di significato. Un tempo il succo sportivo dei Giochi (e delle altre grandi manifestazioni) era costituito dal confronto, leale e schietto, fra le diverse scuole sportive: statunitensi contro europei, africani contro russi, asiatici contro latinoamericani, ognuno metteva in gioco le proprie caratteristiche non solo sportive ma più generali, di popolazione e di cultura: preferenze, resistenza, furbizia (nel senso buono), tattica, irruenza e soprattutto le più svariate caratteristiche biodinamiche.
Ora invece, al seguito della globalizzazione, siamo di fronte ad un profondo rimescolamento umano di tutto il pianeta, fenomeno che sconvolge il soprastante principio. Atleti che di per sé condividerebbero le caratteristiche come origine etnica, religiosa, culturale e ideologica, gareggiano in squadre diverse solo perché hanno passaporti differenti. Non è più un confronto fra Nazionali, ma un confronto fra “multinazionali”, è solo più una questione burocratica.
Per esempio io sostengo che, a Tokyo, il podio dei 100 metri piani sia in realtà un podio completamente “americano”, solo che il primo ha il passaporto italiano, il secondo ha il passaporto statunitense e il terzo ha il passaporto canadese. Guardate come corrono, che movenze hanno, come esprimono la loro personalità durante la gara e comprendete che la mia analisi è fondata. Diverso, molto diverso, era quando il mingherlino Mennea si confrontava “davvero” con gli statunitensi o con il potente sovietico Borzov…
Ora sono tutti uguali: corrono tutti nello stesso modo, saltano tutti nello stesso modo, calciano tutti nello stesso modo. Non ritengo che questo sia un valore, è il soffocamento della biodiversità umana. Se sul fronte ecologista ci battiamo per conservare la biodiversità della natura, dovremmo estendere il principio anche all’umanità. Si tende invece a preferire l’esatto opposto: per questo motivo le Olimpiadi non hanno più senso.
Spendere tutti ‘sti soldi, sventrare il territorio e cementificarlo per nuovi impianti, pagare 15 giorni di vacanze a inviati-giornalisti-commentatori ecc non ha senso in sé, ancor meno se si giunge alla mia stessa conclusione.
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