Pacific Trash Vortex
(da wikipedia e altre fonti)
Il Pacific Trash Vortex (Vortice di pattume dell’Oceano Pacifico), noto anche come Great Pacific Garbage Patch (grande chiazza di immondizia del Pacifico) o semplicemente isola di plastica è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (composto soprattutto da plastica) situato nell’Oceano Pacifico, approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord. La sua estensione non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 kmq fino a più di 10 milioni di kmq (cioè da un’area più grande della penisola iberica a un’area più estesa della superficie degli Stati Uniti), ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell’Oceano Pacifico (Questa incertezza di cifre è collegata al fatto che non esiste un criterio univoco per determinare il confine fra livelli di inquinanti considerati “normali” e livelli “elevati”, come non ne esiste uno per identificare i residui che fanno stabilmente parte della chiazza).
Indicato anche tra i peggiori disastri ambientali della storia, continua a crescere, affermandosi di fatto come la più grande discarica del Pianeta.
Nonostante le valutazioni ottenute indipendentemente dall’Algalita Marine Research Foundation e dalla Marina degli Stati Uniti stimino l’ammontare complessivo della sola plastica dell’area in un totale di 3 milioni di tonnellate, nell’area potrebbero essere contenuti fino a 100 milioni di tonnellate di detriti e, stando a quanto descritto da Charles Moore, cui si deve l’attenzione mediatica sul fenomeno, “questa massa galleggiante potrebbe raddoppiare le sue dimensioni entro il prossimo decennio”.
L’accumulo si è formato a partire dagli anni Cinquanta, a causa dell’azione della corrente oceanica chiamata Vortice subtropicale del Nord Pacifico (North Pacific Subtropical Gyre), dotata di un particolare movimento a spirale in senso orario: il centro di tale vortice è una regione relativamente stazionaria dell’Oceano Pacifico (ci si riferisce spesso a quest’area come la latitudine dei cavalli), che permette ai rifiuti galleggianti di aggregarsi fra di loro formando una enorme “nube” di spazzatura presente nei primi strati della superficie oceanica.
La prima mappatura delle isole di plastica negli oceani è del luglio 2014, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences. Vedi a questo proposito anche Laura Parker, La prima mappa della spazzatura oceanica.
Caratteristiche
Per diversi anni alcuni ricercatori oceanici, tra cui Charles J. Moore, hanno investigato a fondo la diffusione e la concentrazione dei detriti plastici presenti nel Vortice subtropicale del Nord Pacifico.
Come spiega lo scienziato Marcus Eriksen, la Garbage Island non è visibile dal satellite in quanto sarebbe collocata appena al di sotto della superficie marina, fino a 10 metri di profondità.
Dislocazione delle isole di immondizia negli oceani
La concentrazione stimata della plastica è di 3,34 × 106 frammenti per km², con una media di 5,1 kg/km² raccolti utilizzando una rete a strascico rettangolare delle dimensioni di 0,9×0,15 m. A 10 m di profondità è stata individuata una concentrazione pari a poco meno della metà di quella in superficie, con detriti che consistono principalmente di monofilamenti, fibre di polimeri incrostati di plancton e diatomee.
E’ possibile trovare di tutto dai sacchetti di plastica a palloni da calcio, dai mattoncini lego a scarpe, borse e milioni di bottiglie e lattine.
Occasionalmente ci sono state perdite di interi container trasportati da navi cargo, il cui contenuto è andato non solo ad alimentare il Nord Pacific Gyre, ma anche ad arenarsi su spiagge poste ai confini del Pacific Trash Vortex.
La grande chiazza di immondizia si è formata nella zona di convergenza del Vortice subtropicale del Nordpacifico
La più famosa perdita di carico è avvenuta nel 1990, quando dalla nave Hansa Carrier sono caduti in mare ben 80.000 articoli, tra stivali e scarpe da ginnastica della Nike che, nei tre anni successivi, si sono arenati nelle spiagge degli stati della British Columbia, Washington, Oregon e Hawaii.
Il maremoto che ha colpito la costa orientale giapponese l’11 marzo 2011 ha provocato un enorme afflusso di detriti nell’oceano; questi galleggiando, spinti dalle correnti, si sono distribuiti nell’oceano Pacifico, raggiungendo anche la costa americana.
In definitiva però non sembra che il grosso dell’ammasso di spazzatura provenga dalle navi e piattaforme petrolifere: in maggioranza i rifiuti provengono dalle discariche selvagge asiatiche.
E in questo mare di spazzatura è possibile ritrovare anche materiali risalenti agli anni ’50. Ciò dipende dal fatto che le materie plastiche non essendo del tutto biodegradabili, pur disintegrandosi in pezzi piccolissimi nel corso del tempo, non si eliminano completamente e i polimeri che le compongono finiscono per arrivare nella catena alimentare, scambiati per plancton e mangiati dalla fauna marina.
Mentre i rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, in questa zona oceanica si sta accumulando un’enorme quantità di materiali non biodegradabili come plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono; nondimeno, questi ultimi restano plastica e la loro biodegradazione resta comunque molto difficile. La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da PCB (policlorobifenili, considerati inquinanti persistenti dalla tossicità in alcuni casi avvicinatesi a quella della diossina).
Il galleggiamento delle particelle plastiche, che hanno un comportamento idrostatico simile a quello del plancton, ne induce l’ingestione da parte degli animali planctofagi, e ciò causa l’introduzione di plastica nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina prelevati nel 2001, il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell’area, era superiore a sei parti di plastica per ogni parte di zooplancton.
L’isola costituisce un nuovo ecosistema dove la plastica è colonizzata da circa mille tipi diversi di organismi eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, tra cui diatomee e batteri, alcuni dei quali apparentemente in grado di degradare la materia plastica e gli idrocarburi. In esso si trovano anche agenti potenzialmente patogeni, come batteri del genere vibrio. La plastica, a causa della sua superficie idrofobica, presenta una maggior resistenza alla degradazione e si presta a essere ricoperta da strati di colonie microbiche.
Una mappa delle correnti oceaniche
Altre isole oceaniche di rifiuti
A seguito di ricerche condotte con una serie ventennale di crociere scientifiche svolte fra il Golfo del Maine e il Mar dei Caraibi, la ricercatrice Kara Lavender Law ha riscontrato anche nell’Oceano Atlantico un’elevata concentrazione di frammenti plastici in una zona compresa fra le latitudini di 22°N e 38°N, corrispondente all’incirca al Mar dei Sargassi (North Atlantic garbage patch). Simulazioni al computer hanno individuato due altre possibili zone di accumulo di rifiuti oceanici nell’emisfero meridionale: una nell’oceano Pacifico a Ovest delle coste del Cile e una seconda allungata tra l’Argentina e il Sud Africa attraverso l’Atlantico.
Un sesto accumulo di rifiuti potrebbe essere in corso di formazione nel mare di Barents, col rischio di un suo spostamento nell’Oceano Artico.
La plastisfera
Questi vortici di spazzatura stanno creando anche una sorta di nuovo habitat per i microbi: la Plastisfera.
«La Plastisfera – spiega il team della Woods Hole Oceanographic Institution che ha condotto lo studio – è la flottiglia delle comunità microbiche collegata ai detriti di plastica in mare». Amaral Zettler, Erik Zettler e Tracy Mincer hanno raccolto campioni (la maggior parte dei quali plastica della dimensione di un millimetro) nel Nord Atlantico, e hanno analizzato i loro passeggeri microbici. «La Plastisfera – dicono – solleva una serie di domande. Come cambiano le condizioni ambientali di microbi marini e la loro competizione per la sopravvivenza? Come cambia l’ecosistema marino e come il fenomeno incide sugli organismi più grandi? Cosa cambia se i microbi, patogeni compresi, vengono trasportati nel mare? Dato che le plastiche sono così longeve, possono svolgere un ruolo significativo nella distribuzione dei batteri nel mare».
Azioni di sensibilizzazione
Nel 2012 lo studente di ingegneria Boyan Slat ha ideato un concept finalizzato alla pulitura degli oceani dalla plastica: The Ocean Cleanup. Secondo gli studi effettuati dal suo team il processo di pulitura sarebbe praticamente a costo zero, poiché realizzato sfruttando la luce solare, l’energia delle correnti marine e mediante il riciclo a terra dei materiali raccolti.
Per approfondimento:
Susan L. Dautel, http://digitalcommons.law.ggu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1038&context=gguelj
CHE SFREGIO ALLA NATURA.
Potremmo invitare le varie organizzazioni ambientaliste che possiedono splendide navi e di solito fanno arrembaggi o sceneggiate, a recarsi da quelle parti e fare un po’ di raccolta, per poi darle a qualche azienda che le ricicla o ne fa asfalti o altro.
Però potremmo proporlo anche a qualche ONG, tanto più che l’affare dei rifiuti è migliore, perché ben legalizzato dappertutto, di quello dei clandestini, che ormai supera quello della droga….. così dicono gli esperti….
Ma la volontà non c’è, non interessa….. come il pattume all’Everest…… o più semplicemente lo schifo della capanna Vallot……. Toto diceva che lui non si lavava mai perché lui era pulito!
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