Padre Pio prega per tutti
di Patrick Gabarrou
Avevo 14 anni e vivevo in una campagna piatta ben lontana da tutti i rilievi quando vidi per la prima volta la più famosa piramide naturale, il Cervino.
Ero in collegio. Quell’anno avevo avuto accesso alla biblioteca dei «grandi». E lì, qualche persona ispirata aveva messo due libri di montagna di Gaston Rébuffat, uno sul Monte Bianco e l’altro sulla «Cima esemplare».
La parete sud del Cervino: al centro spicca il triangolo roccioso del Picco Muzio
Diverranno i miei compagni di lettura, di scoperta e di sogno. Passando da uno all’altro, partivo in viaggio verso il mondo delle altezze, così altrove, lontano e al di sopra dei campi d’erba e di frumento che erano nel moi quotidiano; anche ben oltre il campo di calcio per il quale nutrivo una vera passione. Nacque così la mia vocazione alpina, nutrita dalla rara bellezza di una montagna e dalla storia degli uomini da lei attirati fino alla follia.
Ero già guida quando finalmente a Zermatt ebbi modo di scoprire dal vero quella leggendaria piramide e poi di percorrere per la prima volta quello straordinario filo d’arianna sospeso tra le due cime sopra l’immenso vuoto della Valtournenche e della Mattertal. Sottile emozione, potente, qualche istante dal sapore quasi atemporale. Un pezzetto di terra e di tempo sospeso, sul quale si cammina in equilibrio e coscienti dell’eccezionalità del momento.
Ho avuto modo in seguito, nel corso degli anni, di salire lassù per diversi itinerari, sempre con la più grande ammirazione per quelli che li avevano aperti. Su quest’alta montagna non ci sono itinerari banali, soprattutto quando ci si mette anche la neve: io mi ci sono sempre sentito di passaggio, forse più che altrove.
Ciò che mi ha sempre colpito è l’atmosfera che ti avvolge non appena si ritorna alla base: sembra tutto altissimo e inaccessibile. Ed è difficile credere veramente di essere appena stati lassù, dove la roccia si confonde con il cielo, solo qualche ora prima. Dopo aver veleggiato per qualche istante tra terra e cielo, giù mi ritrovo sempre l’ometto che sono.
E così questa montagna non ha mai smesso d’esercitare su di me il maestoso fascino del primo incontro, e ogni volta che la vedo, da qualsiasi angolatura di visuale geografica, mi fa vibrare di particolare emozione. La vivo come un dono prezioso, come fosse l’unico concessomi, al cuore della realtà del paesaggio, del sogno, del ricordo: un istante di grazia.
Se la parete nord del Cervino, con il suo slancio ritorto verso l’alto, è universalmente nota, non si può dire lo stesso dell’immensa parete sud. Un mondo formidabile e complesso, quasi sconosciuto, anche a quelli che hanno salito la cresta del Leone.
Solo i grandi scalatori di Valtournenche, i Carrel, i Barmasse e compagni hanno dimestichezza con quei luoghi. Loro hanno vissuto tanto tempo in quell’abisso verticale, ma ancor più hanno passato una vita sotto e assieme alla grande parete, nel corso delle stagioni, delle nuvole e delle schiarite, come fosse di famiglia.
Per parte mia, solo qualche anno fa, non la conoscevo che vagamente. Le relazioni, spesso poco precise, sottolineavano la sua grande ripidezza, in generale la mediocrità della roccia e il pericolo di caduta sassi. Nulla che facesse venir voglia di approcciarla ma, al di là della scalata, da lungo tempo io ne ammiravo l’architettura di questa sfinge valdostana, sognando di decifrarne i rilievi, gli angoli segreti e le grandi linee di forza.
Un giorno di primavera vi andai sotto. Fu giusto prima dell’arrivo del cattivo tempo, una giornata piena di gioia semplice, di serenità e di spazi, come sempre li desideriamo e ce ne abbeveriamo. Andavo qua e là in mezzo ai fiori, mi fermavo e ripartivo a piacere, in quell’essere senza fretta di un camoscio indisturbato. Ero deliziosamente immerso nella grandiosità dell’altezza, ma anche concentrato con disegni e binocoli per interpretare quel grande libro di pietra che, gigantesco e tormentato, mi riempiva lo spazio al di sopra.
Patrick Gabarrou nella prima ascensione di Padre Pio prega per tutti. Foto: Cesare Ravaschietto
Mi sorpresi moltissimo a scorgere, al centro di quella massa enorme, un magnifico slancio roccioso, di quel gneiss solido che spesso si ritrova in Vallese. Alto circa 700 metri, come appresi giusto lì dalla guida del club alpino svizzero, non era sfuggito alla famosa cordata di Calcagno, Cerruti e Machetto, quelli che assieme a Gogna e Manera a quel tempo esploravano, con classe e fortuna, le selvagge e grandi pareti ancora inviolate delle Alpi occidentali. Avevano salito il bel Pilastro dei Fiori che delimita a destra il grande triangolo roccioso che avevo notato. La guida proseguiva: «tecnicamente interessante, svolgentesi in gran parte su roccia sana, senza pericolo di caduta sassi e in generale con buone soste, questo itinerario è il più sicuro del versante sud. Quando si proseguirà l’ascensione oltre al Picco Muzio per gli strapiombi di Furggen, si sarà realizzata la più bella ed elegante salita al Cervino».
C’era di che risvegliare una forte attrazione per l’apertura di una via proprio al centro dell’obelisco.
Luglio 2002. Un anno dopo l’apertura di Free Tibet, vado in ricognizione alla base della parete con il mio amico Nicolae Morar, proprio per essere sicuri che ne valesse la pena. Verdetto più che positivo.
Risalendo le distese fiorite, poi i ghiaioni e i nevai che portano ai piedi della grande muraglia, avemmo lo stesso pensiero : dedicare questa via a Padre Pio, questo Francesco d’Assisi del XX secolo canonizzato giusto un mese prima. Un uomo che non ha soltanto portato per cinquant’anni le stigmate della Passione di Cristo su mani e piedi, ma che per una vita intera ha rappresentato donando tutto se stesso le gioie, le speranze e le sofferenze dell’umanità. Un uomo in carne e ossa che vedeva oltre il visibile che il percorso terrestre dell’uomo è un richiamo impensabile, dunque molto reale, all’eternità.
L’estate fu imbronciata e capricciosa, ma tornammo là due volte assieme a Nicolae Morar e Maxime Lopez, scalando nonostante piogge e temporali, fino ad attrezzare una decina di lunghezze, talvolta con infissi là dove la roccia per la sua compattezza non si prestava all’uso delle protezioni mobili.
E a metà agosto ritrovai finalmente «Super Cege», il Cesare Ravaschietto moi compagno su Free Tibet. Era sempre uguale. Due giorni dopo tocchiamo la cima di quell’eccezionale triangolo roccioso dopo aver disegnato sui fianchi della «Cima esemplare» una magnifica linea moderna, da noi offerta a tutti gli alpinisti amanti dell’ambiente, delle lunghe scalate e dei fiori.
Patrick Gabarrou e Cesare Ravaschietto di ritorno da Padre Pio prega per tutti
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Grande Gabarrou, alpinista romantico e alpinista di eccezionale livello.
Poeta dei monti! Se ci fossero piú persone come te, sarebbe piú bello scalare le montagne.