Parete dei Militi – 75 anni di storia
di Claudio Blandino
(pubblicato su caialmese.it e Muntagne Noste n. 27, 2012)
La Militi: con questo nome generazioni di alpinisti conoscono la grande parete che si erge, sulla sinistra, all’imbocco della Valle Stretta.
Una parete con una storia che vale la pena di raccontare: la vicinanza con Torino, l’accessibilità facilitata dal treno che raggiunge Bardonecchia a partire dal 1871, la maestosità che non ha eguali nelle montagne torinesi ha fatto sì che praticamente tutti gli alpinisti «occidentali» si siano cimentati o abbiano almeno percorso con lo sguardo le sue verticali pareti.
La nostra storia non ha un inizio preciso.
La parete non passa inosservata agli occhi degli alpinisti di fine ‘800, ma ha un aspetto così aggettante che la sua scalata non viene presa neanche in considerazione. Sono gli anni dell’esplorazione, della scienza, della conquista delle cime, dell’alpinismo con le guide; si passa sotto la parete (il nome trae origine da un posto della Milizia Confinaria che, negli anni ’30, si trovava alla sua base nei pressi dell’attuale bergeria) ma si guarda al Tabor, ai Serous (allora chiamati Rocs Sauvours) e le altre montagne.
“D’aspetto molto meno desolato è il versante destro. Dappertutto lo rivestono, fin sotto alle vette, qui non molto elevate, dense e nere foreste di conifere, tranne in un punto, ove si spiega, per circa un chilometro, una immensa, liscia, altissima parete di nude rupi di calcare giallastro, assolutamente a picco, sul cui ciglione superiore, a spaventevole altezza appaiono alcuni pini sospesi ed inclinati sull’abisso quasi a sogguardare nel fondo della valle”.
Così scriveva il dottor Filippo Vallino nel 1878. Arriva il ‘900 e con esso nuovi alpinisti e nuove idee, si formano cordate di alpinisti senza guida, che scalano la roccia per raggiungere vette inviolate, per aprire nuovi itinerari di salita, per essere i primi a battezzare cime e pareti.
È una competizione a distanza che porta nomi famosi e meno noti in Valle Stretta ad avventurarsi su ogni guglia, picco o parete, spesso rischiando la vita in salite non difficili ma su roccia marcia e instabile, avventurandosi in camini, diedri, fessure e pietraie. E dietro i primi – anche se pochi – altri ripetitori: alpinisti meno famosi o meno capaci o meno determinati o semplicemente arrivati in ritardo, ma animati dallo stesso spirito di conquista, di volontà di salire, di ricerca della vetta.
Anche per questi uomini la grande parete all’imbocco della Valle è un osso troppo duro e poi, sopra, ci sono i pini e non c’è la vetta. Non è nella concezione del tempo rischiare su una parete senza cima.
Occorrerà aspettare gli anni ’30, quando l’evoluzione dei materiali, della tecnica, e soprattutto della mentalità saranno in grado di far pensare che quella parete è scalabile.
Le ideologie nazionaliste, quelle dell’uomo eroico che sfida e affronta la natura, hanno bisogno di sempre nuove pareti per cimentarsi.
Mentre la sfida internazionale si gioca sulle grandi incognite del tempo, dall’Eiger alle Grandes Jorasses, dalle Cime di Lavaredo al Cervino, a livello locale negli ambienti torinesi si guarda anche alla Parete dei Militi.
“Nel 1935 – scrive Achille Calosso – questa parete era ancora vergine, un po’ per la mancanza di vere e proprie attrattive alpinistiche, un po’ per le difficoltà che comportava la sua conquista.
Con tono scherzoso Stefano Ceresa la definiva «il grandioso problema della Valle Stretta». Allora da pochi anni era stato introdotto tra gli occidentali l’uso di perfezionati mezzi artificiali, grazie ai quali si faceva più semplice l’arrampicare.
Si aprivano perciò ovunque nuovi orizzonti per gli amanti di primizie, fra quelle anche la Parete dei Militi”.
E sono proprio Stefano Ceresa e compagni a cimentarsi per primi (o almeno di loro sono le prime notizie) con la grande parete. Seguiamo il racconto di Achille Calosso: “Torniamo alla parete e all’iniziativa di scalarla da parte di Stefano Ceresa.
Vecchio frequentatore di Bardonecchia, Stefano era profondo conoscitore delle montagne di Valle Stretta e si interessava ed appassionava ad ogni loro problema. Propose la salita e formò una piccola squadra d’assalto: oltre a lui ed a suo fratello Paolo, Enrico Adami, Enrico Devalle ed il sottoscritto. […] Nel tardo pomeriggio d’un sabato ci troviamo all’attacco della parete e tentiamo singolarmente di forzare il primo salto all’inizio della sua parte centrale, mediante aggiramento dello strapiombo dalla sua parte destra. L’animazione così detta sportiva si acclimatò presto in me tanto da incutermi quel minimo di morale necessario per riuscire; a fissarlo in modo più saldo ci pensò il giorno dopo un pizzico di amichevole spirito di competizione con altra cordata di rocciatori, anche essi animati da evidenti seri propositi”.
Dopo un primo tentativo effettuato il sabato pomeriggio per forzare il primo salto nella parte centrale della parete, il giorno dopo si decide di cambiare zona: “A mio avviso, la via più logica è quella della fessura che solca in alto la parte sinistra guardando, oggi chiamata «gran diedro». Ci consultiamo e di comune accordo verso quella ci dirigiamo. Man mano che saliamo, e quantunque molte incognite possa riservarci la salita, mi convinco sempre più della felice scelta. La roccia però è assai friabile ed occorre manovrare con prudenza. Raggiunta la parte alta, alla base del gran diedro cedo il passo a Stefano Ceresa. Presto la chiave della salita gli si presenta con un serio ostacolo da sormontare. Mentre egli «lavora» noi intoniamo un coro e lo allietiamo con canzonette varie”.
Ceresa riesce a piantare un chiodo e recupera Calosso che prosegue la scalata; verso la fine del tiro un chiodo, su cui si era appeso, si toglie. “Il chiodo mi tradisce, esce di scatto dalla sua sede e mi sento d’un tratto spacciato e lanciato nel vuoto. Un’unica preoccupazione, ricordo, quella di non battere in naso e quindi un forte slancio in fuori premendo maggiormente con i piedi. Il chiodo che seguiva veniva estratto a sua volta durante la caduta, mentre il seguente si piegava, ma resisteva.
Così pure resisteva la corda e mi trovavo penzoloni nel vuoto sotto uno strapiombo, svenuto e malconcio. A ricuperarmi si adoprarono in tutti i modi gli amici, per districare la corda dai rimanenti chiodi e per calarmi verso il basso. Venne presto la sera ed il bivacco si rese necessario mentre eravamo alti sulla parete, in una magnifica notte di stelle. […] Un autunno ed un inverno trascorsi fra ospedale e lenta convalescenza, stampelle e bastoni e finalmente il ritorno alla montagna!”.
Se per quell’anno la sfida era chiusa, nel ’36 si riapre la partita: “Intanto gli amici, più decisi che mai, vollero completare la salita e per atto di cortesia mi invitarono per la seconda spedizione.
Titubante dapprima e non ancora in piena efficienza fisica, sentii però la necessità di vincere la paura che mi era rimasta. Nulla di meglio, pensai, che ripassare sul posto dell’incidente e guardarlo… dall’alto in basso. Nel frattempo la cordata si era rafforzata d’un elemento di prim’ordine: Leo Dubosc, esperto alpinista e scalatore di doti eccezionali.
La salita non ebbe storia e grazie alla compiacenza degli amici ed alla bravura del nuovo compagno riuscii anch’io a vincere la parete ed a compierne con essi il primo percorso. Il «Grandioso Problema» era risolto e ricordo l’entusiasmo di noi tutti raggiungendo i prati sull’alto della bastionata”.
Ma è interessante scoprire chi fossero gli altri alpinisti che nel 1935 avevano tentato di vincere la grande parete, dando vita ad una piccola competizione a distanza. Racconta Michele Rivero: “Mentre stavamo per raggiungere l’attacco, avvertimmo un precipitoso scalpiccìo vicinissimo, dileguantesi man mano verso la nostra sinistra.
Quale strana fauna di grossa taglia popolava quello squallore? Poco dopo, dal sommo del conoide identifico un gruppetto di robusti quadrumani della nostra specie: «homo rampicantis», che si allontanava alla chetichella lungo il piede della parere per raggiungere, sotto un settore laterale di questa, a valle, l’attacco di un altro canalino meno ribelle.
Essi, come sapemmo poi, avevano tentato il nostro passaggio nel pomeriggio precedente, lasciando sul posto del materiale, al cui ricupero avevano provveduto mentre Castelli ed io stavamo giungendo. La nostra comparsa alla scoperta di un angolino ancor vergine della Terra aveva già stimolato il bacillo dell’emulazione, forza e debolezza del genere umano”.
Rivero e Alfonso Castelli superano il duro salto iniziale (poi denominato delle 3 vie) aprendosi il passo verso il cengione centrale, poi attraversano a destra in direzione del grande spigolo e ne iniziano la salita, ma dopo pochi tiri sono costretti a ritirarsi, a causa delle difficoltà elevate e della roccia marcia.
La stada è aperta e sulla Parete dei Militi arrivano altre cordate. Nel 1941 Giusto Gervasutti con Guido De Rege di Donato supera il grande camino di sinistra dei due che solcano il settore centro-sinistro della parete; poi, con Michele Rivero, supera il camino di destra. Per molti anni queste due vie, Gervasutti di sinistra e Gervasutti di destra saranno le classiche della parete; soprattutto la via di destra, che percorre il fondo di un liscio camino e sbuca in una piccola grotta con un itinerario intelligente, abbastanza protetto dalle cadute di pietre, con roccia buona e discretamente chiodabile.
“Ma certo Rivero pensa sempre al «suo» problema: il camino a sinistra del grande spigolo. Il 5 settembre del ‘43 con Giuseppe Gagliardone è all’attacco della parete. Ripercorrono il tratto iniziale ed attraversano lungo le terrazze fino ai piedi della parete terminale.
Salgono due lunghezze di corda senza incontrare difficoltà eccessive, a parte l’estrema friabilità della roccia.
Per raggiungere l’inizio del camino che si intravvede trenta metri più in alto, devono ora superare una fascia strapiombante completamente marcia, insuperabile. Gervasutti già aveva tentato, ma tradito da un appiglio instabile aveva compiuto un lungo volo, per fortuna senza gravi conseguenze.
Attraversano allora a sinistra e dopo trenta metri scoprono un piccolo diedro di roccia sana che incide la fascia strapiombante.
Lo superano e proseguono direttamente superando notevoli difficoltà su roccia molto malsicura, fino ad una cengia friabilissima, che attraversando a destra li riporta nella direttrice del camino. Lo percorrono fino al termine con interessante arrampicata in opposizione ad escono sulle grandi terrazze sommitali.“ Viene così realizzata la quarta via della parete oggi conosciuta come “via Rivero”, a suo tempo battezzata «la via del ramarro». È sempre Michele Rivero a spiegare il perché di questo nome: “Un caro amico, ricco d’immaginazione, indicò la soluzione del problema arrampicatorio nell’impiego, quale capo-cordata, di un ramarro gigante, opportunamente addestrato. Così egli mi disse quando gli indicai l’itinerario che avrei prescelto, proprio nel tratto centrale e più alto del bastione… se me la fossi sentita.”
Con la morte di Gervasutti nel 1946 il gruppo degli scalatori d’anteguerra esaurisce la propria spinta creativa; ma basterà aspettare solo pochi anni per rivedere sotto la Parete dei Militi una nuova generazione di alpinisti.
L’elenco delle realizzazioni è impressionante, sia per il numero sia per le difficoltà superate. In pochi anni vengono aperte 9 nuove vie e numerose varianti che solcano ogni settore di parete, mentre vengono ripercorse le prime vie in invernale e in solitaria.
Ma lasciamo raccontare a Gian Piero Motti questa parte di storia: “L’alpinismo torinese non è finito. Vi sono i giovani, i giovani che escono dalla guerra, senza soldi, con gli ideali distrutti ed infranti, i giovani che vedevano in Gervasutti un simbolo, un esempio da perseguire. Sono Guido Rossa, Corradino e Rodolfo Rabbi, Marco Mai, Umberto Prato, Giorgio Rossi, Giacomo Menegatti, Ettore Russo, Mario De Albertis, Arturo Rampini.
[…]
Tutte le domeniche si ritrovano nel grande prato sotto la parete, sono affiatati, sono tutti amici, un solo ed unico gruppo per comunione di ideali e di intenti: nasce così il Gruppo Alta Montagna. Non hanno grandi mezzi, ma una passione enorme e capacità eccezionali.
[…]
Il Gruppo è legato alla valle, alla parete, ha saputo scrivere qualcosa sulla parete, lassù nei neri camini, nei diedri immensi e giallastri, sui placconi levigati, è rimasto qualcosa del Gruppo. Vengono ripercorse tutte le vie aperte dai «grandi» sulla parete, a volte con numerose varianti di estrema difficoltà. Vengono percorsi gli spigoli, i diedri, le fessure e i camini più evidenti. Si aprono vie di alta difficoltà e di grande interesse, ormai il livello tecnico raggiunto è veramente eccezionale e sarà confermato dai formidabili risultati ottenuti dal Gruppo, quando riuscirà ad uscire dalla valle e a lanciarsi sulle grandi montagne. L’anima del Gruppo e della parete è Guido Rossa; è un artista, un arrampicatore elegantissimo e dalle visioni lungimiranti.
Apre sulla parete le vie più difficili e più rischiose, ma è sempre il grande diedro centrale che lo affascina.
Un diedro immenso, liscio, nerastro, sbarrato da fasce di tetti e di strapiombi, l’ultimo dei quali sporge sul vuoto per più di trenta metri. Guido ogni domenica è sotto la parete: percorre tutte le vie da solo e in cordata, in estate e in inverno. Attacca il grande diedro una, due, tre, quattro volte, supera la prima grande fascia di tetti con un tiro «capolavoro » in artificiale, ma giunto sotto il grande tetto non riesce a proseguire, la roccia è marcia, non è possibile chiodare, le grandi placche nerastre a destra sembrano insuperabili. Anche Walter Bonatti, allora a Bardonecchia, si interessa al problema: anch’egli sale sotto il grande tetto ma poi deve ridiscendere”.
Il 3 gennaio del 1953 Guido Rossa sale in prima invernale e da solo la via Gervasutti di destra. Tre anni dopo, il 17 giugno 1956, in un giorno, sale in solitaria lo spigolo Fornelli in 25 minuti, la via De Albertis in 40 minuti, e la via Gervasutti di sinistra in un’ora.
Poi Guido lascia Torino per Genova dove il suo impegno sociale e sindacale lo porteranno a cadere vittima del terrorismo delle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979.
Ma ritorniamo alla Parete dei Militi.
16 giugno 1951 Mario De Albertis e Nando Borio attaccano la profonda fessura di sinistra delle due che solcano l’alta e verticale parete a destra del settore centrale. Una via impegnativa con due lunghezze in fessura-camino poco proteggibile ma di grande soddisfazione: è la quinta via sulla parete ancora oggi abbastanza percorsa.
Il giorno successivo, 17 giugno 1951, Piero Fornelli, Giovanni Mauro e Luigi Pistamiglio tracciano una via sul verticale spigolo grigio posto all’estrema destra della parete. La roccia buona, l’altezza non eccessiva, la chiodatura corretta ne fanno subito uno dei percorsi più ripetuti. In epoca recente è stata l’unica via storica riattrezzata con soste sicure utilizzabili anche per la discesa in corda doppia.
Giovanni Mauro, sulla rivista Scandere racconta in modo scherzoso come nacque la salita: “Non avevamo una mèta prefissa: la Rocca di Miglia, la Torre Germana o la Parete dei Militi.
Data l’ora tarda dovemmo scartare la Rocca di Miglia; dato il tempo incerto evitammo la Torre Germana. Decidemmo perciò di salire la Parete dei Militi per una qualsiasi delle sue vie. Giunti al gran masso presso il quale si è soliti lasciare i sacchi, ci fermammo. Di qui si domina la parete in tutta la sua imponenza”.
Tutte le vie son già percorse da cordate e questo la dice lunga sulla frequentazione in quel periodo. “Scartata la via Dubosc, le vie Gervasutti e la Gagliardone-Rivero [causa affollamento], non ci rimaneva più nessuna via di salita; infatti più a destra ancora, oltre il grande camino che la incide in tutta la sua altezza, la parete era vergine. Fu mentre scherzosamente tracciavamo un ipotetico itinerario su quell’enorme lastrone ornato di strapiombi e di tetti, che ci attrasse, per la sua linea elegante, lo spigolo terminale della parete. Ci ricordammo allora di un recente tentativo da parte di nostri amici; tentativo arrestatosi al secondo tiro di corda per la cattiva qualità della roccia.
Già il demone della competizione gridava ai nostri orecchi: «Prova, prova! Potresti riuscire tu! ». La volontà non resse, lo spirito alpinistico coadiuvò sì insidioso invito, cosicché ci trovammo in marcia, diretti verso lo spigolo in parola”.
Tra guadi improvvisati perché il torrente in piena lambiva la parete e lo spigolo, tiri di corda precari, acquazzone pomeridiano e bruciature nella corda doppia i tre amici concludono la salita.
Con la fine degli anni ’50 cala l’interesse per la Parete dei Militi e si riduce la sua frequentazione.
Occorre aspettare il 1966 quando, nel mese di ottobre, due giovani alpinisti, Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi, ripercorrono il fondo del grande diedro centrale, seguono le tracce di Guido Rossa, di Bonatti e riescono a trovare la chiave della salita attraversando in alto a destra sulle placche grigie.
È una grande realizzazione – sicuramente la più dura della parete (per quel periodo) – che ancora adesso incute un reverenziale timore, confermato del resto dal nome dato dai primi salitori: Diedro del Terrore.
Ancora una volta, dopo un altro momento di gloria, la parete cade nell’oblio. Ma come sempre accade, materiali, tecnica e nuove idee aprono possibilità che prima non esistevano.
Le scarpette a suola liscia, i dadi ad incastro, il tassellatore a motore e poi a batteria permettono la realizzazione di nuovi itinerari.

Nascono la via dell’Artista nel 1983 ad opera delle guide alpine di Bardonecchia Roberto Bonis, Giorgio Musu e Renato Pirona e poi, nel 1984, la via Albatro ad opera di Marco Bernardi, Renato Francou e Renato Pirona: 180 metri con difficoltà elevate e chiodatura ad espansione.
È la nuova era che avanza: nel 1985 si terranno, nel settore sinistro della parete, le prime gare di arrampicata sportiva in Europa Occidentale. La Parete dei Militi vive il suo momento di gloria con centinaia di alpinisti ed arrampicatori assiepati nei prati sottostanti a seguire per tre giorni le competizioni che vedono impegnati i più forti scalatori al mondo.
Quest’iniziativa farà storcere il naso a tantissimi alpinisti, specie a quelli più anziani, che sulla grande parete hanno trascorso i loro migliori momenti.
Scrive infatti Guido de Rege di Donato sulla rivista Segusium del 1990 a proposito della gara di Bardonecchia: “Certo che l’aver superato l’ottantesimo anno di vita, ha il vantaggio – se così possiamo chiamarlo – di poter riandare al tempo antico, quando a partire dalla seconda metà degli anni ’20, noi giovani tra i 17 e 20 anni, con 30 metri di corda di canapa o di manilla, da 10/12 mm., scarpe chiodate, un martello, pochi chiodi e qualche moschettone, senza l’imbragatura e le odierne sofisticazioni dei mezzi tecnici, andavamo veramente «in libera».
E non in costume da bagno! Detto, sia ben chiaro, pur scherzosamente, senza alcun dispregio per una nuova attività atletica che per le sue caratteristiche esce dalle normali sale ginniche, avendo come palestra pareti di roccia verticali e strapiombanti, sulle quali è nata «l’arrampicata sportiva» dei nostri giorni che impegna i suoi adepti in acrobatiche movenze e in delicati giochi di equilibrio sì da rendere necessario un decisivo alleggerimento del tradizionale costume alpinistico sino a trasformarlo, per l’appunto, in costume pressoché balneare”.
La visibilità mediatica delle gare di arrampicata non è servita a molto: le nuove generazioni amano arrampicare su rocce sicure, con protezioni vicine, possibilmente con la discesa in corda doppia. Esattamente il contrario di quanto offre la Parete dei Militi.
Eppure spazio e roccia per nuove realizzazioni ci sono, basta cercare tra le rughe della parete. Il tassellatore a batteria permette di chiodare sulle placche grigie, dove la roccia è buona ma improteggibile con i mezzi tradizionali.
Ci pensa, nell’estate del 1997, Gabriele Bar, forte arrampicatore bussolenese, specializzato nell’apertura di vie lunghe, che insieme con l’amico Claudio Bernardi realizza la via Il gatto e la volpe. Una via di 350 metri con 12 lunghezze con difficoltà massima 8a e 7b+ obbligatoria, classificata ABO+, che percorre la parte più alta e verticale sulla sinistra della parete.
Nel 2000 è la volta di Vilmer Jacob di Chiomonte che con Walter Demichelis apre la via La mia fantasia sul lato destro della parete, 15 lunghezze per 350 metri di TD+, con passaggi 6c/Ao max e 6a+ obbligatorio.
Una via molto bella di media difficoltà, che in questi anni è stata molto ripetuta.
Gli uomini del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza aprono Tomahawk TD+, 180 di 7a max/6a+ obbligatorio.
Ultima nata, nel 2008, la via Arancio come il Sole della guida alpina bussolenese Pier Mattiel e Ivana Bertoluzzo. La via percorre la parte centrale della parete a destra del Diedro del Terrore, con difficoltà ED- e passaggi di 7a/A0 max e 6b obbligatorio.
Interessante notare che le 5 vie aperte negli ultimi 30 anni sono tutte di alpinisti di Bardonecchia o comunque valsusini. È finito il tempo in cui la Parete dei Militi era la «palestra di arrampicamento» degli alpinisti torinesi.
Il successo delle vie moderne o delle vie classiche richiodate, dove gli spit garantiscono sicurezza e possibilità di ridiscendere, fa chiedere a molti se non sia il caso di procedere ad una risistemazione delle grandi classiche dalle Gervasutti al Diedro del Terrore, dalla De Albertis alla Rivero. È un dibattito aperto e saremo lieti di riportare le vostre opinioni su questa rivista.
Il futuro della grande parete è ancora da scrivere; sulle grandi placche, tra tetti, fessure, diedri e camini dove sono passate quattro generazioni di alpinisti c’è ancora spazio per la fantasia e l’avventura: occorre solo saper vedere e… arrampicare. Alla nuova generazione il compito di scrivere un altro capitolo.
Leo Dubosc 1911-1992
Figlio di Edgardo, noto e valente alpinista, fra i primi soci del CAAI, ereditò dal padre la sua grande passione per la montagna.
La sua avventurosa e lunga attività alpinistica gli permise, già nel decennio precedente la seconda guerra mondiale (anni 30/40), di essere annoverato tra i migliori alpinisti torinesi.
Copiosa e importante è la lista di ascensioni e di «prime» da lui realizzate; imprese condotte e portate a termine con determinazione e grande stile. Famose le sue prestazioni atletiche su roccia, che apparvero talvolta eccezionali a quanti ebbero la ventura e il privilegio di essere suoi compagni di cordata.
È Dubosc il capocordata che, nel 1936, forza i tiri chiave della prima via sulla Parete dei Militi e che di lui prenderà il nome.
Suo padre gli fece allestire nella sua abitazione un’attrezzata piccola palestra. Per parte sua, Calosso ricorda che “con gli amici di allora Enrico Adami, Stefano e Paolo Ceresa, Enrico Devalle […] si andava ad esercitarsi per allenamento, per le uscite domenicali in montagna. Andavamo pure ad esercitarsi in un cortile dello stabilimento paterno, dove in un angolo di un alto muro, se pur un immaginario «diedro», ci si cimentava con passaggi in contrasto sui minuti appigli di croste di cemento”.
Guido de Rege di Donato 1907-1994
Compagno di scalate di Chabod, Gervasutti ed in particolare del coetaneo Gabriele Boccalatte, nel 1926 si impose all’attenzione dell’ambiente alpinistico torinese per alcune importanti ripetizioni nel gruppo del Monte Bianco, a cui seguirono numerose nuove realizzazioni. Tra queste va ricordata la nuova via aperta nel 1941 sulla parete dei Militi, insieme con l’amico Giusto, e conosciuta come Gervasutti di Sinistra.
L’8 settembre del 1943, dopo il servizio militare, riprese il lavoro in quella Conceria Florio che sarebbe diventata presto sede del CLN piemontese. Proprio in quel periodo, per le sue spiccate attitudini e notevoli competenze alpinistiche gli vennero affidati compiti di collegamento con la missione alleata in Val d’Isère, ove si recò più volte in pieno inverno attraverso i colli di Rhêmes e di Galisia.
Senza mai tralasciare l’impegno civile e politico – che conserverà fino all’ultimo congiuntamente agli interessi artistici e culturali, in modo particolare per la musica e per l’archeologia – de Rege continuò ad occuparsi di montagna, collaborando con il CAAI, di cui per molti anni fu vicepresidente del Gruppo Occidentale. Fino alla fine della sua vita sollecitava incontri con vecchi amici perché, spiegava: “t’sass, për mi ormai ogni moment a l’è bon”.
Stefano Ceresa 1909-1984 e Paolo Ceresa 1911-1998
Stefano si laurea in ingegneria, ed è presidente di varie società, imprenditore, presidente dell’Istituto Tecnico Edoardo Agnelli. Paolo è architetto e nel corso dell’attività professionale si occupa di architettura in ambiente alpino.
Due fratelli che condividono la passione per la montagna e l’impegno nel CAI.
Assidui frequentatori di Bardonecchia, percorrono praticamente tutte le vie e pareti esplorate in quei tempi.
Insieme sono sulla Parete dei Militi nel 1935 e 1936; partecipano nel 1934 alla spedizione organizzata dal CAI torinese nelle Ande Meridionali, dove insieme raggiungono la vergine vetta del Cerro Cuervo 5462 m. Notevole fu la loro attività alpinistica nel gruppo del Monte Bianco e soprattutto nel gruppo del Gran Paradiso, dove realizzarono alcune prime assolute insieme con gli amici di sempre, da Adami a Dubosc. Contribuiscono alla progettazione e realizzazione dello storico bivacco della Fourche, della Capanna della Noire, del bivacco Canzio al Colle delle Grandes Jorasses. Nel 1988 Paolo firmava il progetto per il nuovo bivacco della Sassa, dedicato alla memoria del fratello Stefano. Alla sua scomparsa il bivacco sarà dedicato a Paolo e Stefano Ceresa.
Michele Rivero 1906-1971
Il periodico della sezione CAI di Torino Monti e Valli ricorda: “Il 10 dicembre, all’età di 65 anni, è mancato improvvisamente […] l’avvocato Michele Rivero. Per molti anni Presidente della Commissione tecnica centrale del CAAI, diede, sin dal 1944, il prezioso contributo della sua esperienza di alpinista e magistrato, al CAI ed alla nostra sezione quale Vice-Presidente e Consigliere. […] All’assemblea del 14 dicembre, che avrebbe dovuto festeggiare Rivero in occasione della consegna della medaglia per i 50 anni di iscrizione, il Presidente Ceriana comunicò la triste notizia”.
Fra le sue numerose ed importanti imprese alpinistiche l’ascensione del Grépon per la fessura Dunod, superata per la prima volta in arrampicata libera nel 1926; la terza ripetizione della cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses e la nuova via tracciata sullo spigolo sud delle Petites Jorasses. Da ricordare anche la prima della via tracciata sulla Militi, insieme a Giuseppe Gagliardone, nel 1943.
La mia fantasia
(intervista a Vilmer Jacob e Walter Demichelis)
di Claudio Blandino
A Chiomonte, al piano superiore del centro Cral posto sulla statale in centro paese, nelle sere di martedì e giovedì è facile trovare Vilmer Jacob e Walter Demichelis che arrampicano sui muri della bellissima parete artificiale costruita dal CAI di Chiomonte e di cui Vilmer è uno dei principali ideatori, realizzatori e frequentatori. Vilmer e Walter, nel 2000, hanno aperto una delle vie moderne più belle della Parete dei Militi, La mia Fantasia.
Come vi è venuta l’idea di aprire una via sulla Militi?
Walter: “L’idea è nata dai tanti sogni fatti fin dell’inizio della mia carriera alpinistica.
Ho cominciato ad arrampicare proprio alla Militi e da sempre quindi ho volto lo sguardo verso l’alto, in cerca di possibili itinerari su quel muro. L’amicizia con Vilmer, compagno di mille avventure e sognatore come me, non poteva far altro che portare al compimento della via La mia fantasia.
Vilmer: “In effetti, le prime vie le ho fatte tutte alla Militi.
Ricordo che quando c’era ancora la frontiera – ed io ero minorenne – venivo scaricato dall’auto prima della sbarra di confine, aggiravo a piedi per i boschi la frontiera e mi ricongiungevo con i compagni dopo il laghetto della centrale elettrica. Si arrampicava tutto il giorno e al ritorno stessa musica!”.
Avevate già salito altre vie sulla Militi?
Walter: “Sì, lo Spigolo Fornelli, la via della Rondine, la De Albertis-Rivero, Tomahawk, l’Incontro e Boia chi dimentica del mitico Gian Carlo Grassi”.
Vilmer: “Sì, lo Spigolo Fornelli, la De Albertis-Rivero, Tomahawk, l’Incontro, Boia chi dimentica, Rebecca, Tao”.
Con tante salite e tutto il lavoro di ricerca e chiodatura chissà quante storie avete da raccontare…
“Un paio di avvenimenti buffi ci sono stati. Il primo è stato lo spopolamento delle tende nel piano dei Militi quando abbiamo pulito la via dai massi instabili. Dopo la caduta delle prime pietre, tutte le tende sono sparite in cerca di luoghi più sicuri, e per fortuna siamo scesi alla base molto tardi perché un po’ di paura per qualche ritorsione de parte degli sfollati c’era. La seconda, una pietra che cadendo ha pizzicato il cavo dell’acceleratore del moto-trapano, che per fortuna è rimasto tutto accelerato, così da lasciarci completare la chiodatura e soprattutto da permetterci di raggiungere la base”.
L’apertura di una nuova via è sempre un avvenimento ed inevitabilmente suscita apprezzamenti e polemiche; c’è stato qualche commento?
“Tutti quelli che l’hanno ripetuta e con i quali ne abbiamo parlato, sono rimasti soddisfatti per la bella via e l’ingaggio. Polemiche non ce ne sono state, anche perché ormai è normale che le vie moderne siano spittate”.
Quanto tempo avete lavorato per realizzarla e come vi eravate organizzati, quali materiali avete usato e quali difficoltà avete incontrato?
“C’è voluto qualche anno, senza dedicare troppo tempo per volta, un giorno qua e un giorno là: tanti sogni, poi abbiamo ripulito e disgaggiato diversi tratti. Usavano il tassellature a motore e molte piastrine, per risparmiare, sono di produzione artigianale”.
Pensate che sulla parete ci sia spazio per altre vie?
Walter: “Penso di sì, e lo hanno dimostrato di recente Pier Mattiel e Ivana Bertoluzzo, aprendo nel 2008 la Via Arancio come il Sole”.
Vilmer: “Sicuramente c’è ancora spazio, soprattutto se si accetta di salire la prima parte della parete lungo diverse cenge erbose. Nella parte alta, invece, la verticalità e la qualità migliore della roccia in molte zone permettono ancora l’apertura di altre vie”.
Pensi che sia giusto richiodare a spit alcune vie classiche per aumentarne la frequentazione?
Walter: “Una bella domanda, alla quale è difficile rispondere. Avrei sempre voluto fare il Diedro del Terrore, ma le storie che ho sentito e la difficoltà mi hanno sempre spaventato.
Già anni fa girava la voce della spittatura della via e ho sempre pensato che con gli spit avrebbe perso il suo fascino. Forse sarebbe giusto mettere in sicurezza le soste e mantenere inalterato il fascino della progressione da primo proteggendosi. E se non si riesce a proteggersi, in fondo di vie spittate ce ne sono un sacco”.
Vilmer: “Io ho dovuto rinunciare alcune volte su delle vie che avevo iniziato a salire, proprio perché la chiodatura era classica e non mi fidavo, non ero ancora pronto. Poi sono ritornato quando me la sentivo e sono riuscito a portarle a termine, qualcuna rimane ancora da fare. Un’unica volta sono tornato per ripetere una via che mi aveva respinto e l’ho ritrovata spittata … è stata una delusione, anche perché avevo passato almeno un paio di notti insonni per la preoccupazione. Oltretutto spittando si perde di vista la grandezza dei primi salitori che, per l’epoca, affrontarono le salite con attrezzature e materiali ben diversi da quanto è a nostra disposizione oggi. Da questo punto di vista, siamo molto più avvantaggiati degli alpinisti che aprirono le prime vie sulla parete. Se si vuole scalare su vie spittate non c’è che l’imbarazzo della scelta”.
E se fossero richiodate ci sarebbe più frequentazione?
“Probabilmente sì”.
Come vedete il futuro della Militi rispetto alle tendenze di oggi?
“Penso che la Militi sarà sempre apprezzata per la bellezza e comodità del posto”.
Una vita sulla Militi
(intervista a Giorgio Musu)
di Arianna Richiero
Giorgio Musu, Bandà per gli amici, classe 1944, guida alpina, per molti anni tecnico del Soccorso Alpino, esperto di disgaggi e interventi in alta quota, ideatore e costruttore di vie ferrate e… tante altre cose.
Ricorda la prima salita da ragazzino con l’attrezzatura d’altri tempi.
“Corda di canapa legata in vita e basta, ma mi sono subito appassionato. In quegli anni c’erano pochissimi arrampicatori in Valle ma fortunatamente Giancarlo Cech mi insegnò molte cose e mi portò spesso con sé ad arrampicare”.
Sono gli anni dell’amicizia e delle avventure in montagna condivise con l’amico Franco Bacchetti.
“Ero molto magro e con la scusa che dovevo rafforzare i muscoli mi trovavo sempre in ultima posizione in cordata a togliere i chiodi a colpi di martello. L’attrezzatura era scarsa, si arrampicava con gli scarponi; per le corde doppie si faceva scorrere la corda su spalle e gambe per aumentare l’attrito e così ti ritrovavi spesso con la pelle scorticata. Ricordo che per evitare questi inconvenienti facevamo scorrere la corda sul manico del martello posizionato sotto la coscia. Niente casco; allora non si usava, bastavano i capelli “.
Non mancano i momenti brutti come quando
“A 16 anni eravamo andati ad arrampicare alla Guglia Rossa. Non ero ancora molto esperto e ricordo che ero rimasto bloccato su un versante esposto per un po’, non sapendo come poter continuare la salita”.
Ma poi l’esperienza pian piano arriva, anche grazie al corso di arrampicata organizzato da Cech con il CAI di Bussoleno nel 1962.
“Poi nel ’68 e ’69 ci sono stati altri 2 corsi e, con Franco Bacchetti, facevamo gli istruttori”.
È di quegli anni la passione per la Militi:
“Una grande parete, a portata di mano, selvaggia, ma anche affascinante. Ci sono salito tantissime volte percorrendo numerose vie, negli anni ’90 ho festeggiato la centesima salita con una torta al rifugio. Ci ho portato praticamente tutti: amici o clienti, alpinisti alle prime armi o scalatori capaci, residenti in valle o villeggianti ”.
Chissà quante avventure e quanti ricordi…
“In realtà, non ricordo niente di particolare che valga la pena raccontare; fortunatamente è sempre andato tutto bene e ho solo bei ricordi a parte una volta che mi sono rotto un dito. Mi viene in mente che una volta con Franco Bacchetti eravamo a scalare sui Serous, non avevamo calcolato bene i tempi e ci ha colti la notte. Abbiamo dovuto dormire in parete. Le nostre fidanzate, non vedendoci tornare, si sono preoccupate e hanno allertato il soccorso alpino. Il giorno seguente, mentre scendevamo ignari dell’accaduto, ci chiedevamo come mai ci fosse tutta quella gente. Il gestore del rifugio, scherzando, si era augurato che ci capitasse spesso, perché aveva fatto buoni affari”.
Il periodo di maggiore attività, dopo un periodo di pausa, sono stati gli anni in cui gestiva una discoteca a Bardonecchia.
“In quegli anni ho ripreso a scalare frequentemente. La discoteca era diventata il punto di incontro per gli alpinisti locali. Alla sera si parlava di montagna, di nodi, di tecnica e di giorno ci si trovava tutti sotto la Militi”.
In quel periodo Giorgio fa il corso da guida alpina e nel 1980 raggiunge l’obiettivo. “Ero molto indeciso perché non pensavo di esserne all’altezza, poi ho saputo che un tale aveva passato l’esame e mi sono detto che se ce l’aveva fatta lui potevo farcela anche io”.
Nel 1985 ci sono le prime gare di arrampicata disputate proprio sulla Parete dei Militi. “Non ho mai visto tanta gente in Valle Stretta ai piedi della parete, penso sia stato il suo momento di gloria”.
Ma oggi la parete è frequentata?
“La Militi ha vissuto molti momenti di celebrità e altrettanti di oblio. Oggi trovi molta gente che arrampica sui monotiri alla base ma pochissime cordate salgono sulle vie lunghe, specialmente quelle classiche che sono sporche e con pochi chiodi ”.
Cosa ne pensi di rinchiodare le vie classiche?
“Se ne parla da molto tempo, ma mancano i soldi, il tempo, la voglia… alcuni non sono favorevoli a mettere spits dove sono passati Gervasutti, Rivero, Dubosc… e poi non è detto che dopo ci siano molti alpinisti disposti ad avventurarsi sulla grande parete“.
Solo tu continui imperterrito, a quante salite sei arrivato?
“Dopo le prime 100 non ho più tenuto il conto ma penso intorno alle 130 circa”.
Ma la passione di Giorgio non è solo la Militi; da anni si dedica ai lavori di disgaggi in montagna e soprattutto alla progettazzione e realizzazzione di ferrate, vie attrezzate e ristrutturazioni di rifugi in quota. Durante l’intervista spesso ci allontaniamo dalla Militi e scivoliamo su queste attività.
“Dovreste parlarne nella vostra rivista. La realizzazione del ponte tibetano di Claviere è stata un opera di grande ingegneria con soluzioni tecniche innovative che si è conquistata il Guinness dei primati come ponte sospeso più lungo del mondo”.
I lavori in quota sono un aspetto che lo appassiona.
“Lavorare alla costruzione del nuovo rifugio Gonella al Bianco è stato molto impegnativo ma l’ambiente e i risultati sono stati veramente gratificanti. Mentre eravamo lassù a lavorare ci è venuta l’idea di realizzare una via ferrata e sentiero attrezzato con tanto di ponte tibetamo che supera il ghiacciaio per collegare il rifugio Gonella con il rifugio Quintino Sella posto in un luogo difficilmente raggiungibile”.
È ora di salutarci, non mi resta che augurare a Bandà tante altre scalate sulla Militi.
Il grande passo, Sport Roccia ‘85
(i ricordi di Renzo Luzi)
di Claudia Iotti
Mi trovo una sera a casa di Renzo Luzi per parlare di “Sport Roccia 85” la prima gara di arrampicata organizzata in Europa. Renzo, che di mestiere fa la guida alpina, in quel periodo ha partecipato attivamente all’organizzazione della gara e ne serba ancora un vivo ricordo.
Il 1985 è un anno speciale: è l’anno in cui si sorpassa ufficialmente il vecchio alpinismo, si abbandona la scalata nel secolare silenzio della montagna, per lasciare il posto ad un alpinismo vivo, rumoroso ed esaltante. Nel 1985 l’alpinismo diventa un evento pubblico, un fatto sportivo, un soggetto di spettacolo.
Il casus belli di questa grande rivoluzione fu “Sport Roccia 85”: la prima gara di arrampicata di difficoltà al mondo. In Russia vi erano state gare di arrampicata ma solo di velocità. Gli ideatori di “Sport Roccia 85”furono Andrea Mellano ed Emanuele Cassarà, come luogo più appropriato per questo evento individuarono la parete dei Militi in Valle Stretta, offrendo così a Bardonecchia un nuovo volto dall’usuale stazione sciistica. Fu così chiodato il settore gare, con vie create da Marco Bernardi, dopo un minuzioso lavoro di bonifica con ruspe e nei luoghi più inaccessibili furono impiegate le lance dei pompieri. Intanto si raccoglievano sponsor, la voce di questo nuovo evento si diffondeva sempre di più e gli iscritti aumentavano in modo considerevole, così che l’organizzazione si trovò davanti ad un numero di partecipanti inaspettato, provenienti da otto nazioni diverse.
Alcuni atleti erano nomi già noti nel mondo dell’arrampicata come Patrick Edlinger e Catherine Destivelle, per altri questa competizione fu un ottimo trampolino di lancio, come per il tedesco Stefan Glowacz, l’americana Lynn Hill e l’italiana Luisa Jovane. Gli italiani favoriti erano: Roberto Bassi, Marco Preti e Marco Ballerini.
Alcuni giornali li definivano gatti, altri scoiattoli, altri ancora uomini ragno, mentre Famiglia Cristiana “profeti della verticale”. Questa nuova generazione di alpinisti attirò un grande pubblico, che radunato sotto le pareti, osservava i delicati movimenti degli atleti, le cadute e persino la fermata di Glowacz. Il quale, estraendo lo spazzolino dal sacchetto della magnesite, pulì l’appiglio e chiuse il tiro vittorioso, guadagnando il primo posto. Il primo italiano, Bassi, si classificò settimo; mentre il primo posto femminile fu conquistato da Catherine Destivelle subito seguita dall’italiana Luisa Jovane. “Sport Roccia ‘85” non fu solo una competizione sportiva: fu un’occasione per diffondere e far conoscere al grande pubblico l’arrampicata, ma soprattutto fu un’opportunità d’incontro per gli atleti. Una grande aria di festa contornava e accompagnava l’evento, fino al punto da sacrificare il grado per colpa dell’eccessiva quantità di alcol ingerita la sera prima. Come nel caso di Wolfgang Guellich che, dopo essere finito con la sua Renault rossa sui binari del treno di Bardonecchia, il giorno dopo durante la gara si lasciò sconfiggere da un 6c, mentre il grado da lui normalmente superato era un 7a.
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Leggere (o, meglio, rileggere) le imprese sulla Parete dei Militi per me è sempre fonte di divertimento: sono montagne che conosco a memoria, sotto alla parete ci sono passato milioni di volte e su quelle rocce – incredibile dictu – ci ho pure messo le mani più volte. Piccoli giorni grandi.