Patagonia by Water
(piccola storia per immagini)
Foto e testi (deliranti) di Marcello Cominetti e Lorenzo Nadali
(pubblicato su Alp-Grandi Montagne n. 24, novembre-dicembre 2004)
Antefatto
Ci venne un’idea fantastica: attraversare tutta la Patagonia!
Era il 1996 e iniziammo a pensare a come farla. Eravamo Lorenzo Nadali ed io.
Mare, ghiaccio, fiumi, laghi di nuovo fiumi e di nuovo il mare, dal Pacifico all’ Atlantico.
Partecipammo con la massima leggerezza al Polartec Challenge e vincemmo il premio in denaro che ci finanziò la spedizione.
Per navigare ci serviva un mezzo che non sapevamo neppure esistesse, o meglio, lo immaginavamo senza sapere che esisteva già. Si trattava di una canoa pneumatica alla quale dobbiamo la vita e molta felicità! Non sto esagerando, è stato proprio così.
Fatto
Dopo due giorni di viaggio da Puerto Natales (Cile) una scomodissima nave cargo ci sbarca sull’ isola Wellington la notte del 24 dicembre 2000. Puerto Edèn è uno dei villaggi più isolati al mondo: 200 persone e poche case sono l’unica presenza umana lungo i circa 1500 km. della costa che si affaccia sull’ Oceano Pacifico tra i famosi “40 ruggenti e 50 urlanti”: il mare più tempestoso del mondo, o almeno così dicono.
Non facciamo fatica ad accorgercene quando salpiamo il giorno di Natale a bordo della “Sandia Primera”, ovvero la nostra canoa stracarica così battezzata perché dal colore assomiglia ad una fetta di anguria, sandia appunto in spagnolo.
Sotto una pioggia battente ci osservano preoccupate poche persone mentre leviamo gli ormeggi in direzione sud, qualcuno ci saluta quasi affettuosamente, altri ci danno già per annegati sicuri e la Capitaneria di Porto locale, per fortuna, non si accorge di nulla (la visibilità è di pochi metri) perché non abbiamo con noi delle dotazioni di sicurezza “legali” perché peserebbero troppo.
A un graduato, il giorno prima avevamo fatto credere di essere muniti di un “richiamo satellitare” mentre io gli mostravo un ARTVA e Lorenzo doveva trattenersi dal non ridergli in faccia.
La Veleria San Giorgio di Genova ci ha fornito di due salvagenti gonfiabili modificando un modello adatto agli aerei di linea perché è il più leggero di tutti e che noi speriamo vivamente di non collaudare! Ci sbaglieremo.
Piove a dirotto e lo farà per 16 giorni se escludiamo qualche decina di minuti.
Appena lasciata la baia dove si trova il villaggio, forti correnti ci spingono nella direzione giusta e, nonostante la pioggia alla quale comunque facciamo presto ad abituarci (staremo completamente fradici per 16 giorni, appunto), pagaiare è un piacere: soli dove avevamo tanto desiderato di essere!
Non abbiamo con noi nessun mezzo di comunicazione né di navigazione e solo una bussola, che non useremo quasi mai, rientra tra i nostri strumenti tecnici. La mappa che abbiamo è poco più di un disegno del Sudamerica, per quanto riguarda il lato argentino, mentre per quello cileno abbiamo delle carte militari più dettagliate che ci aveva fornito un nostro infiltrato.
Con molta fortuna, ma anche perizia diciamolo, in cinque giorni raggiungiamo il luogo dove dovremmo abbandonare l’oceano per le foreste che risalgono i pendii che delimitano l’altipiano glaciale dello Hielo Continental Sur, il ghiacciaio che dobbiamo attraversare per oltrepassare la catena delle Ande Patagoniche Australi, raggiungendo la pampa argentina solcata da grandi laghi e fiumi. Il progetto originario prevedeva anche la scalata del Cerro Torre per la parete ovest e infatti avevamo spedito tramite degli amici un bidone di attrezzatura alla Piedra del Fraile.
I nostri tentativi durano qualche giorno, prima nella selva impenetrabile cresciuta a dismisura negli ultimi decenni rispetto alle indicazioni ed alle foto in nostro possesso, poi per due ghiacciai diversi: il Trinidad ed il Pio XI che rispetto a quanto segnato sulle carte sono cresciuti in maniera impressionante.
Il Trinidad ha inghiottito il rio omonimo e si tuffa direttamente in un lago creatosi di recente (i segni sono evidenti) che comunica direttamente con il mare che è a pochi metri, ed il Pio XI misura ben 12,5 km in più di quanto descritto sulla carta dell’Istituto Geografico Militare Cileno aggiornata al ’74!
Non vi sto a raccontare le peripezie di questi tentativi (tutti infruttuosi) per raggiungere l’altipiano glaciale, ma posso garantirvi che siamo tornati indietro solo quando il buon senso ce lo ha suggerito.
Quasi trenta kilometri sul Pio XI tra crepacci, seracchi e traballanti torri di ghiaccio che ogni tanto precipitavano a pochi metri da noi, ci hanno fatto capire che non era il caso di insistere. Laghi enormi formatisi da poco e dalle sponde poco rassicuranti ci hanno costretto a lunghe digressioni per non finirvi dentro a causa dei pendii franosi che li delimitano e con pericoli di inondazione piuttosto seri. La pioggia non smetteva un attimo e da quando mettemmo piede sui ghiacciai si intensificò come per farcelo apposta.
Un ultimo tentativo ci avrebbe messo in una situazione di non ritorno, anche perché i viveri a nostra disposizione stavano per non bastarci più per tutti i giorni che la traversata avrebbe richiesto.
Decidemmo di tornare a Puerto Edén in canoa ovviamente, ma questa volta la fortuna non ci fu amica come all’andata.
Un forte vento da Nord ci aiutò molto nelle prime ore di navigazione, ma dopo poco divenne troppo forte per la nostra imbarcazione che facevamo navigare a vela anche se la prudenza avrebbe richiesto tutt’altro.
Purtroppo la costa occidentale del Seno Eyre è per molti km priva di approdi naturali e le pareti rocciose arrivano al mare verticali o quasi.
Per una intera giornata fummo costretti a navigare a velocità impressionante planando su onde enormi che non permettevano un controllo ideale del nostro comunque eccezionale mezzo. Non so come non ci rovesciammo mai ma lo dobbiamo solo ad una buona dose di fortuna nella sfortuna, insomma andò bene e percorremmo tutto il fiordo più inospitale del Cile in un sola giornata!
Doppiato il Cabo de Paura (da noi così battezzato) che immette nel Canal Grappler, una famiglia di delfini ci scortò fino a notte fonda quando raggiungemmo esausti una spiaggetta per accamparci.
Il rientro fino a Puerto Edén fu durissimo perché non ci fu mai corrente non contraria alla nostra direzione e perché il nostro morale non era dei miglior, visto il fallimento della traversata.
Una settimana di attesa nel villaggio e la nave ripassa dandoci la possibilità di raggiungere nuovamente la terraferma a Puerto Natales e con essa nuove possibilità di muoverci.
Adesso si tratta di ritrovare la motivazione per recarsi ai piedi del Fitz Roy e da lì riprendere la traversata, sapendo che comunque l’idea originaria è fallita perché non siamo riusciti ad attraversare i ghiacci.
Passano pochi giorni e ci ritroviamo sulle rive del Rio Electrico, le montagne sono nella solita tormenta ed il vento patagonico è naturalmente puntuale “como siempre”.
Anche il Rio de Las Vueltas scorre rapido sotto la nostra chiglia pneumatica e non ci pare vero di avere corrente sempre a favore e velocità anche quando non remiamo, altro che oceano!
La corrente si fa più forte e le rapide più aggressive in prossimità di una stretta gola sulle pendici del Cerro Cangrejo: una cascata fragorosa ci impone una deviazione di un paio di km via terra e poi via di nuovo in discesa. In un solo giorno siamo laddove sapevamo fin dal’ inizio che sarebbe stato tutt’altro che facile avanzare, ovvero nel Lago Viedma.
Questo enorme lago pedemontano di origine glaciale ha dimensioni da farlo sembrare un mare, misurando circa 90 x 35 km e a noi tocca attraversarlo tutto nel senso della lunghezza e poi della larghezza per venire infine risucchiati dalle acque del Rio La Leona, suo emissario.
La catena delle Ande Patagoniche Australi costituisce la sponda occidentale di questo enorme bacino, dove si getta il Ghiacciaio Viedma proveniente dallo Hielo Continental assieme ai forti e freddi venti dell’ ovest che fanno formare onde di qualche metro di altezza, che presto ci costringono ad una navigazione piuttosto accorta.
Passa un intero giorno mentre in bilico sulle creste ondose cerchiamo disperatamente di non imbarcare acqua quando queste ultime si infrangono spontanee in fragorosi “tubi” orizzontali. Se non fosse per la bassa temperatura dell’acqua sarebbe il paradiso del surf questo lago, noi abbiamo solo l’ attrezzo sbagliato.
A differenza delle coste cilene e nonostante l’aria, che provenendo dal Pacifico si raffredda notevolmente attraversando lo Hielo Continental e provoca venti molto freddi, il sole ci illumina e qualche volta ci scalda, dal lato della steppa che si prolunga infinita all’orizzonte.
Anche se fa più freddo, questo ambiente è molto più gradevole dei fiordi piovosi e grigi del Cile, e noi lo attraversiamo soddisfatti nel vento che soffia da ovest ad est: la nostra direzione!
Il morale è risalito al massimo ed iniziamo a pensare che anche avendo fallito i nostri propositi originari stiamo facendo una cosa bellissima, per chi non sappiamo, ma è certo che a noi va bene anche così, in fondo nessuno ci aveva costretti a passare i ghiacciai e non ce ne lamentiamo.
Sul Viedma il tempo è scandito dalla paura e le raffiche di vento irregolari sembra ci stiano dando la caccia soffiando sempre più forte. Siamo in mezzo al lago e non abbiamo nessuna possibilità di ripararci. Quando il vento aumenta sappiamo che arriveranno onde più grandi dopo poco perché l’aria viaggia più veloce dell’acqua, ormai lo sappiamo bene. E’ facile capire che la velocità del vento supera sovente di molto i cento km orari e la nostra vela rigida di solo un metro quadrato ci fa letteralmente volare sulle onde fino a quando una più grossa delle altre, con la complicità del vento, ci ribalta come un fuscello.
Non diciamo una parola mentre nuotiamo nella neppure tanto disperata ricerca delle pagaie e di un appiglio sulla canoa rovesciata. La raddrizziamo come se lo avessimo sempre fatto e da due lati diversi, e perfettamente sincronizzati, ci reimbarchiamo sulla nostra unica salvezza: la Sandia.
Con qualche centinaio di litri d’acqua dentro, la canoa è ingovernabile sulle onde e remando come ubriachi intirizziti dal freddo ci spingiamo a fatica verso riva prima che un altro gigantesco muro d’ acqua gelata ci catapulti verticalmente sulla spiaggia sassosa. Ribaltati di colpo sulla dura battigia! Per un osservatore sarebbe stato divertente vederci arrivare in quel modo.
Finalmente comunque a terra! Ci lecchiamo le ferite, accendiamo un fuoco e montiamo la tenda. Indossiamo vestiti asciutti e stendiamo al vento quelli bagnati che si asciugano in un minuto. La radiolina AM trasmette che l’Europa è messa in ginocchio dalla catastrofe “mucca pazza” mentre Lorenzo cucina un couscous con tonno ed io rimescolo le braci nel fuoco scaldando il pane per la cena.
Da dietro i cespugli di Calafate dai quali ci ripariamo dal vento si vedono le ultime luci sul Cerro Torre e sul Fitz Roy ed il lago diventa da blu a nero, prima che le stelle della notte australe lo ridipingano di una luce metallica colore argento che fa risaltare le onde sempre più grandi e che ci fa sentire sempre più piccoli e dispersi in questo fantastico luogo.
Il giorno seguente si fa fatica a stare in piedi per il vento, le nuvole lenticolari corrono all’impazzata nel cielo e si disperdono nella pampa come in un film a velocità aumentata e non ci costa nulla fermarci un giorno, aspettando solo che il vento plachi la sua furia.
L’alba del giorno seguente è calma e limpida e le montagne si esibiscono in uno spettacolo sublime dove le luci radenti e le forme della Terra ci lasciano muti per paura di disturbarci a vicenda con inutili parole. Anche i più piccoli dettagli di quello che ci circonda sono perfetti.
Si parte!
La sera siamo all’hotel La Leona, una baracca che accoglie i viaggiatori e che una volta serviva ad ospitarli prima del guado su di una chiatta del rio omonimo oggi attraversato da un ponte in cemento armato.
Il Rio La Leona è il più bel tratto d’acqua che abbiamo percorso: veloce e mai preoccupante, soleggiato e ventoso senza esagerazioni per fortuna, in un giorno lo percorriamo tutto prima di entrare nel lago Argentino, il più grande di tutti.
Percorriamo piacevolmente i dieci kilometri di lago in totale e rara assenza di vento prima di venire risucchiati dal potente Rio Santa Cruz, che circa quattrocento kilometri dopo sfocia nell’ Oceano Atlantico.
Quei giorni saranno come un documentario commovente sulla storia dei coloni che abitavano le sponde di questo grande fiume dopo averle rubate agli indios Teuelches.
Le numerose “estancias” abbandonate scandiscono il passare dei kilometri tra acque calme e terribilmente agitate dal vento di alcune giornate indimenticabili.
Ci perdemmo e perdendo la nozione del tempo tra mille anse dal raggio indefinito, credendo di vedere il mare dietro ad ognuna di esse, fino a quando all’orizzonte si stagliò l’infinito l’Oceano.
Certi di farcela ci imbattemmo nella marea atlantica che ci costrinse ad atterrare su quella che credevamo ormai nella notte essere la costa e che invece era un banco di sabbia isolato. La forte corrente di marea stava inghiottendo il minuscolo isolotto sabbioso su cui avevamo già sgonfiato la canoa e stavamo mettendoci tutto in spalla per proseguire a piedi.
Rischiando di annegare a poche ore dalla meta, ci imponemmo a piedi ed a remi di continuare fino a quando non avessimo raggiunto Puerto Santa Cruz, e così facemmo.
A notte fonda ed a piedi ci ritrovammo nella discarica della città che per essere raggiunta prevedeva la scalata di un altissimo recinto metallico costellato di ogni spazzatura che il vento aveva spinto conto il filo spinato.
In cima al recinto, dove con attenzione si doveva scavalcare per scendere sull’altro lato, sventolava un reggiseno di pizzo viola, e poi finalmente le vie deserte dell’abitato.
Un ristorante d’altri tempi era ancora aperto, una cameriera dall’aspetto dimesso, mentre ci serve ricche bistecche ci chiede da dove veniamo: dal Cile è la risposta.
Poi continua a guardare stancamente la televisione a volume altissimo mentre fuma una sigaretta e non pensa apparentemente a niente: l’acqua è finita, ci beviamo una birra, dopo quasi due mesi siamo arrivati davvero!
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Un grandísimo aventurero! Ciao capó! te extraño amigo un abrazo!
Complimenti, Marcello!
Un entusiasmante racconto di una splendida avventura!
Veramente di questo racconto (e della tua vita) dovresti scriverne un libro. In attesa di una tua serata…
Ciao Marika
Bellissima avventura: come un sogno d’altri tempi, quando ancora esistevano zone bianche sulle mappe.
Vi invidio. Mi prenoto per una ripetizione.
Splendido racconto, scorrevole e coinvolgente. Non detta espressamente, ma traspare (e non poteva essere diversamente, altrimenti ciau bie) una intesa e una amicizia di quelle marca leone ! Un po’ il succo di tutte le cose belle.
Che bella e affascinante lettura. Che voglia di avventura anche se mi chiedo se avrei il coraggio di affrontare tante prove. Anche io in attesa di un libro di Cominetti!
Mentre leggevo di questa avventura maiuscola la mente era piena di tavole in bianco e nero del maestro Pratt con le suoi personaggi quasi irreali, eterei e immortali.
Grazie!
Buongiorno, a quando un libro di carta scritto dal Marcello Cominetti?
Racconto molto evocativo e coinvolgente. L’ho letto in originale su ALP alla sua uscita. Come mi manca ALP
“Non c’è niente. Per questo ci vado.”