Patrick Edlinger
Indimenticabile. E’ l’aggettivo più calzante per tentare di definire la figura di Patrick Edlinger, mancato nella sua casa di La Palud-sur-Verdon il 16 novembre 2012.
Era esploso nei primi anni ’80 all’attenzione degli arrampicatori e dei media, così come lo aveva fatto (ma di fronte al mondo) l’edonismo reaganiano del presidente Ronald Reagan: una prepotente tentazione. Come la nuova emittente tv Canale 5 di Silvio Berlusconi; come le sirene incantatrici della Milano da Bere e dei ristoranti dei garofani rosa.
Patrick si era imposto per quel qualcuno che è, ma bada anche all’apparenza. Essere e avere. Eroe senza macchia e senza paura, ma anche bello.
«Con Jerry Moffat, Maurizio “Manolo” Zanolla, Wolfgang Güllich e Patrick Berhault» disse Fabio Palma, attuale presidente dei Ragni di Lecco «Edlinger è stato uno dei cinque cardini dell’esplosione del free climbing agli inizi degli anni ’80. E più di tutti aveva contribuito alla diffusione mediatica dell’arrampicata grazie al film che lo ritraeva in Verdon, film che lo consacrò sportivo dell’anno in Francia davanti ad Alain Prost e Michel Platini».
E’ vero, Paris Match lo aveva consacrato una vera star, in Francia e all’estero: La Vie au bout des doigts e subito dopo Opéra Vertical, entrambi del 1982, sono ancora oggi film di culto che a quel tempo suscitarono un’ammirazione tale da sconfinare con l’idolatria. Migliaia di giovani furono catturati da quell’atleta biondo che faceva la spaccata oltre i 180°, che correva nei boschi prima di fare le trazioni su un mignolo, oppure che si produceva in quell’esercizio (che poi sarebbe stato chiamato slacklining) prima di salire da solo, slegato e scalzo nel terrificante vuoto del Pilier de Fourmis a Buoux o in Verdon con un sottofondo musicale da brivido, quello di Allein zu dir, Herr Jesu Christ di Johann Sebastian Bach.
Patrick Edlinger supera in libera il tetto di Totem bianco, Valle dell’Orco, 11 giugno 1982
E’ ancora Palma a spiegarci quest’icona di fede: «E’ stata una delle figure di cui vantarsi, se capite cosa voglio dire. Come nel nuoto uno si può vantare di praticare lo sport di Michael Phelps o nel mezzofondo di correre come Haile Gebrselassie, così un qualsiasi scalatore, di qualunque livello, può dire, io faccio quello che faceva Edlinger, ed essere orgoglioso. E’ un qualcosa che trascende il livello tecnico personale, il proprio carattere, ed entra in quel mondo nebuloso in cui compaiono i termini idea, archetipo, modello. Sono migliaia i ragazzini che hanno cominciato a scalare dopo aver visto in televisione, tanti anni fa, Patrick. Un ragazzo biondo, dal fisico scultoreo, con gli occhi profondi e acuti, sciolto come in un ideale di movimento tridimensionale, forte come nell’immaginazione di un bambino. Se qualcuno vi dovesse prendere in giro perché avete degli idoli, sbattetegli in faccia la storia di Edlinger, e guardatelo con disprezzo».
1982, giugno. Il mitico camper bianco di Patrick stazionava in valle dell’Orco.
«Come uomo era una persona schiva, a volte poteva sembrare burbera ma nascondeva una fragilità molto dolce» lo giudicherà molti anni dopo l’amico Luca Bich. Noi stavamo a guardare.
Io e i miei amici ci crogiolavamo nella solita atmosfera simpatica e anche sinceramente alcolica del disimpegno: vedere Patrick vivere la sua giornata di sportivo ci poteva far pensare di non essere molto interessati alle odiose diete e a quelli che chiamavamo “sacrifici mortificanti a scopo competitivo”, che cominciavano invece a segnare l’esistenza quotidiana di centinaia di arrampicatori.
In quel tempo ci sembrava proprio che libertà e anarchia non avrebbero mai potuto essere scalzate dalla mentalità agonistico-sportiva.
Vedere Patrick “liberare” il tetto (6c+/7a) del Totem Bianco alla Parete del Disertore, oppure salire a incastro (ma senza brutalità) la Fissure du Panetton sul masso vicino a quello della Fessura Kosterlitz ci aveva galvanizzati: ma ci aveva anche sorpreso osservare che il protagonista di queste avventure badava pure alla scelta delle tinte, alle sfumature di stile, all’apparenza, insomma.
La “filosofia” del Biondo era dunque un miscuglio ben miscelato di edonismo, rispetto per la natura e ricerca del limite, cui il suo fisico, assai muscoloso ma in certo qual modo anche efebico, e i capelli lunghi e biondi tenuti assieme dalla bandana, davano un ulteriore e ben attraente significato estetico.
Patrick Edlinger supera in libera la Fissure du Panetton, Valle dell’Orco, 11 giugno 1982
Nato a Dax (nell’aquitano dipartimento di Landes) il 15 giugno 1960 e figlio di genitori appassionati di montagna, Patrick “le Blond” Edlinger incomincia giovanissimo: «Ho cominciato ad arrampicare con mio padre che praticava l’alpinismo e ho fatto con lui delle salite come il Dome des Neiges agli Ecrins, ma non ero appassionato. Ho poi arrampicato in modo discontinuo in montagna e in falesia dai 15 ai 18 anni. L’arrampicata in falesia mi motivò allora veramente. Le Calanques, il Baou des Quatre Ouros erano i miei terreni di gioco favoriti… La difficoltà di una via mi stimolava: dovevo vincerla… Non preparavamo le vie e le cadute erano rare. Ho fatto il mio primo volo su una artificiale dove un chiodo aveva ceduto e fu soltanto per aprire il tetto del Baou che ho ‘lavorato’ per la prima volta una via».
Alla fine degli anni ’70 compie alcune notevoli solitarie sul Pelvoux, sul Pic Coolidge e sull’Ailefroide. Ma ben presto si dedica soprattutto all’arrampicata libera, dedicandosi a tempo pieno alle pareti di quel grande mare di calcare che è la Provenza. In particolare si appassiona a un suo giardino privato, la falesia di Céüse, sulla cui fascia di perfetto calcare apre e libera itinerari ancora oggi di grande valore estetico.
Qui Edlinger impone uno stile d’apertura, molto severo e leale, che ha fatto scuola, rendendo l’arrampicata sportiva molto di più che un semplice gesto atletico.
Nel 1982, a Buoux, sale per primo un 7b a vista (Captain crochet) e poi ancora a vista il primo 7c al mondo, La polka des ringards.
Nel 1983 è tra i primi arrampicatori a raggiungere il livello dell’8a. In particolare sale uno dei primi 8a francesi, Ça glisse au pays des merveilles, a Buoux, più o meno nello stesso periodo in cui Marc Le Menestrel a Buoux e Fabrice Guillot alle Eaux Claires aprono rispettivamente Rêve de papillon e Crepinette.
Nel 1988, a Châteauvert, sale per primo l’8b di Are you Ready? e nel 1989 è la volta del free solo di Orange Mécanique, a Cimaï.
Nel 1989, a 29 anni, raggiunge il livello dell’8c, con le ripetizioni di Azincourt (primo 8c in Francia) e Maginot Line, salite per la prima volta da Ben Moon lo stesso anno.
Patrick Edlinger in Verdon
«Imparate a volare»! Volare era, nella sua filosofia, un aspetto irrinunciabile dell’arrampicata. «Il debuttante», scrive nel suo libro Grimper, pratique et plaisir, «deve imparare molto rapidamente a volare già al suo secondo o terzo giorno di scalate. I suoi progressi saranno nettamente più celeri ed egli eviterà certi stress suscettibili di bloccarlo». Consigli che trent’anni fa, quando sul free climbing ancora si indirizzavano sospetti e maldicenze da parte degli alpinisti legati alla tradizione, ebbero un effetto piuttosto dirompente. Proprio lui che diceva queste cose, nel 1995 ha un grave incidente su una via di 7b delle Calanques, in Francia: una caduta di diciotto metri, in seguito alla rottura di un appiglio e all’aver saltato degli spit, gli provoca un arresto cardiaco. Viene rianimato da un medico sul posto e riesce a riprendersi senza gravi conseguenze.
In seguito a questo si ritira dalla scena dei primattori, pur continuando a scalare ad altissimo livello, anche da solo.
«Ho iniziato ad arrampicare in free solo perché quando ho cominciato non c’era nessuno che arrampicava con me» disse nel 2009 intervistato al Trento FilmFestival «e quindi non potevo che arrampicare in solitaria. Le solitarie però sono anche le mie preferite, rappresentano il modo più puro di arrampicare. E’ quello il momento in cui attraverso la scalata scopri te stesso e diventi consapevole di alcune cose che altrimenti non scopriresti». Con la nascita nel 2002 di sua figlia smette la pratica delle solitarie.
Dal 1997 al 2000 è redattore capo della rivista di arrampicata Rock’n Wall.
Nel 2000 accompagna Patrick Berhault, suo grande amico, su dieci salite dolomitiche facenti parte del progetto “grande traversata delle Alpi” di Berhault, che portò quest’ultimo a scalare in 167 giorni 22 delle vie più famose vie dell’arco alpino.
La figura di Patrick, consegnata alla storia, si nutre di alcuni bellissimi libri, tradotti anche in italiano: Rock games – Escalades aux Usa, Verdon – Opéra vertical e Grimper, pratique et plaisir. Ma sono i video e i film a consegnarla alla leggenda: oltre ai già citati, è protagonista di Verdon forever, Arrow head e infine anche di La cordée de rêve (quest’ultimo con Patrick Berhault). La sua notorietà e fotogenia gli permisero di recitare anche in due lungometraggi, Les loups entre eux (1985) di José Giovanni e La belle histoire (1992) di Claude Lelouch.
Un altro aspetto della personalità complessa, mediaticamente carismatica, di Patrick è stato il suo rapporto con le competizioni.
Dal lontano ambiente dell’unione sovietica le gare erano arrivate a noi solo nel 1985. Oggetto di irrisione all’inizio, presto sembrarono costituire la regola del gioco per la maggior parte degli arrampicatori.
Destò quindi particolare impressione che nel 1985 diciannove arrampicatori «di punta» francesi scrivessero una lettera aperta, il famoso Manifesto dei 19, prendendo posizione contro le gare di arrampicata.
Eccone i brani più significativi:
«Certi sport, come ad esempio il calcio o il tennis, traggono la loro ragione d’essere dalle competizioni. Ma l’essenza dell’arrampicata è un’altra. La sua finalità ultima è e deve restare la ricerca di una difficoltà tecnica e di un impegno (solitarie, chiodature lunghe) sempre crescente. E già qui compare una contraddizione con le gare. Siamo realisti. Ci si può immaginare una competizione basata sulla difficoltà pura, ma le necessità dei media sono altre. Per essere spettacolare e fruibile al grande pubblico, la gara deve fornire un parametro di misura facilmente comprensibile a tutti; è del resto il problema di altri sport visivamente troppo complessi, come la scherma ed il judo.
Il parametro più comprensibile è la velocità, il verdetto del cronometro. L’arrampicata come lo sci: un circuito professionistico con una monopolizzazione delle falesie…
Forse questa visione delle cose è un po’ troppo individualista. Ma è quella di un’arrampicata vista come rifugio, di fronte a certi archetipi della nostra società, come opposizione a tutti questi sport giudicati, arbitrati, cronometrati, ufficializzati ed istituzionalizzati. Arrampicare a tempo pieno, o quasi, implica dei sacrifici ed anche una certa marginalità. Ma può essere un’avventura, una scoperta, un gioco in cui ciascuno può fissare le sue regole. Noi non vogliamo allenatori o selezionatori, perché arrampicare è innanzi tutto una ricerca personale. Se nessuno reagisce, la competizione concepita e realizzata da una minoranza può rapidamente e troppo facilmente diventare il riferimento assoluto. Domani, ci saranno gare e concorrenti con il pettorale numerato, di fronte alle telecamere della TV, forse. Ma ci saranno anche degli arrampicatori che continueranno a praticare il vero gioco dell’arrampicata. Degli arrampicatori che saranno i guardiani di un certo spirito e di una certa etica».
Seguono le firme di: Patrick Berhault, Patrick Bestagno, Eddy Boucher, Jean-Pierre Bouvier, David Chambre, Catherine Destivelle, Jean-Claude Droyer, Christine Gambert, Denis Garnier, Alain Ghersen, Fabrice Guillot, Christian Guyomar, Laurent Jacob, Antoine e Marc Le Menestrel, Dominique Marchal, Jo Montchaussé, Françoise Quintin, Jean-Baptiste Tribout.
Di questi diciannove, forse il solo Patrick Berhault rimarrà fedele allo spirito della lettera e non parteciperà a gare…
Come si vede, Patrick Edlinger non aveva aderito, preferendo guardare dalla finestra la primissima competizione, lo Sportroccia del luglio 1985, a Bardonecchia. Nel 1986 invece prende parte alla seconda edizione di Sportroccia e ne risulta il vincitore. In seguito sono molte le gare cui partecipa, finendo sempre sul podio, anche in quelle del circuito di Coppa del Mondo nato nel 1989.
Ciò di cui davvero Patrick Edlinger è stato l’artefice, al di là delle mode e delle infatuazioni, è lo stesso dolce taglio chirurgico che già l’americano John Bachar aveva praticato con minore appariscenza: la separazione dell’arrampicata dall’alpinismo. La scalata di Bachar ed Edlinger trattiene gradimento estetico e fisico, liberandosi da un certo tipo di leggenda che suonava vecchia per crearne un’altra, cui si stenta a sottrarsi perché carica di nuove suggestioni.
In seguito, soprattutto con il suo exploit del 2000 con Berhault, Edlinger cercò di dimostrare che arrampicata sportiva e alpinismo sono perfettamente complementari e danno a ciascuno le soddisfazioni che cerca. Anche Manolo dice più o meno la stessa cosa quando sostiene che non sa dove inizi e finisca l’alpinismo.
Patrick Edlinger (seminascosto) con Ron Kauk, Jerry Moffat, Lynn Hill e Stefan Glowacz
Sin da giovane Patrick ha saputo vivere i suoi sogni in piena autonomia di giudizio e questo è stato un altro suo grande merito. Non imitare gli altri, sii fedele a te stesso. Mio padre mi avvia all’alpinismo e alle sue avventure codificate? Io non ci sto. I migliori arrampicatori francesi firmano contro le gare? Io no. Quasi tutti hanno paura a scalare slegati sul 7a e sul 7b? Io no. Io seguo i miei sogni.
«L’arrampicata per me è un modo di vivere, non solo uno sport. E’ un pretesto per girare il mondo, per trovare nuovi posti e nuova gente. La cosa più importante è restare libero per tutta la vita, questo è il mio vero programma per il futuro».
Sapeva di essere diventato una leggenda, perciò doveva continuare a sognare.
E’ risaputo che negli ultimi anni Patrick aveva problemi di alcolismo. Per lui era «la battaglia più dura che abbia mai condotto, come una solitaria impossibile, ma ne uscirò» aveva confidato.
Pare che le cause della morte di Patrick siano da imputare a un incidente domestico. Secondo quanto riportato dalla Gazzetta dello Sport il 18 novembre 2012, il climber francese sarebbe, infatti, caduto da una scala ripida di casa sua battendo la testa e provocandosi una forte emorragia.
Tutti prima o poi perdiamo la battaglia della nostra vita, è successo anche a Napoleone. E, quando LA battaglia è persa, non solo non riusciamo più a vivere i nostri sogni: non li abbiamo proprio.
postato il 24 agosto 2014
Indipendentemente dal rating, lo stile di Patrick Edlinger era unico, flessibile, fluido senza urlare con un’impressione di sconcertante facilità, in osmosi con il rock e l’ambiente, Patrick Berhault aveva anche questo dono, questa grazia, questo rigore del gesto puro. Gli scalatori di oggi del 9° grado sono insapore, stanchi di effettuare una camminata di avvicinamento di più di trenta minuti nel sottobosco, urlando. Stufi di street-work-out e indoor boulder, sono ginnasti senza alcuna magia, alle prese con voci aperte di 7c negli anni ’80/’90. Ritorno alle origini ragazzi!
Fortunatamente Crivellaro allora non la pensava come adesso, altrimenti cosa doveva dire di Patrick?
La traccia più bella ed importante che ci ha lasciato è proprio il sogno… malgrado le mode, malgrado gli sponsor, malgrado la notorietà, malgrado l’età alla quale nessuno può porre limiti e rimedi… quel sogno di libertà da poter realizzare scalando… libertà di esprimersi e di vivere le proprie scelte… libertà di sentirsi sè stessi, anche se solo per quei pochi attimi durante i quali si accarezza la roccia… !