Pensare come una montagna
di Giovanni Widmann
Aldo Leopold (1887-1948) fu un uomo poliedrico e attivo in molti campi: forestale, filosofo, ecologo e ambientalista, tra i fondatori della Wilderness Society. Perse la vita per un infarto tentando di spegnere un incendio boschivo. Insieme a Walden, ovvero vita nei boschi di Henry David Thoreau – del quale Leopold è l’erede spirituale – il suo libro Pensare come una montagna (traduzione italiana di Andrea Roveda, Piano B edizioni, 2019) è considerato uno dei testi fondamentali dell’ambientalismo. Lo sguardo critico è naturalmente orientato verso la «società meccanizzata» statunitense, osservata dalla sua fattoria nel Wisconsin acquistata nel 1935. E fu proprio l’esperienza di vita a contatto con la natura che ispirò A Sand County Almanac: And Sketches Here and There (questo il titolo originale inglese), scritto negli Anni Trenta e Quaranta e pubblicato postumo nel 1949. L’opera è suddivisa in tre parti:
1. Almanacco dei dodici mesi, derivante dall’osservazione diretta della flora e della fauna selvatica durante i vari mesi dell’anno – soprattutto attraverso i sensi della vista e dell’udito – delle loro caratteristiche, istinti e comportamenti appresi, nonché dei rapporti simbiotici instaurati nel corso delle stagioni in relazione al variare del clima e delle condizioni ambientali. Infatti, secondo Leopold l’esperienza concreta e diretta, ovvero la sensibilità sensoriale e la capacità di sentire, insomma la conoscenza pratica ed empirica è fondamentale nello studio della biologia perché favorisce l’affinamento della capacità percettiva, che unita alla ricerca e alla riflessione entro un certo livello può costituire occasioni formative alla portata di chiunque e quindi non riservate necessariamente agli specialisti: si può cioè con profitto diventare botanici o ornitologi non professionisti: «Il progresso non consiste nel costruire strade in paesaggi già ammirevoli, ma nel far fiorire la ricettività delle nostre menti. (…) La maggior parte dei nostri rapporti con la terra dipende da investimenti in termini di tempo, riflessione, talento e fede, più che da investimenti in denaro. Si è ciò che si pensa».
2. Qualche appunto qua e là, denota uno spiccato spirito di osservazione e una approfondita conoscenza naturalistica degli ambienti descritti – nell’ambito della botanica, ornitologia e zoologia, soprattutto – ma dove si percepisce anche l’intenso rapporto empatico dell’autore con la natura. Tra i vari capitoli, personalmente ho apprezzato in particolare Flambeau, Le lagune verdi, In cima e Pensare come una montagna (che dà il titolo all’edizione italiana dell’opera), dove con esempi concreti Leopold chiarisce concetti come «piramide biotica» e «circuito energetico», mettendo in luce la relazione di interdipendenza tra la terra e gli organismi viventi attraverso le catene alimentari e il rapporto di cooperazione/competizione tra suolo, flora e fauna selvatica (simbiosi), ma anche i rischi connessi allo sconvolgimento dei cicli vitali e alla rottura del delicato equilibrio degli ecosistemi a causa delle attività economiche e/o ludico-sportive umane, sia a livello orogenetico che ontogenetico; questi infatti sono costituiti da complesse strutture organizzate dotate di funzioni specifiche che garantiscono la biodiversità e l’evoluzione intraspecifica.
3. Per concludere è la sezione più organica e articolata, di taglio teorico, dove sono introdotte riflessioni di carattere storico, antropologico e filosofico attraverso una trattazione sistematica dei temi introdotti nelle precedenti sezioni che si avvale della grande esperienza conseguita sul campo da Leopold nello svolgimento della sua professione di forestale, sempre sostenuta da solide basi scientifiche conseguite nel corso della sua formazione accademica e nel suo ruolo di docente. Su questa parte ci concentreremo nelle pagine seguenti.
A Sand County Almanac celebra la natura selvaggia e stimola le moderne società industriali a sviluppare un’«etica della terra» – intesa come «biota», ovvero suolo, piante, animali e uomo – promuovendo quale sua condizione fondamentale, oltre alla necessaria preparazione scientifica, la facoltà di contemplare la bellezza e l’armonia che vi è nelle manifestazioni della natura e nelle sue leggi:
«L’etica della terra, semplicemente, allarga i confini della comunità per includervi il suolo, le acque, le piante e gli animali o, collettivamente, la terra stessa. (…) Un’etica della terra, naturalmente, non può impedire l’alterazione, la gestione e l’uso di queste “risorse”, ma afferma il loro diritto ad esistere e – almeno in alcuni luoghi particolari – a perpetuare la loro esistenza in uno stato naturale. In breve, un’etica della terra cambia il ruolo dell’Homo sapiens: da conquistatore della terra a suo semplice membro e cittadino. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità in quanto tale. (…) Un’etica della terra, dunque, riflette l’esistenza di una coscienza ecologica e questa, a sua volta, riflette il convincimento di una responsabilità individuale per la salute della terra. La salute è la capacità della terra di auto-rinnovarsi. La tutela dell’ambiente è il nostro sforzo di comprendere e preservare questa capacità».
In questo senso «pensare come una montagna» significa riconoscere il rapporto simbiotico che sussiste tra l’uomo, le altre specie viventi animali e vegetali e l’ambiente naturale, sviluppando una visione olistica e sistemica dell’ecologia fondata sul principio dell’equilibrio; una concezione ecologica che si avvale del contributo delle scienze naturali e in particolare dell’ecologia scientifica. Ma la conoscenza da sola non basta, in quanto lo sviluppo di un’etica della terra è condizionato alla maturazione di una nuova sensibilità e di una «coscienza ecologica», ovvero alla consapevolezza della propria responsabilità personale in ordine alla salvaguardia dei sempre più rari e limitati spazi di natura selvaggia, ben prima di quel che possono fare le associazioni, il governo e lo stato creando aree protette e parchi naturali. È un appello che l’autore rivolge soprattutto alle giovani generazioni, e a questo proposito scrive: «L’uomo uccide sempre ciò che ama, e così noi pionieri abbiamo ucciso la nostra natura selvaggia. Alcuni dicono che eravamo costretti a farlo. Comunque sia, sono contento di non dover esser giovane senza una terra selvaggia nella quale esser giovane. A che serve tanta libertà senza uno spazio vuoto sulla mappa?».
Secondo Leopold due sono le minacce alla salvaguardia degli ultimi spazi di natura selvaggia e incontaminata esistente negli Stati Uniti degli Anni Trenta e Quaranta: l’afflusso turistico di massa, che nel mentre ricerca oasi selvagge per lo svago all’aria aperta o per praticare a scopo ricreativo la pesca e la caccia (Leopold stesso era cacciatore e pescatore; da qui l’annosa controversia su come possano conciliarsi ambientalismo ed attività venatoria, che in questa sede non affrontiamo rimandando al contributo consultabile su: https://www.wilderness.it/sito/aldo-leopold-e-la-caccia-una-polemica-infinita/) di fatto contribuisce inconsapevolmente alla loro riduzione e al loro progressivo addomesticamento attraverso la facilitazione e semplificazione del rapporto uomo-natura, resa possibile dai dispositivi tecnologici e dai mezzi artificiali di approccio alla wilderness, la quale però viene banalizzata perdendo la sua essenziale “dis-umanità”. È quello che Leopold chiama «periodo babbittiano» (dal titolo del romanzo di Sinclair Lewis Babbit, del 1922): l’affermarsi dello stile di vita tipico del cittadino americano appartenente alla classe media benestante, che nel rapporto con la natura selvaggia cerca di evitare la fatica e lo sforzo e soprattutto ricerca il «trofeo», sia esso la preda da esibire nel carniere, la prova del successo (teste, pelli) o, in misura meno impattante, la prova fotografica:
«Il trofeo, che si tratti di un uovo d’uccello o di un pasticcio di trote, un cesto di funghi, la fotografia di un orso, un fiore selvatico o un biglietto infilato in un tumulo di pietre su un picco di montagna, è un certificato. Esso attesta che il suo proprietario è stato in un certo luogo e ha fatto una certa cosa – che ha esercitato la sua abilità, perseveranza o perspicacia nell’antica sfida di sottomettere, superare in astuzia o impossessarsi di qualcuno o qualcosa. Di solito queste peculiari connotazioni del trofeo superano notevolmente il suo mero valore materiale».
E ancora:
«Ciò che è inquietante nel quadro moderno del “ritorno alla natura” è che il cacciatore di trofei non cresce mai: la sua facoltà di solitudine, di percezione e di gestione accorta resta in fase embrionale o, forse, va del tutto persa. Egli è la formica motorizzata che sciama per i continenti prima ancora di aver imparato a “vedere” il proprio cortile – che si limita a consumare senza mai creare nulla in cambio. È per lui che i tecnici alterano la natura incontaminata e moltiplicano i trofei artificiali, nella ferma convinzione di rendere un servizio alla comunità».
A questo proposito Leopold recupera il valore positivo del mito della frontiera, non in un’ottica nazionalistica ma piuttosto etico-esistenziale: la presa di coscienza delle radici culturali, così come la memoria delle origini e della storia nazionale, vengono promossi in riferimento al valore delle tradizioni e del mantenimento delle pratiche comunitarie, espressione della cultura materiale dell’epoca pionieristica e della storia rurale degli Stati Uniti. I pionieri, infatti, secondo Leopold incarnavano non soltanto lo spirito di conquista e di avventura, l’audacia, il sacrificio e la capacità di sopportazione, ma anche il rapporto aspro e diretto con una natura severa, incombente e minacciosa che in una costante lotta per la sopravvivenza li metteva costantemente alla prova. Così, secondo lui, un boy-scout che ha conciato un cappello di pelle di procione, ricostruisce, rappresentandola, la storia americana; cacciare o pescare by fair means, con mezzi leali, senza i «gadget» artificiali messi a disposizione dall’industria dello svago – ad esempio pescando una trota non immessa ma nata e cresciuta nelle acque di un torrente con una mosca artificiale costruita in proprio; riscaldarsi con la legna tagliata e spaccata con le proprie mani, mangiare la verdura coltivata nel proprio orto – significa riconoscere che i beni essenziali non derivano dai servizi o dall’industria (supermercato, caldaia), ma dal legame primario e diretto con la terra; ancora, significa intrattenere un rapporto più autentico con la natura, che metta in conto l’imprevisto, la sconfitta, i propri limiti e le proprie paure, perché «dev’essere una ben misera vita quella che permette d’ignorare la paura».
L’altra minaccia è costituita dalla prevalere di una ristretta visione economica della natura, concepita in funzione della sua resa immediata in termini di produzione di beni materiali e di consumo che hanno un valore economico (agricoltura, silvicoltura, caccia e pesca, servizi e attività legate al turismo), per cui la natura è una «risorsa» da sfruttare, uno spazio da conquistare e addomesticare per gli scopi utilitari o edonistici umani, una proprietà che «comporta privilegi ma mai obblighi», trascurando o ignorando le complesse interazioni tra gli organismi, la cui compromissione comporta gravi conseguenze anche sotto l’aspetto economico. Leopold fa l’esempio della soppressione dei grandi carnivori – grizzly e lupi – allo scopo sia di proteggere la fauna selvatica cacciabile come i cervi, sia gli allevamenti [1], ma così rompendo le dinamiche interne alla piramide biotica. Infatti un elevato numero di cervi causa danni alle colture e alla vegetazione spontanea, problema che a sua volta è all’origine di erosioni e dissesti geologici (frane) e inaridimento del suolo; inoltre, una popolazione in eccesso su un territorio limitato riduce le risorse alimentari disponibili e si ripercuote sulla salute complessiva del branco, con conseguenze negative sulla stessa fauna degli ungulati – soggetta a una drastica decimazione per fame – dopo quelle sulla flora, per cui la qualità dell’habitat e della specie risultano nel complesso compromesse:
«L’ostacolo che deve essere rimosso per aprire la strada allo sviluppo di un’etica è semplicemente questo: smettere di pensare che un uso corretto della terra sia un problema esclusivamente economico. Iniziare a esaminare ogni problema nei termini di che cosa sia eticamente ed esteticamente giusto, come pure economicamente opportuno. Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica; è sbagliata quando mostra una tendenza diversa».
Forte della sua professione di forestale, Leopold mette in luce anche i limiti della gestione del patrimonio naturale secondo criteri economici (che ad esempio nell’ambito della silvicoltura porta a scartare il larice in ragione della sua crescita lenta in favore di specie arboree più convenienti e redditizie), disconoscendo il valore estetico, oltre che la funzione finalizzata al mantenimento dell’equilibrio biotico di un ecosistema, di specie vegetali e animali considerate prive di valore economico o addirittura dannose:
«Una delle più grandi debolezze di un sistema di tutela ambientale interamente basato su motivazioni economiche, è che la maggior parte dei membri della comunità terrestre non ha alcun valore economico. Fiori selvatici e uccelli canori ne sono un esempio. (…) La mancanza di valore economico è talvolta una caratteristica non solo di specie o gruppi, ma di intere comunità biotiche: paludi, pantani, dune e “deserti” sono un esempio. (…) Per riassumere: un sistema di tutela ambientale basato esclusivamente sull’interesse economico è irrimediabilmente asimmetrico. Esso tende a ignorare, e quindi alla fine a eliminare, molti elementi della comunità terrestre privi di valore commerciale, ma che sono (per quanto ne sappiamo) essenziali al sano funzionamento della comunità. Suppone, erroneamente, che le parti economiche del meccanismo biotico possano funzionare in mancanza delle sue parti di tipo non-economico. (…) Per me è inconcepibile che un rapporto etico con la terra possa esistere senza amore, rispetto e ammirazione, e senza un’alta considerazione del suo valore. Con “valore”, ovviamente, mi riferisco a qualcosa di molto più vasto del mero valore economico; uso questa parola nel suo senso filosofico».
Ed ancora più significativamente afferma:
«Per noi – che siamo minoranza – l’opportunità di osservare delle oche è più importante di guardare la televisione, e la possibilità di trovare una pulsatilla è un diritto altrettanto inalienabile della libertà di parola. (…) Il fatto è che noi cerchiamo il contatto con la natura perché ne ricaviamo piacere».
Va dunque superato il paradigma economicistico attraverso lo sviluppo di una diffusa coscienza ecologica fondata su un’etica della terra. Per Leopold vi è reciprocità tra etica ed estetica, tra l’impegno attivo del conservazionista e la sua personale partecipazione emotiva e sensibilità empatica nei confronti della terra e dei viventi tutti, tra analisi razionale e vicinanza senti-mentale verso le manifestazioni e gli aspetti del mondo naturale che osserva e studia. «Pensare come una montagna» significa abbandonare il tradizionale antropocentrismo di origine biblica che considera la natura come una realtà ostile, estranea e a disposizione dell’uomo, da dominare ed utilizzare per i suoi scopi; significa, inoltre, riuscire a decentrarsi sentendo di far parte – di essere parte, non “centro” – di quella cosmica e universale totalità vivente che è la «comunità biotica». Essere organi di una comunità organica implica sapere che si è funzionali gli uni agli altri, entro un’organizzazione eco-sistemica che si sviluppa ed evolve nel tempo in ragione di fattori esogeni ed endogeni e che raggiunge l’equilibrio allorquando i rapporti tra gli organismi sono equilibrati e sostenibili. La definizione di comunità biotica è gravida di implicazioni filosofiche e concettuali e ha valore euristico per l’alone semantico che genera, infatti rimanda all’idea di comunanza, all’essere-accomunati, all’avere un destino comune, nel senso che le condizioni di possibilità d’esistenza di un organismo dipendono dalla qualità e quantità di relazioni – funzionali o disfunzionali, cooperative e/o competitive, salutari o nocive, nel senso che mantengono e accrescono la vita oppure la mettono a rischio – che intrattiene con gli altri nel quadro della varietà e ricchezza biologica, così come quelle di un ecosistema dipendono dalla natura delle sue relazioni interne.
Se originariamente l’etica è nata come riflessione intorno a ciò che è “bene” o “male”, “giusto” o “sbagliato” per l’uomo e per il cittadino, promuovendo le condotte valutate come socialmente accettabili e condannando quelle disfunzionali e antisociali, se insomma l’etica per secoli ha avuto lo scopo di integrare l’uomo nella società e di introiettare nel singolo individuo i valori sociali dominanti (processo di socializzazione), ora è giunto il momento di estendere lo statuto etico ammettendo nello spazio morale anche la terra, finora considerata non come soggetto etico ma come bene disponibile [2], come oggetto di azioni utilitarie, trasformatrici e di consumo anziché di cura nel suo significato più nobile: aver cura di ciò che si ama perché è parte di sé, come lo è la vita nascente di cui si prende cura la madre, madre cosciente della relazione osmotica e circolare con la Madre-terra, principio vitale (la physis dei Greci) da cui scaturisce la Vita e a cui tutto torna dopo la morte. In questo, senso secondo Leopold, una rinnovata considerazione e valorizzazione di ciò che è «naturale, libero e selvaggio» è anche un’operazione etico-culturale: un impegno a conoscere per operare secondo ciò che è bene, non in un’ottica parziale, relativa e limitata – esclusivamente umano-centrica – ma per il sistema biotico nel suo complesso, riconoscendone la connaturata varietà, organicità e complessità. Perché «l’uomo si affligge solo per ciò che conosce».
Conclusioni
Che cosa ha insegnato a me la lettura di questo libro, concretamente, al di là delle tante e profonde suggestioni filosofiche, oltre all’offerta di fertili elaborazioni teoriche? Mi ha insegnato ad analizzare meglio ciò che prima distrattamente e inconsapevolmente ignoravo o sottovalutavo, nonché a pormi domande, comprendendo come terra e specie viventi siano accomunate da rapporti sistemici e funzionali derivanti dall’evoluzione e dall’ecologia [3]. Mi ha insegnato a vedere e ad osservare, non semplicemente a guardare. Più precisamente, ha rafforzato in me l’idea che sapersi decentrare è operazione fondamentale per riorientare lo sguardo superando la prospettiva limitata nello spazio e nel tempo. Avere una visione complessiva, adottare un’ottica generale, ampliare lo sguardo significa saper valutare le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni e con ciò essere più responsabili e previdenti, in definitiva maturare una coscienza etica nei confronti dell’ambiente, che non può prescindere dal senso del limite. Così personalmente ho tratto un motivo in più per non giudicare banale osservare il comportamento del merlo che quotidianamente zampetta nel mio giardino. L’errore che non devo fare è pensare egocentricamente, cioè che i suoi gorgheggi e le sue frequenti visite siano “per me”, mentre è fondamentale salvaguardare la capacità tipicamente infantile di pensare poeticamente e di agire con oculata leggerezza avendo la magia nelle mani. C’è un’istintiva saggezza in colui che è rapito dal candore di una lieve brezza; altri lo giudicano ingenuo, mentre invece costui nella carezza che increspa lo stagno ha colto il genio naturante e vitale della terra. Allora e solo allora potrò dire di aver imparato a decentrarmi, a pensare come una montagna.
Concludo questa breve analisi del testo di Leopold – che certo non pretende di essere una dotta recensione, ma soltanto un invito alla lettura per chi ancora non l’avesse fatto – riportando tre ulteriori brani, che si distinguono per la carica di poesia, di partecipazione emotiva e di realistico disincanto derivante dalla personale esperienza di vita dell’autore. In queste parole io più che altrove personalmente ho colto il suo spirito:
«Raggiungemmo la vecchia lupa appena in tempo per osservare un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora che in quegli occhi c’era per me qualcosa di nuovo, qualcosa che solo il lupo e la montagna conoscevano. A quel tempo ero giovane, e sempre ansioso di sparare; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e che nessun lupo equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde intuii che né il lupo, né la montagna, erano d’accordo con una tale visione. (…) Oggi sospetto che proprio come un branco di cervi vive nella mortale paura dei lupi, così la montagna vive nel mortale terrore dei suoi cervi. E forse per un motivo migliore: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, un rilievo eroso da un numero eccessivo di cervi potrebbe non essere sistemato in altrettante decenni».
«Poi, in una notte tranquilla, quando il falò è basso e le Pleiadi hanno scalato gli alti crinali, siedi in silenzio e ascolta un lupo ululare, e pensa intensamente a tutto ciò che hai visto e tentato di comprendere. Allora forse potrai sentirla – un’immensa armonia, una pulsazione – la sua partitura è incisa su mille colline, le sue note sono le vite e le morti di piante e animali, i suoi ritmi abbracciano i secoli e i secondi».
«È una regola di saggezza non tornare mai a visitare un luogo selvaggio, poiché più dorato è un giglio, più si può star sicuri che verrà colto. Ritornare non rovina solo il viaggio, me ne offusca la memoria: solo nel ricordo la splendente avventura resta per sempre luminosa».
Note
[1] Tema estremamente attuale anche nella provincia in cui risiedo, il Trentino. Infatti nel settore orientale la presenza del lupo vede contrapposti da una parte gli interessi dei pastori e degli allevatori e dall’altra le associazioni protezioniste e animaliste, mentre nelle valli occidentali la polemica riguarda il progetto Life Ursus e la difficile convivenza delle comunità locali coi plantigradi. Manca in questi casi la capacità – la volontà? – di adottare una visione globale, sistemica e scevra da pregiudizi o estremismi ideologici. I grandi carnivori predatori come il lupo possono contribuire a contenere il numero degli ungulati (cervi e caprioli) e quindi ad evitare i danni alla vegetazione spontanea, alle coltivazioni e alle piantumazioni boschive causati dalla sovrappopolazione, che a quanto mi risulta attualmente in Trentino è stimata eccedente per un numero pari a oltre 4.000 esemplari per i cervi e 5.000 per i caprioli. Così l’azione di contenimento è delegata ai cacciatori. Ma questo aspetto spesso passa in secondo piano a livello mediatico, mentre è emotivamente più impattante vedere delle pecore sbranate e ascoltare le pur legittime rimostranze dei pastori.
[2] In questo senso è interessante notare come l’etica della terra di Leopold anticipi la riflessione del filosofo francese M. Serres, che nel 1990 pubblicherà Le contrat naturel sostenendo la necessità di «aggiungere al contratto esclusivamente sociale la stipulazione di un contratto naturale di simbiosi e di reciprocità in cui il nostro rapporto con le cose lascerebbe dominio e proprietà per l’ascolto ammirativo, la reciprocità, la contemplazione e il rispetto, in cui la conoscenza non presupporrebbe più la proprietà, né l’azione il dominio, e l’una e l’altra non presupporrebbero i loro risultati o condizioni stercorarie. Contratto d’armistizio nella guerra oggettiva, contratto di simbiosi: il simbionte ammette il diritto dell’ospite, mentre il parassita – nostro status attuale – condanna a morte colui che saccheggia e abita senza rendersi conto che a termine condanna se stesso a scomparire». M. Serres, Il contratto sociale, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano, 2019, pp. 54-55. Se Leopold ritiene necessario ammettere la terra nello spazio morale, Serres privilegia l’ambito giuridico sostenendo la necessità di estendere alla terra lo statuto di soggetto di diritto. Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino almeno a livello teorico e astratto vi fu il riconoscimento che tutti gli uomini, universalmente, sono portatori di diritti inalienabili. Oggi secondo Serres l’impatto devastante sul pianeta delle attività umane rende urgente un nuovo contratto naturale tra l’uomo e la natura.
[3] Secondo Leopold l’individuo (ontogenesi) – in una certa misura anche l’uomo – agisce secondo meccanismi comportamentali fissi ed inconsci, biologicamente determinati e derivanti dall’evoluzione della specie di appartenenza (orogenesi). Se invece si considera lo sviluppo storico delle civiltà umane, si può evidenziare il legame tra le condizioni ambientali e materiali date e le caratteristiche antropologico-culturali delle stesse civiltà come forme di adattamento. Ne deriva che a fronte della varietà degli ambienti naturali corrisponde una ricchezza e varietà delle culture. In questo senso si può dire che secondo Leopold la culture sono condizionate dalla natura e dalle sfide poste dall’ambiente, a cui rispondono con strutture o organizzazioni aventi funzione adattiva.
1
Io non credo possa essere un errore pensare che un tale animale venga a visitarci o canti per noi.