Per un pelo…
di Ugo Manera
L’alpinismo è avventura, ma un’avventura che ti costringe anche a rischiare. Quando l’età decreta la fine della “carriera” e con il ricordo si va all’indietro a scorrere le tante scalate compiute, a chi non capita di pensare: “Per un pelo quella volta mi è andata bene!“
Pur avendo cercato sempre di adottare tutte le precauzioni che mi erano consentite, capita anche a me di ricordare degli episodi in cui ho pensato che la mia esistenza continuava grazie alla fortuna che mi aveva assistito, facendomi passare un pelo prima o un pelo dopo. Ricordo una volta che, con Pietro Delmastro, sulla parete della Brenva al Monte Bianco, eravamo diretti alla via Major e stavamo per iniziare la traversata del grande canalone centrale; un frastuono ci fermò: una valanga stava precipitando davanti a noi. Restammo fermi un attimo spaventati, poi quasi di corsa attraversammo il canale per raggiungere il sicuro sperone della Major, qualche minuto di ritardo ci aveva fatto evitare il peggio.
Qualche anno dopo, con Roberto Bianco, sulla Nord dell’Aiguille Blanche de Peutérey, salivamo in piena notte al di sotto del grande seracco per raggiungere il raccordo percorribile sulla sinistra. Uno scricchiolio sopra di noi ci mise in allarme e ci mettemmo a correre sul pendio con la massima rapidità consentita dalle nostre forze; ad un tratto, come fantasmi nel buio, vedemmo cadere grandi blocchi di ghiaccio poche decine di metri alla nostra destra; le nostre tracce sul pendio vennero cancellate ma noi eravamo ormai fuori tiro e fortunatamente salvi.
L’episodio che però mi ha impressionato di più è legato alle vicende relative alla prima ascensione della parete sud-est della Punta Brendel, una delle grandi torri che formano la Cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peutérey
La complessa parete sud-est di questa grande cima e delle torri che costituiscono la sua cresta sud aveva da tempo destato il mio interesse, mi incuriosiva la via sulla parete della Punta Bich tracciata dal 7 al 9 agosto 1937 da Giacomo Chiara, Bortolo Sandri, Luigi Perenni e Marino Stenico. Era una via sicuramente difficile e un po’ misteriosa, fattori che suscitavano il mio interesse. Pur avendone parlato varie volte con gli amici, non scattò mai però la decisione di portare un tentativo.
C’erano poi le pareti della Welzenbach e della Brendel che risultavano mai salite e questo, almeno per me, era un incentivo fondamentale. A spingermi all’azione fu la prima salita dello spigolo della Welzenbach ad opera di Marco Bernardi, Gian Carlo Grassi e Franco Salino il primo agosto 1980. Restava solo più la parete della Brendel per cui occorreva affrettarsi; la Brendel fece così il suo ingresso nei miei progetti urgenti.
Isidoro Meneghin condivideva con me l’interesse primario per l’ignoto ed aderì volentieri al mio progetto di “prima” sulla Sud-est della Brendel. Era il luglio 1981 ed avevamo a disposizione solo il fine settimana; partimmo perciò una notte tra venerdì e sabato poco dopo la mezzanotte. Contavamo di raggiungere Courmayeur e la Val Veni, salire ancora di notte al Fauteuil des Allemands, proseguire fino alla parete e salirla fino a notte, bivaccare, raggiungere la vetta la domenica, scendere con numerose corde doppie lungo il canalone che divide la Torre Welzenbach dalla Brendel e ritornare a Torino in serata per riprendere il lavoro il lunedì mattina.
Giunti in piena notte in Val Veni trovammo il Monte Bianco avvolto da foschia densa ed una temperatura molto elevata. Illuminandoci la via con le frontali iniziammo la salita lungo l’antica e impegnativa traccia che portava alla capanna della Noire. Conoscevo bene il percorso che seguimmo senza problemi, infastiditi solo dal caldo insolito. Durante la salita si fece giorno e superate le balze rocciose, per i prati del Fauteuil, raggiungemmo la spianata antistante la capanna della Noire.
Avevo appena posato il sacco a terra quando un forte e prolungato frastuono ci fece voltare lo sguardo verso l’Aiguille Noire: un’enorme valanga di neve e blocchi di ghiaccio stava scendendo attraverso il Fauteuil investendo tutto il percorso che noi avevamo lasciato da poco più di un quarto d’ora; seguimmo con lo sguardo allibiti il fiume di neve e ghiaccio che stava scendendo e che per pochi minuti non ci aveva travolti.
Non fu difficile comprendere l’origine della valanga. Alla base della parete della Noire, ove inizia la via normale, esisteva allora una vasta zona di nevai, forse oggi non si formano più causa il rialzo delle temperature. Tali nevai poggiavano su una base di placche di granito, per cui ogni tanto una parte di nevaio si staccava e, scivolando sulle placche, dava origine a valanghe che investivano il percorso di salita al rifugio. Una guida con cliente anni prima era stata travolta da una valanga di questo genere; un percorso alternativo venne attrezzato in seguito per evitare tale rischio.
Superata l’emozione per il pericolo corso, venne spontanea la domanda: “Cosa facciamo ora?” – “Ormai la valanga è passata, continuiamo verso la nostra parete!”, fu la risposta unanime. Rimettemmo i sacchi in spalla e proseguimmo verso la Brendel.
Impressionante fu attraversare la valanga ormai ferma, vi erano enormi blocchi di ghiaccio ovunque. Raggiungemmo la base della parete ed iniziammo a scalare lungo uno spigolo. Alla seconda lunghezza di corda però cominciò a piovere, dopo tutte le emozioni provate non restava altro che rinunciare.
Scendendo lungo il percorso salito all’alba ci rendemmo conto delle dimensioni della valanga; ogni anfratto era colmo di neve e ghiaccio, nessun tratto della traccia era stato risparmiato, anche per quella volta ci era andata veramente bene.
La parete della Brendel restava però là, intonsa e invitante, così al 15 agosto dello stesso anno, in periodo di ferie estive, ritornammo nuovamente contando sul fatto che il nevaio era venuto giù e non poteva staccarsi una seconda volta; come nel tentativo precedente partimmo direttamente dal fondo valle.
La parete della Punta Brendel inizia con un piano inclinato di placche che non presenta difficoltà rilevanti. Lo percorremmo tenendoci sulla destra sotto grandi strapiombi, in qualche modo protetti da possibili cadute di pietre provenienti dalla parete della Brendel e della Bich. Traversammo poi verso sinistra in direzione di una lunga linea di fessure che saliva da destra a sinistra; linea ben visibile dal fondo valle. Percorremmo le fessure per diverse lunghezze incontrando difficoltà elevate fino al loro termine, sotto la zona strapiombante della parete; quella parte centrale ci impegnò seriamente sia per trovare un itinerario percorribile che per le difficoltà.
All’imbrunire ci trovammo su una stretta cengia con al di sopra un muro di roccia scura che, nella scarsa luce del tramonto, appariva ostico. Decidemmo di fermarci a bivaccare su quell’esile balcone, molto stretto ma relativamente in piano; la notte non fu penosa, non avevamo sacchi da bivacco, solo sacchi neri dell’immondizia per infilarci dentro le gambe ed ognuno il proprio sottilissimo materassino espanso; il tempo era bello e la temperatura sopportabile.
Il sole appena sorto ci raggiunse con i suoi raggi e noi entrammo subito in azione. Il muro scuro si dimostrò davvero ostico, era estremamente avaro di fessure; toccò a me affrontarlo e dovetti mettere in opera tutte le mie risorse tecniche per vincere un tratto che, nella scala delle difficoltà di allora, valutai A3. Al di sopra le difficoltà continuavano sostenute fino ad una zona dove la verticalità era interrotta da alcune cenge.
Sopra di noi sulla destra uno sperone verticale puntava verso la vetta della Brendel, mentre verso sinistra un tratto più agevole portava a dei muri di placche molto belle e continue fino alla sommità della Mezzaluna sulla Cresta Sud. Tentare lo sperone direttamente poteva significare un secondo bivacco, per cui optammo per la soluzione verso sinistra (lo sperone diretto venne percorso dalla via aperta da Maurizio Oviglia ed Erik Švab anni dopo, via ripetuta da Fabrizio Ferrari ed Adriano Trombetta poco dopo l’apertura).
Le placche della parte terminale ci gratificarono di una bella arrampicata libera con qualche breve tratto di artificiale; su un passaggio “scomodammo” anche il grado VI. Uscimmo al di sopra della Mezzaluna e con pochi passi lungo la Cresta Sud raggiungemmo la Punta Brendel, entusiasti per la scalata che ci aveva offerto la sua parete sud-est; effettuammo la discesa in corda doppia lungo la nostra via per i primi 150 metri, poi, attraversando verso il colletto tra Welzenbach e Brendel, raggiungemmo il canale, niente affatto invitante, che divide le due punte. Lungo questo canale scendemmo con numerose corde doppie fino alla base. Lungo la discesa trovammo di tutto, vecchie soste ormai inutilizzabili, spezzoni di corda, pezzi di equipaggiamento, forse antiche tracce di avventure drammatiche.
A sera, scendendo lungo il Fauteuil ci ritornò alla mente l’emozione di un mese prima quando, a ragione, ci era venuto da pensare: “anche per questa volta…”, l’azione della scalata ce l’aveva fatta momentaneamente scordare.
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Gli strali contro Ugo Manera, che noi torinesi ci coccoliamo con affetto come fosse un nonno saggio e affettuoso, da un lato mi feriscono profondamente, ma dall’altro mi lasciano un senso di alleggerimento dell’animo. Mi spiego meglio: è pazzesco pensare di dileggiare Manera, di cui è noto l’egocentrismo narrativo, ma che ha pregi superiori ai piccoli difetti. Nei suoi confronti non mancano, neppure a noi, momenti che definirei “edipici”, cioè piccoli contrasti necessari per “superare il padre”. Ma non si può arrivare a sbeffeggiarlo dandogli dell’ottuagenario rimbambito. E’ un insulto a lui e a un’intera schiera di alpinisti torinesi, visto quanto siamo affezionati a Ugo Manera, a Dino Rabbi e ad Andrea Mellano, che purtroppo ci ha salutato pochi mesi fa. Sono per noi dei padri putativi, a prescindere dal livello tecnico di ciascuno di noi.
Dall’altra però questi stupidi insulti a Manera mi alleggeriscono l’animo: se fra i lettori di un blog di montagna si annidano anche degli stolti che offendono perfino uno come lui, allora non c’è da stupirsi degli strali indirizzati a me, visto il divario tecnico con Ugo, la diversa importanza alpinistica e la mia freddezza caratteriale, specie rispetto alla sua natura affabile (ora che è ammorbidito dall’età). Lo conosco da decenni, ma l’ho avuto seduto a tavola proprio di fronte in un recentissimo pranzo ufficiale ai Cappuccini e ho sperimentato ancora una volta la sua simpatia e il suo carisma.
L’attività di Manera è stata così incredibilmente, lunga, piena, totale che solo pensare che non gli sia ancora successo niente va contro tutte le leggi di statistica e del calcolo delle probabilità che ho insegnato per lunghi anni. Parere personale.
Tarpone rende più l’idea di pantegana.
“La prendi troppo sul personale.”
Mannò Roberto, figurati. Anzi ti dirò, ho anche apprezzato qualche intervento del Ratto, talora.
Ma da qui a discettare sulle sue opinioni campate in aria su ottuagenari e narrazioni significative però…
E buona feste anche a te, naturalmente
Matteo. È Natale non badar spazzacamino…..ben scavato vecchia talpa disse poi il Santo barbuto e anche i topi hanno una funzione nel Grande Disegno, oltre a veicolare la peste. La prendi troppo sul personale. Non ti fa bene. Te lo dico da amico 😀 auguri e buone vacanze.. soprattutto Vacanze, di Natale alla Vanzina, ovviamente.
Cioé…
voglio dire…
ma state veramente disquisendo sulle idee e sulle opinioni di una pantegana?
🙂
Infatti, ho sottolineato a mister tarpone che poteva dire qualcosa di suo e non limitarsi solamente a criticare Manera.
E’ molto facile fare solo il critrico. E’ un pò come stare sempre all’opposizione.
Alberto. Ammesso che si possa parlare in chiave razionale e non emotiva dei possibili “incontri con il destino” Ratman rimprovera ingiustamente Manera di non aver esplicitato il “messaggio” (come si diceva una volta) contenuto nel suo racconto. Quello che ti trasferisce il racconto è la mescolanza di stati d’animo che sta alla base dell’alpinismo classico, dalla determinazione all’accettazione della casualità che chiamiamo destino, passando per la prudenza e il coraggio. Sta poi al lettore, se vuole e ne sente il bisogno, ragionarci sopra ed eventualmente ricavarci una precettistica per lui e per gli altri ma non è necessariamente compito del narratore. Il narratore che vuole essere troppo educatore e’ spesso noioso e pedante, anche se animato dalle migliori intenzioni. Auguri e buone scalate natalizie. Ps. Sul destino andai anni fa’ in USA ad un meeting di un guru/predicatore allora molto in voga. Si chiamava “Date with destiny” incontro con il destino. 3000 persone in un auditorium in California, prezzo 150 dollari, lui un oratore animatore straordinario: 7 ore di fila sul palco da solo a coinvolgere il pubblico adorante. Un’esperienza interessante non per i contenuti ma per il tipo di evento e di partecipazione del pubblico, impensabile in altri contesti culturali. Il contenuto in sostanza era ciò che diceva sempre mia nonna “Aiutati che il ciel ti aiuta”.
comunque la proposta dell’uomo tarpone di ragionare sul destino non è male. Certo Sig. tarpone potrebbe non limitarsi alla sola proposta, magari dicendo qualcosa di suo. In fondo, Manera. qualcosa l’ha detto, non ha fatto solo cronaca, quando ha dichiarato di fare del suo meglio per fare le cose ammodino, oltre questo non puoi fare di più, se non accettare o rinunciare. E se accetti, ti metti anche nelle mani del destino?
Si la colgo anche io una certa ostilità nei confronti di Manera e non mi pare la prima volta. Anche se, il tarpone, di ostilità ne dispensa un pò su tutti. Evidentemente è facile stargli sui coglioni. Soprattutto quelli che raccontano le proprie gesta eroiche. Che sia lui un tipo alla Gary Hemming : “a chi vorrà seguirvi non dite nulla di preciso“ …???
Il misterioso tarpone appare improvviso, colpisce con le sue sferzate impietose, riscomparendo nelle tenebre da dove è venuto.
Oops, errore di post, scusate!
P.S.: noto con piacere che, tanto per cambiare, il mio rilancio circa le cazzate tue e di Espò nel post del conflitto è rimasto senza risposta
E dai e dai sedula gutta…
Ratman (del cazzo), gli ottuagenari hanno sicuramente cose da dire unitamente a una certa saggezza che li ha fatti arrivare alla loro età.
Io li ascolto, può piacere o meno il farlo, ma prima di deciderlo vanno ascoltati. Possono suscitare interesse o meno ma non credo che uno come Manera lo faccia per parlare di sè. Semmai si serve di sè e delle sue storie per dirci qualcosa che possa interessarci.
Ci sono calciatori, per esempio, che scrivono la loro biografia prima di compiere 30 anni. Ecco che gli idioti che acquistano quei libri (numerosissimi) confermano a noi tutti, pretenziosamente un po’ meno idioti, quanti idioti ci siano a questo mondo.
E’ sempre una questione di livello. Come in arrampicata, sci, ciclismo… almeno per quello che mi compete.
E comunque lunga vita ai racconti a la Manera (che in Veneto è l’accetta) perché portano là dove hanno avuto origine, con la loro visione e le loro emozioni.
Ratman. Le parabole non hanno bisogno di esegesi altrimenti non sarebbero parabole ma appunto riflessioni. A volte può succedere che un racconto puro e semplice diventi una parabola. magari a prescindere dalla volontà e dall’intenzione dell’autore. Molto dipende dalle proiezioni del lettore. Però, però non è proprio così. Ci vuole qualcosa, un pizzico di qualcosa, uno stimolo magari solo accennato. Qui appaiono a volte piatte cronache, che tali restano e fanno dormire, come sul lato opposto i diligenti compitini con tutti i temi alla moda in fila indiana o gli sbrocchi narcisistici più o meno crepuscolari. Secondo me Manera, con il suo sapore di antico Piemonte qualcosa fa scattare. Fin dai bei tempi dei garibaldini….diceva un vecchio carosello….Però capisco che magari è una mia proiezione. In ogni caso, se mi permetti, colgo nelle tue parole crudeli un po’ di ostilità personale verso l’autore…provare con una China Martini per digerire e far passare l’acidità di stomaco, cosa ne dici?
Le narrazioni, per non lasciare il tempo che trovano – come queste di Manera che si risolvono in pura cronaca di eventi, la salita di monatgne, significativi solo per il salitore – dovrebbero capitalizzarsi in riflessioni: in questo caso sul tema del destino, ad esempio.
Manera, nella sua facondia – per essere gentili – ci ammanisce per lo più le sue immprese: noiosissime parabole sul bravo alpinista assetato di imprese.
Anche in questo caso si potrebbe dire che è andaot fuori tema come sempre: uttto diventa pretesto per parlare di se: Confessioni di un ottuagenario.
Anni novanta notte fonda forse le o le 3 non ricordo …direzione Calanques de Cassis in uno svincolo d uscita di un autogrill a Genova qualche buontempone aveva girato tutti cartelli stradali,l inversione a U degna di speedy gonzales con traffico fortunatamente 0 in piena curva prima dell imbocco ci ha probabilmente salvato la pelle!
Più che peli (che in abbondanza possono farti piacevolmente tardare)è lo scandire del tempo che apre o chiude scenari nefasti o fortunati a seconda…
Non ci può essere nessuna ciliegina etica se la scampi per un pelo. E’ solo prendere atto che sei stato fortunato e ti è andata bene. Magari ci potresti riflettere sul fatto che, non so se lo sarai anche in futuro…
Quando ancora non è la tua ora…
Visto che ci sono tre morti al giorno potremmo dire che anche andare a lavorare e’ un’attività pericolosa, ma non è qui il punto. Non c’è dubbio che il gioco d’azzardo è una componente dell’alpinismo. Non solo dell’alpinismo, ci sono molte altre attività che hanno questo elemento come componente importante, non l’unica ovviamente. Le sensazioni e gli stati d’animo che produce il gioco d’azzardo sono per una parte dell’umanità molto attrattive. Alcuni ne diventano dipendenti, altri alzano sempre di più l’azzardo, altri lo controllano e lo rendono “compatibile” con una vita “normale”. Perché questo accade? E’ abbastanza chiaro quali sono gli effetti “piacevoli”, perché alcuni individui più di altri ne sono attirati e’ un mistero. Ovviamente, come sempre accade, c’è una tendenza di noi uomini a trasformare in “virtù” le nostre preferenze e attitudini e a costruirci sopra un insieme di valori e di modelli mentali e di “visioni”. Manera non appartiene a questo gruppo di persone. Racconta, in modo puro e semplice, senza metterci sopra glassa ideologica e ciliegine etiche. Così è, ci dice. Chi non ama l’enfasi e i toni ispirati dei sacerdoti del sublime non può che apprezzarlo. A me ricorda l’operaio Fausone della Chiave a Stella e non penso sia un caso. A me piace molto questo approccio “minimalista” ed essenziale: non esageriamo, per favore. Ognuno però ha i suoi gusti. Anche il melodramma ha un suo pubblico affezionato.
Lunedì 9 dicembre 2024:
“Brusco epilogo per una gita scolastica nel Ferrarese: nel crollo di un balcone di una dimora storica sono rimasti feriti un insegnante e una guida turistica. Il docente e la guida sono precipitati a terra, un volo di cinque metri, insieme ai calcinacci. Illesi gli studenti che si erano affacciati poco prima.
L’episodio è accaduto a Ro, frazione del Comune di Riva del Po in provincia di Ferrara.”
1981, un sabato pomeriggio di Luglio partiamo da Genova con la mia A112, Giorgio Rosasco e il sottoscritto. La lasciamo a Chamonix e proseguiamo a piedi per il Montenvers. Siamo al Rognon des Drus che albeggia, proseguiamo per la diretta americana. Ci caliamo dal bloc coincé e torniamo per la stessa strada alla macchina. Imboccato il tunnel, Giorgio dorme già, ho sonno e conto i km negli appositi cartelli luminosi.Ricordo il km6. Mi sveglio al km10 a 1cm dal guardrail della corsia di sinistra e da me, perché il motore batte in testa e l’auto sobbalza. Mica potevo dormire schiacciando l’acceleratore…
L’alpinismo è una passione incontrollabile ed è inevitabile correre dei seri rischi nell’asseconadarla, come emerge dall’articolo e dai commenti.
.Ciò nonostante, l’alpinista, a qualsias età (Pensiamo a Garrau che a 66 anni ha scalato il Cervino) non si arrende davanti aqualunque tipo di difficoltà ed è naturale poi mettere insieme le storie delle sue avventure, che non vanno mai banalizzate.
Tutti noi che scaliamo da molti anni, consapevolmente o inconsapevolmente abbiamo corso dei rischi, talvolta enormi, inutile d ipocrita nasconderlo. Nel secondo caso sarebbe opportuno prenderne atto e smettere di credere di avere meriti particolari, quando si tratta solo di pura coincidenza a proprio favore. Tutti tranne uno (al mondo), immagino, che può vantarsi di non avere mai corso alcun rischio nella sua attività arrampicatoria.
Mi piace tanto Manera, se non ricordo male avevo letto della loro nuova via da Toni Gobbi che in quegli anni aveva nel suo negozio una piccola bacheca con le novità.
Come molti di voi (noi) qualche piccola rogna, fortunatamente evitata per sbaglio, mi è capitata. Fa parte del CV.
Scrivo dall’aldilà . . . Siate prudenti, sempre e ovunque, perché altrimenti, prima o poi . . .
Cascata,bella e lunga sopra Fernen Majental rientro tardi,auto,galleria Gottardo,un vero sonnifero,letze km,una fatica. a stare sveglio,il socio non voleva guidare e dormiva,risultato,colpo di sonno all’uscita tagliato trasversalmente l autostrada,colpo sulla fiancata e guard rail,decisamente svegli,per due giorni…gran fortuna non l’unica,è vero che oggi come oggi e non solo si rischia molto di più nel quotidiano,un alpinista attento rischia meno nel pericolo,alla Sentinella Rossa quasi un analogo di Manera,ma mica la si ripete come l’entrare ed uscire in autostrada.Penso sia da sfatare che la montagna sia pericolosa alla n potenza lo è molto di più salire in auto,o nei cantieri.
Matteo su quello non ci sono dubbi, visto il numero dei viaggi dalla Toscana, soprattutto i rientri, alle ore più assurde e belli cotti. Ma c’era da andare a scuola o al lavoro.
Tanti anni fa dopo 5 giorni tirati in Dolomiti dobbiamo tornare perché il socio deve andare dal dentista alle nove di mattina.
Partenza a tardissima ora (o presto la mattina, secondo i punti di vista)
Guido io e a un certo punto quasi vado nel fosso. Lo sveglio e pende lui la guida.
Dopo quello cha a me apre un momento mi sveglia sbofonchiando: “non so bene dove siamo ma non dovrebbe mancare molto” e crolla.
Mi guardo intorno e siamo all’area di servizio Brianza Nord, 1.5 km dalla nostra uscita con piena vista sullo stabilimento della Star e lui non sapeva dov’era…
Ho il vago sospetto che nella mia carriera alpinistica io abbia rischiato molto di più in auto!
Per la cronaca, il mio socio (puzzolente come un cane) è andato direttamente dal dentista e racconta di essersi addormentato mentre questi preparava gli strumenti.
E’ stato svegliato dalle immortali parole: “mi spiace disturbarla, non mi capitano spesso pazienti così tranquilli, ma dovrebbe almeno aprire la bocca sennò non posso lavorare”
Il rischio fa parte del gioco.
Pala del Rifugio via Frisch-Corradini, una cordata che ci precede butta giù un sasso. Sono da primo, lo sento arrivare, cerco di ripararmi, ma mi devo anche tenere. Mi colpisce la testa, in parte sul bordo posteriore del casco, in parte sulla destra della nuca. Mentre mi si piegano le gambe, riesco a tenermi e a non cadere, ma in un attimo sono tutto insaguinato. Sembra mi abbiano tagliato la gola. Mi fascio alla meglio, finisco la via e adesso mi aspetta la lunga discesa.
E’ andata bene…!
A volte la nostra passione ci fa correre dei grossi rischi : alcuni evitabili con prudenza e mestiere , altri no.
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Quando la dimensione e’ verticale , io sono fin troppo preoccupato dal rischio di precipitare , mentre quando e’ pseudo orizzontale , metto dentro delle cappellate.
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Finito il corso SA1 , con due amici decidiamo di andare a fare una gita di due giorni con notte in rifugio.
A meta’ del viaggio in auto , un socio ricorda che ha lasciato gli scarponi a casa.
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Ritorno di corsa a casa sua , ma la giornata e’ compromessa , e partiamo almeno 3 ore in ritardo sulla tabella , troppo tardi.
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Attraversando un canale sento un fragore a monte e mi accorgo che il canale e’ diventato un fiume di neve con le onde stazionarie.
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E’ la prima volta che vedo una valanga in movimento , non ha niente di solido , sembra proprio acqua ; cerco di scappare ma cado per terra , per fortuna mi risputa poco piu’ in basso.
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Quella volta si e’ tenuta solo le racchettw.
Anno 76.via normale al Bianco
Mentre attraverso il coluar sento rumore di sassi. Mi aggrappo ad un masso. Finito la scarica di pietre riprendo la salita per il rifugio. Il giorno dopo vengo a sapere che prima di me donna era stata investita ed era morta. Un metro. Un secondo e sarebbe toccato a me. Grazie mi ha fatto piacere ricordare.
Grande Manera.
Anni fa eravamo di notte seduti fuori dal bivacco Borelli. Eravamo li per salire la cresta sud della Noire. D’improvviso un rumore enorme e poi tutta una serie di scintille, fuochi. Era una enorme frana, che veniva giù dalla parete della Noire compresa tra la cresta sud e la cresta dove sale la normale. Impressionante, da li a poche ore ci saremnmo dovuti passare di sotto per raggiungere l’attacco della cresta. La frana era partita da poco sotto la vetta e in discesa fummo costretti ad attraversare tutta la zona della frana con massi in bilico. Non fu piacevole passare dili, ma non c’erano alternative.
Qualche anno dopo con un amico andammo alla Ratti-Vitali alla Noire, scesi dal Colle dell’Innonminata, attraversammo il ghiaccio del Freney facendo non pochi giri tra i crepacci e passando sotto due grossi seracchi raggiungemmo l’attacco della via. Qualche ora dopo, mentre salivamo la via, i due seracchi dove eravamo passati, crollarono.
Concordo.
Sempre piacevoli ed interessanti i contributi di Manera al blog: meriterebbero una rubrica periodica. Da ciò ne trarrebbero vantaggio i lettori e la storia dell’alpinismo.