Perché qui nessuno chioda?
di Gianni Battimelli
(prefazione a Pietra di Luna 2011)
“C’è Heinz che vorrebbe chiederti una cosa”, mi dice sorridendo Luisa Iovane, e io non faccio neanche in tempo a dire « prego, si accomodi « , che un tipo non proprio mingherlino dall’aria decisa mi apostrofa bruscamente con una domanda diretta: “Perché qui nessuno chioda?”
Ho avuto qualche difficoltà a spiegare a Heinz Mariacher i motivi per cui la probabilità di incontrare da quelle parti qualcuno che avesse voglia di mettersi ad attrezzare falesie era inversamente proporzionale alla quantità di chilometri quadrati di roccia vergine che ci circondavano. Deve aver pensato di essere atterrato in un posto molto strano, e che comunque occorreva rimediare a questa incresciosa situazione. Il giorno dopo, una molto diradata fila di piastrine scintillava al sole sul calcare della Poltrona, e veniva consegnata alla posterità Deutsch Wall, in seguito più nota semplicemente come “la Mariacher”.
Era Pasqua del 1985 a Cala Gonone, e nasceva l’arrampicata sportiva in Sardegna. Per me, almeno, quella data segna uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. “Prima” c’erano l’esplorazione e la ricerca, le scorribande senza meta precisa tra la Gola di Gorropu e l’altopiano di Lanaitto, i bivacchi nelle còdule e a San Pietro, un sentore di mirto e ginepro che condiva il sapore di un’arrampicata che volevamo pulita e libera senza chiamarla ancora così; “prima” c’era un mezzogiorno di pietra che aspettava di essere scoperto, e c’erano un Capo e un Mago che si narrava avessero salito la più bella guglia di calcare mai toccata da mano d’uomo, sepolta laggiù da qualche parte lungo la costa dell’isola che non c’è. E, “prima”, non c’erano gli spit.
“Dopo” è arrivato tutto ciò che trovate in questo libro. C’era una cosa che non potevamo sapere, Heinz e io quella sera a Cala Gonone, che cioè in breve tempo la domanda “perché qui nessuno chioda?” non avrebbe più potuto essere posta. Perché proprio in quei giorni sbarcava sull’isola, ed era destinato a innamorarsene (dell’isola, dei suoi abitanti e di una di essi in particolare) Maurizio Oviglia, che la avrebbe eletta a dimora e teatro di una titanica opera di carpenteria verticale.
Gode di cattiva fama, tra i puristi dell’arrampicata, la parola carpenteria. Ma non è giusto. Nel lavoro di un buon carpentiere c’è conoscenza e passione, ed è sedimentato tutto un sapere che ha insieme della capacità artigianale e della progettazione intellettuale; e ci può essere, associato alla competenza e alla manualità, amore per la materia su cui si interviene. C’è tutto questo nelle tracce lasciate dal lavoro di Maurizio, sulle rocce e nelle pagine in cui le ha raccontate e descritte.
Sulle rocce, basta mettere le mani su una qualunque delle innumerevoli falesie da lui scoperte e attrezzate per averne conferma. Quanto alle pagine, tra le mani ce le avete già; andate un po’ oltre e scoprirete che questa è una guida fatta soprattutto per essere letta, oltre che per essere sfogliata alla ricerca di utili indicazioni su accesso, esposizione e difficoltà. Perché i luoghi che vi vengono illustrati hanno anche un’anima e una storia, e l’illustratore ha conservato una antica capacità di conservare e trasmettere il senso di queste storie, e la memoria delle persone che le hanno popolate.
Sono storie che hanno ormai, in alcuni casi, una lunga vita sulle spalle, mentre altre sono appena abbozzate e aspettano di svilupparsi. Capita a volte che lo sviluppo sia nemico della memoria; che la comparsa di molti nei giardini nascosti, frequentati un tempo da pochi, distrugga il meglio di quei giardini, e il ricordo di ciò che li rendeva incantati. Era una paura che avevamo, “prima”, augurandoci segretamente che il “dopo” non arrivasse, che le rocce sarde rimanessero il terreno di coltura di un’utopica preservazione dell’integrità dell’esperienza selvaggia, e temendo la deteriorazione dell’integrità di quegli ambienti e di quell’esperienza che sarebbe derivata dall’invasione di folle irrispettose. Mi fa piacere riconoscere che era una paura infondata, che lo sviluppo dell’arrampicata moderna (in quantità di falesie attrezzate e in numero di praticanti attivi e di visitatori) non ha intaccato la primitiva grandiosità dell’ambiente e la sua peculiare magia, e che lo sguardo disincantato dell’oggi non ha ucciso l’incantamento di ieri. E credo che in buona parte questo vada anche ascritto a merito di chi sull’isola ha guidato lo sviluppo conservando e trasmettendo la memoria.
Alla fine, “quel” sentore di mirto e ginepro è ancora lì, a condire il sapore di un’arrampicata che è cambiata più nelle sue manifestazioni esteriori che nello spirito che la anima. È bello avere tra le mani l’ultima edizione della fatica che ha saputo regalare a tanti il messaggio di questa continuità.
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Fabio, pensa che a Finale l’amministrazione locale non favorisce in nessun modo gli arrampicatori né ha mai contribuito all’attrezzaturadi falesie. Non parliamo quindi di manutenzione o richiodature.
Anzi, non ha neppure mai pensato di fare dei parcheggi nelle zone più frequentate e nei weekend e durante i ponti sguinzaglia pattuglie della polizia locale che fanno migliaia di contravvenzioni. In effetti funziona benissimo. I commercianti e gli albergatori lavorano tutto l’anno e il Comune fa cassa alla grande con le multe.
Come dargli torto?
Si, bella introduzione che introduce però un discorso più ampio ed un tantino spinoso.
Infatti , c’è da riconoscere che questi pionieri hanno iniziato a chiodare seguendo la loro passione, con il conseguente risultato che hanno cambiato il volto e la ricchezza (in positivo) di alcune località! Parlavo proprio ieri con dei commercianti di Dorgali, i quali mi confermavano che trenta anni fa, in quelle zone a partire da Ottobre calava una spettrale desolazione. Attualmente i traghetti per e dalla Sardegna sono pieni di auto e furgoni di climber con un positivo riflesso anche sui i conti di questi commercianti. La mia domanda è: in che maniera le amministrazioni Comunali apprezzano e ricambiano questa pacifica invasione? Contribuiscono in qualche modo sulla manutenzione che poi nulla altro sarebbe che sicurezza? Sono tornato dopo molti anni a scalare a Satta Ruja (Dorgali) ed ho riscontrato un pastroccio di “incomplete richiodature”, ma una allarmante situazione di alcune/molte catene di sosta. Il buon Maurizio Oviglia effettua richiodature al titanio di tasca sua o grazie a qualche sparuto contribuente, ma le amministrazioni comunali sono minimamente sensibili al problema, o raccolgono solo i frutti fino a che morte non ci separi?
Un amico mi ha riferito che a San Vito Lo Capo, il Comune è totalmente assente per quanto riguarda la chiodatura e la successiva manutenzione, pur considerando che a loro, il Climber ha prolungato di almeno quattro mesi la stagione turistica. Se fosse davvero così, sarebbe un luogo da boicottare.
Forse non era l’articolo giusto per fare della polemica, ma mi è sembrato che mi fosse stata alzata una palla che non potevo non…!
Sur ces grandes voies en dalles, pas trop de risque de se faire mal en tombant,
mais un clou de plus, c’est toujours rassurant.
Bellissima introduzione Batman!!!
Che introduzione fantastica. Grande Gianni!
Una delle più belle introduzioni mai lette, bravo Batman!