Il Pic de Bure

Il Pic de Bure (GPM 030)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista mensile del CAI, dicembre 1972)

Lettura: spessore-weight*, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**

Discendendo la valle della Durance, poco dopo Gap, sovente avevo notato, al di sopra di fitte foreste, il profilo di un enorme spigolo verticale, una prua di bianco calcare che si stagliava netta nel cielo azzurro già un po’ provenzale. Dapprima fu curiosità, poi subentrò un interesse più diretto. Seppi che quella montagna era il Pic de Bure e che quello spigolo era stato salito in quattro giorni d’arrampicata da René Desmaison, André Bertrand e Yves Pollet-Villard.

Leggiucchiando qua e là sulle riviste francesi ebbi informazioni più dettagliate; ossia che la via era uno degli itinerari più interessanti e difficili delle Prealpi francesi, una splendida arrampicata di quasi 600 metri su un calcare in genere buono, a tratti friabile. Itinerario che ormai annovera numerose ripetizioni, quindi divenuto classico e di conseguenza chiodato a sufficienza.

Per un po’ tuttavia i miei interessi furono distolti dal Pic de Bure e rivolti ad altri gruppi delle Prealpi francesi, come il Montbrison o i Cerces, più accessibili e vicini. Eppure quello del Pic de Bure era e restava un chiodo fisso. Fra l’altro, non avevo mai ripetuto una via di Desmaison e mi attirava parecchio conoscere questo uomo, anche attraverso una delle sue imprese maggiori: di ritorno dalla prima salita del Pic de Bure, René dichiarò che solamente sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo aveva incontrato maggiori difficoltà. E la nota tecnica della salita prometteva gradi grossi: 26 lunghezze di corda, delle quali pochissime inferiori al quarto grado. Molte in compenso su un livello continuo di quinto e quinto superiore con passaggi di A2 e sesto.

Primavera 1972. René Desmaison tiene una conferenza a Torino e proietta, fra l’altro, un film girato nel Dévoluy, il massiccio montagnoso nel quale è compreso il Pic de Bure.

Ho modo di conoscere il grande René, un uomo estremamente simpatico e brillante: parliamo anche del Pic de Bure e gli comunico la mia intenzione di ripetere la sua via. Me la consiglia vivamente, anzi è entusiasta del mio progetto: René è un innamorato del Dévoluy, che considera la zona più bella e selvaggia delle Prealpi francesi. Solo sul Pic del Bure, mi dice, ho aperto altre due vie, ambedue di estrema difficoltà, che hanno richiesto più giorni d’arrampicata e l’impiego di qualcosa come duecento chiodi ognuna.

I dubbi che mi assalivano un po’ vengono dissipati: si esce in giornata e la via è chiodata. La roccia non è così friabile come si è sentito dire. Anche per la discesa ricevo informazioni molto utili.

Si tratta ora di trovare un compagno disposto a seguirmi. Il lavoro mi concede qualche pausa, in questo periodo, quindi posso benissimo sfruttare un paio di giorni feriali; la domenica preferisco uscire con la ragazza; via, cerchiamo di accontentare un po’ tutti. Uno studente, dunque; mi è necessario uno studente. Ci sarebbe Guido Morello, il quale più volte mi ha espresso il suo vivo desiderio di ripetere il Pilier, ma Guido, professore di ginnastica, è impegnato durante la settimana. C’è Fulvio Berrino, uno dei migliori allievi della nostra scuola d’alpinismo, il quale è disponibile e anche pronto a seguirmi. Diciannovenne, magro come un chiodo, arrampica veramente bene, leggero e sicuro. Mi pare un po’ di rivedermi alla sua età: gli stessi facili entusiasmi, la stessa voglia di collezionare salite, lo stesso desiderio di arrampicare ogni qual volta si ha un briciolo di tempo libero.

Il viaggio in parte mi è già noto. Non sono mai stato invece nel Dévoluy, ma mi fido delle descrizioni di Desmaison e mi attendo qualcosa di veramente insolito.

Lasciata Gap, raggiungiamo Veynes e imbocchiamo la valle che ci condurrà a Saint-Etienne-en-Dévoluy, base di partenza per il Bure. Ed ecco, ora comincio a capire: la natura dei luoghi è straordinariamente selvaggia, scarsa la vegetazione. Valli incassate tra fianchi rocciosi e dirupati, orridi e gole in abbondanza e più in alto colate di ghiaia titaniche, sopra le quali si ergono pareti di carattere tipicamente dolomitico, verticali, gialle e grigie, alte anche 500 e 600 metri. Un misto di Dolomiti e Delfinato, ancora una volta unico nel suo genere.

Mentre risaliamo la valle, stretta e tortuosa – ascoltando brani scelti di pop music, di cui ambedue siamo veri e propri cultori – all’uscita di una galleria ci appare la parete della Crêtes des Bergers, dove morì il grandissimo Jean Couzy, colpito da un sasso. Non crediamo che si tratti di una parete molto solida, almeno a giudicare dalla colata di ghiaia che si stende ai suoi piedi: una cosa mai vista, enorme, una vera sofferenza per quei poveretti condannati a risalirla.

A sinistra riconosciamo l’Aiguille de La Cluse, torrione marcio e crollante, salito da Desmaison e Flemmaty: malgrado il marciume René riuscì a girare un film durante la prima salita: lo portò a Torino e lo proiettò durante la sua conferenza. Non che io sia un’amante del friabile, però mi son fatto una tale esperienza sulla Parete dei Militi in Valle Stretta che raramente, anche sulle pareti reputate più marce, mi vengo a trovare a disagio.

Non voglio con questo consigliare di arrampicare sul friabile, ma non tutte le salite si svolgono su roccia sana e compatta: per questo, abituarsi un po’ al “delicato” non fa mai male. Fra l’altro, ci si abitua anche ad arrampicare leggeri, con molta calma, e anche nella scelta dell’appiglio ci si ritrova poi molto più esercitati.

Lasciamo la valle principale e pieghiamo verso Saint-Etienne. Il paesaggio cambia radicalmente: scompaiono i fenomeni d’erosione, le forre, i calanchi, e appare una bella valle ampia, verde, una dolce conca prativa ricca di scure foreste di abeti, dominata dal profilo bianchissimo del Pic de Bure, che visto di qua ricorda stranamente la parete sud della Marmolada. In fondo ecco Saint-Etienne, piccolo villaggio con i neri tetti d’ardesia e il campanile aguzzo: il tutto in un capolavoro di grazia e di pittoresca bellezza. Peccato per i numerosi cartelli pubblicitari, che richiamano l’attenzione su una nuova importante stazione sciistica che si sta creando ai piedi del Pic de Bure: il Superdévoluy. Per ora non scorgiamo nulla.

Nelle varie trattorie e locande non troviamo posto per dormire; tutti ci indirizzano agli alberghi del Superdévoluy. Una grande strada asfaltata sale fra i prati e ci scodella davanti ad alcune costruzioni enormi, piramidali, ispirate vagamente alle piramidi azteche. Raramente il cattivo gusto è riuscito a produrre qualcosa di peggiore, e sinceramente mi chiedo in base a quale criterio si sia permesso di rovinare una conca così bella con queste costruzioni mostruose. C’è tutto: albergo, piscina, sauna, campi da tennis, negozi, cinema, palestra. Forse ci si è voluti ispirare a certe idee di Le Corbusier, ma, ahimè, il risultato ha tradito gli intenti.

Ci avviamo, comunque, in quest’alveare umano che suscita in noi uno strano senso di tristezza e di squallore. Perduti in enormi corridoi e in giganteschi saloni, troviamo infine la reception e veniamo (guarda un po’) alloggiati nell’ala Bure. Salendo su strani ascensori che fermano unicamente ai piani dispari, raggiungiamo la nostra stanza, anche questa ispirata ai canoni della più moderna funzionalità: due letti bassissimi e posti su basi scorrevoli, in modo da renderli avvicinabili e trasformabili in un unico letto matrimoniale.

Constato con vivo disappunto la presenza dei terribili cuscini francesi, sorta di mortadelle imbottite, che hanno il pregio di rompermi l’osso del collo per tutta la notte. Mi consola la presenza della doccia.

È ancora presto e pensiamo bene di andare a gettare un’occhiata da vicino al nostro spigolo. Scoviamo così una bella strada in terra battuta che, salendo in una magnifica foresta, conduce a una zona pascoliva, veramente incantevole, posta proprio ai piedi della parete del Pic de Bure. La strada termina a una piccola casa forestale, a un’ora circa di marcia dall’attacco. Anche la via di discesa, vista di qui, non presenta problemi.

Molto soddisfatti, rientriamo nel “lager” e consumiamo, in un gigantesco self-service, una delle più squallide cene che io ricordi nella mia vita.

È piovuto durante la notte, e ora una cappa di nubi grigie stagna sui monti del Dévoluy. Appare però qualche striscia d’azzurro e decidiamo di tentare lo stesso. Lasciata la casa forestale, risaliamo le dolci distese prative; poi un ripido pendio nevoso ci conduce alla Brêche de Bure. Dovremmo ora discendere una cinquantina di metri sul versante opposto e poi attraversare, per raggiungere l’attacco dello spigolo, che visto di qui è veramente eccezionale: bianco, compatto, verticale, mi ricorda molto lo spigolo sud-est della Torre Trieste. Lo stesso slancio, la stessa potenza, anche se questo risulta ancora più elegante per la mancanza dei terrazzoni erbosi che ledono un po’ la continuità dell’altro.

Dévoluy, Lac de Pelleautier e Pic de Bure (il Pilier est è quello contro il cielo)

Scendere sì, ma dove? Immaginate un pendio quasi verticale di ghiaia e rocce tenute assieme dalla terra. Eppure saranno ben scesi. Sfruttando al massimo la tecnica mani e sedere, riusciamo a calarci grottescamente fin sotto la breccia, dove un astuto sentierino ci porta in pochi minuti all’attacco. Il posto ha qualcosa di terribile; esercita una suggestione straordinaria: attorno montagne diroccate e in sfacelo, creste turrite erose dal tempo e dal vento, colate di ghiaia immense che discendono giù verso i monti di Gap, fino a perdersi nel verde dei boschi. Girando il capo verso l’alto ci si sente schiacciati da una volta di strapiombi, immane e putrida; il tutto condito dalla presenza di molti sadici corvacci, che gracchiano sinistramente volteggiando fra tetti giallastri. Ci manca solo Mike Bongiorno che dica: «Allegria, allegria…!».

Lo spigolo invece ci sembra di roccia sana e compatta, un bel calcare bianco e grigio, tipicamente dolomitico, ricco di appigli e di buchi. A tratti però vediamo placche chiare e levigatissime, che ci ricordano assai la roccia delle Prealpi francesi.

Che dire della salita? Non starò certo a raccontarvi la via, lunghezza per lunghezza. Se è per questo, potrete leggere la nota tecnica. Avevamo corde da 50 metri e così riuscimmo a fare più in fretta, evitando qualche sosta intermedia e, a volte, collegando in una sola due lunghezze di corda brevi. Una volta sbagliammo via e andammo a infilarci su per un diedro bianco e liscio, privo di chiodi, dove il numero 6 fece la sua unica apparizione durante la salita. Anche al termine, il sottoscritto trovò modo di esibirsi in un numero di alta classe su un muro assai marcio, sempre per errore di interpretazione della nota tecnica. Pure la pioggia ci fece visita, senza però disturbarci troppo.

Posso dire invece di aver compiuto una delle più belle e interessanti arrampicate della mia carriera; una via splendida, veramente completa, su roccia sempre ottima, a parte qualche tratto un po’ friabile ma non troppo. Un itinerario grandioso per eleganza e concezione, un arrampicare quasi sempre in libera dominando un vuoto veramente grande.

Ecco, ho avuto la dimostrazione di ciò che vale il grande René: in alcuni punti, dove le soluzioni possibili potevano essere diverse, in altri dove procedere poteva sembrare impossibile, Desmaison ha saputo trovare la soluzione logica ed elegante, oppure ha scovato la traversata arditissima per aggirare gli strapiombi e riprendere i diedri e le fessure percorribili. In conclusione, una salita che tornerei a rifare, che mi ha soddisfatto forse ancor più di una Scotoni o dello spigolo della Trieste.

Fulvio è sempre stato al suo posto, all’altezza della situazione. Distendendo i suoi arti lunghi e secchi, proprio come un ragno, me lo vedevo sbucare dalla nebbia e salire leggero e sicuro. Dopo circa undici ore eravamo in vetta, un lunghissimo e vasto plateau ricoperto di vecchie tracce di neve e di bianchi sassi calcinati dal sole (che però quel giorno non c’era). In una greve e afosa atmosfera di pioggia, sotto grandi distese di cumuli nerastri, ci incamminammo veloci lungo il pianoro, poi sempre senza incontrare grandi difficoltà, raggiungemmo i nevai. Con lunghe e divertenti scivolate ben presto fummo alla macchina.

Nota tecnica: Pic de Bure, pilastro est, via Desmaison/Bertrand/Pollet-Villard. 600 m, ED. Prima salita italiana: Gian Piero Motti e Fulvio Berrino, nel giugno 1972.

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Il Pic de Bure ultima modifica: 2018-03-10T05:55:34+01:00 da GognaBlog

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