Pigne d’Arolla, 29 aprile 2018 – 1a parte
(intervista a Tommaso Piccioli)
di Lorenzo Merlo© – terminato il 19 luglio 2018
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Ragioni di un’intervista
Chiunque si occupi di alpinismo e a maggior ragione qualunque alpinista che abbia seguito le cronache sulla vicenda della Pigne d’Arolla è rimasto con molte domande irrisolte.
In questa intervista a Tommaso Piccioli, riproponiamo aspetti già noti e proviamo a chiarirne alcuni rimasti oscuri su quelle ore fatali a più persone. Come vedrete le intenzioni non sono andate pienamente a buon fine.
La raccolta dei dati necessari a formulare le domande di questa intervista deriva da articoli non sempre univoci.
La cronologia a volte è stata profanata, per prediligere una divisione degli eventi per circostanza.
La ripetizione parziale di alcune domande, si è resa utile per poter tenere il filo della vicenda.
La zona del Canton Vallese in cui hanno perso la vita sette persone.
Contesto
Un gruppo di italiani – anche se non tutti lo erano – da tre giorni era in marcia sulla rinomata haute route Chamonix-Zermatt, un percorso che richiede diversi giorni in funzione del tracciato scelto. Il 29 aprile 2018 stava percorrendo la tappa dalla cabane des Dix 2928 m, alla cabane des Vignettes 3157 m, interamente in territorio svizzero. Erano partiti per tempo consapevoli di un preannunciato peggioramento delle condizioni meteorologiche, poi verificatosi a metà mattina. Fin dalla sera precedente, a causa dell’annunciato cambiamento meteo, Mario, la guida, aveva deciso di accorciare la tappa in programma. Avrebbero perciò raggiunto la cabane des Vignettes, evitando il più lontano Rifugio Nacamuli in territorio italiano, riducendo così di diverse ore l’impegno della giornata.
Una foto di gruppo del primo giorno di haute route, ripreso da Mario Castiglioni. Da sinistra: Betti, Kalina, Julia, Andrea, Marcello, Gabriella, Luciano, Tommaso, Francesca.
Dolorosa sintesi
Tra la sera del 29 aprile 2018 e la mattina successiva, due gruppi di scialpinisti rispettivamente composti da 10 persone italiane e 4 francesi, dopo aver tentato invano di raggiungere il rifugio, alle luci della sera si arrestano stremati per un bivacco all’addiaccio. Condizioni proibitive li avevano accompagnati per buona parte della giornata. Dapprima con nauseante whiteout, in seguito da una violenta bufera con venti stimati a 100 all’ora e temperature fortemente sotto zero. Al mattino successivo vedranno il rifugio a circa 500 metri in linea d’aria. Julia, una del gruppo vede i primi sciatori uscire dal rifugio e Tommaso li richiama con delle urla. In breve vengono raggiunti dai soccorsi.
Muoiono in sette del cosiddetto gruppo degli italiani, tra cui la loro guida, Mario Castiglioni. Inizialmente, secondo alcune fonti, quattro perdono la vita nella notte, due nel trasporto verso due diversi ospedali del Vallese e l’ultimo, qualche giorno dopo in un letto d’ospedale. Ad oggi pare che soltanto Mario sia stato trovato già morto. Gli altri sei periranno in ospedale, alcuni appena giunti altri anche dopo qualche giorno. I loro nomi: Elisabetta Paolucci 44, Marcello Alberti 53, Gabriella Bernardi 52, tutti di Bolzano, muoiono appena giunti in ospedale. Nell’intervista Tommaso dirà: «La Betti aveva 3 gradi di temperatura corporea quando è arrivata in ospedale»; Francesca von Felten 60, di Parma, nel trasporto all’ospedale di Berna; Andrea Grigioni 45, infermiere, di Lurate Caccivio, Como, in ospedale qualche giorno; Kalina Damyanova 52 (moglie di Mario, nel trasporto in ospedale), Mario Castiglioni 59 (sul posto). Tommaso Piccioli 49 di Rimini; Julia, tedesca, residente nei pressi di Bellinzona; Luciano, 72, svizzero, residente nei pressi di Locarno, sopravvivono e si sono ripresi in buona misura. Di loro, neanche una foto è reperibile sul web.
Tutti sopravvissuti i quattro francesi.
La copertina della mappa adottata per la ricostruzione della giornata del 29 aprile 2018.
Ragioni di una posizione
Nonostante il presunto atteggiamento preventivo della guida (tendo a pensarlo, come collega; per la consapevolezza della formazione delle guide; per la mentalità assistenzialistica che ne scaturisce nei confronti di chi si affida a noi; oltre che per dovere deontologico) e tutti i tentativi di condurre il gruppo al rifugio, le condizioni hanno sopraffatto le intenzioni. Prima di pensare sia un’assoluzione, chi sa di montagna sa che in certe circostanze non è più possibile mantenere il registro che dal divano è sempre più o meno facile rispettare.
Inoltre, il mio atteggiamento nei confronti di posizioni in contrasto, non è quello di trovare le responsabilità dell’altro. Piuttosto le ragioni. Adotto questa prospettiva in circostanze ordinarie. A maggior ragione, mi pare opportuna, in quelle straordinarie. Quelle in cui canoni e consuetudini, doti e valori si rimescolano compiendo scelte che altrimenti non avremmo fatto, offrendoci un mondo che si fa fatica a raccontare a quelli sul divano. Trovando le ragioni dell’altro si trova la pace, si va oltre, si ritorna al meglio di se stessi. Non perdonare, non liberarsi dal passato, comporta il contrario. Si resta nel passato e ci si separa dalla bellezza, dalla salute, da noi stessi.
Dunque da parte mia, alcun tentativo di accertare alcunché, né di convergere su giudizi morali. Per un motivo elementare: non ero là. E perché so, come tutti, che anche in situazioni non estreme, bensì opposte, domestiche, possiamo compiere scelte, solo poi considerabili sbagliate. Tutti siamo sullo stesso livello. Giudicare il prossimo vuol dire credere di poter essere migliori. Trarre da una persona un suo frammento d’infinito, separarlo dalla vita, e metterlo sul vetrino del nostro candido microscopio, non penso sia una via di libertà.
L’area della tappa tra la cabane des Dix (alto) e la cabane des Vignettes (centro). Nel cerchio n basso, la zona del rifugio Nacamuli (basso), non presente in questa edizione della mappa, ma corrispondente al bivacco Collon.
Alcuni dati topografici – e dislivelli tra loro – relativi alla zona della vicenda
Cabane des Dix 2928 m
+495
Dorsale, ca 3423 m (del col de la Serpentine 3547 m)
+169 (+691)
Risalto nei pressi di Q. 3592 m oltre il quale si raggiunge il colle di Brenay
+47 (+738)
Colle di Brenay 3639 m
+111 (+849)
Colle a ca 3750 m, sotto la Pigne d’Arolla 3796 m
-450
ca 3300 bivacco forzato
-ca 153
Cabane des Vignettes 3157 m
Da q 3300 m (per eventuale rifugio Nacamuli 2828 m, vicino al bivacco Col Collon 2818 m)
– 247
Col Cherimontane 3053 m (punto di risalita per colle de L’Évêque)
+339
Col de l’Évêque 3392 m
-305
Col Collon 3087 m
-269 (-574)
Rifugio Nacamuli 2828 m (non presente nella mappa utilizzata)
Cartografia: Arolla nr 283 S – Carta nazionale svizzera 1:50.000. Edizione 1993
Estremi indicativi Haute Route Chamonix-Zermatt: 5 gg, 70 km, 6000 metri di dislivello.
Se non un minuto, un istante
Prima di ascoltare la memoria di Tommaso, un momento di raccoglimento per le sette persone che hanno perso la vita.
Nulla, ma proprio nulla, dovrebbe farci sentire cosa diversa da loro. Nulla ma proprio nulla le nostre future scelte ci garantiranno ciò che avevamo sperato, ciò per le quali le avevamo volute.
Senza risposte
La trascrizione della presente intervista ha implementato i dati utilizzati per realizzare l’intervista stessa. Da questa accresciuta conoscenza della vicenda sono emerse nuove domande. Le si possono riconoscere in quanto hanno come risposta una breve riga di X: “XXXXXXXX”.
Naturalmente ho chiesto a Tommaso più volte di ultimare il lavoro, ma ha preferito non dare seguito alle mie richieste.
Restano così contraddizioni e aspetti sospesi o semplicemente, domande senza risposte.
Tommaso Pìccioli in un momento dell’intervista
Tommaso Pìccioli
– Come ti senti ora a qualche settimana dai quei momenti?
Mi sono preso un periodo di relax. Ho evitato di dedicarmi ad attività che potessero generare problemi impegnativi. Ho fatto un po’ di barca, un po’ di mountain bike. Mi sento come se mi mancassero dei supporti. Psicologicamente sento che mi mancano dei pezzi, non mi sento integro.
– Se qualcuno di chi è mancato fosse ancora con noi, non avvertiresti quella mancanza?
No, è altro. Anche se fosse andata diversamente, nel senso di meglio, ho assistito a una tragedia tale che… Ne conoscevo tre bene. Una di queste, la Betti, l’Elisabetta, era una delle mie migliori amiche. Solo lei è sufficiente a riempire il mio dramma. È morta sotto di me, mentre io non facevo niente. Ero impotente. Lo shock è determinato soprattutto dalla sua perdita, anche se gli altri sei fanno massa critica… era un campo di battaglia.
– Senti di non essere ancora fuori da quella memoria?
No. Certo che no. Anche lo psichiatra me l’ha detto. «Ci vuole tempo. Mesi e forse anni». Ora dovrò andare in psicoanalisi.
– Ne senti la necessità?
La psichiatra ha detto che devo. E io non mi tiro indietro.
– Puoi tratteggiare in poche parole la tua biografia essenziale?
Sono cresciuto a Rimini. I miei sono architetti. Avevano uno studio piuttosto grande. Ho studiato architettura al Politecnico di Milano. Ho lavorato molto all’estero, per grandi progetti. Poi ho conosciuto mia moglie australiana. Ho vissuto sette ani là. Ho sempre fatto viaggi d’avventura, molto spartani, anche abbastanza importanti. In moto ho fatto il giro del mondo attraverso quasi tutti i Paesi.
– Quanti anni hai?
49.
Che età avevi quando hai iniziato a frequentare la montagna alpinistica?
Nel 1990 mi sono iscritto alla Righini [scuola di scialpinismo del Cai Milano. Nda] e da allora ho sempre fatto sci alpinismo.
– Hai mai organizzato gite scialpinistiche per conto tuo, in autonomia?
Certo, sì.
– Sai leggere una mappa, distanze, pendenze, impluvi, dislivelli, tempi medi di percorrenza?
Sì. Lo faccio anche per la mountain bike. Sono spesso in giro in montagna.
– Sapresti tracciare su una mappa il tracciato che avete seguito e quello che vi avrebbe condotti al rifugio Nacamuli?
Quello che abbiamo seguito, certamente, l’ho visto una quantità di volte. Quello per il Nacamuli ci vuole una mappa con la traccia scialpinistica.
– Questa mappa – Arolla 283S – ha le tracce.
Ah, sono quelle rosse. Non mi ricordavo, mi sembravano blu. Sì, ricordo che la sera prima l’avevamo guardata la mappa.
– Avevi ingaggiato guide altre volte?
Un’altra volta sola e sono andato ancora più vicino alla morte. Era il 1992. Sul Kilimangiaro. Quasi in cima – mancava mezz’ora – mi era quasi venuto un edema cerebrale, non riuscivo a proseguire e la guida mi spronava a proseguire dicendo che passava.
– Che guida era?
Era un locale. Lì è obbligatorio salire con una guida. Era un ragazzino che sapeva poco. A un certo punto sono andato in percezione alterata, cantavo, avevo allucinazioni. Sintomi forti. Lui continuava a dire «andiamo su, andiamo su» come nulla fosse. Poi, in una lampo di lucidità che mi ha attraversato così, come una sciabolata, ho capito che stava mettendosi male e ho avuto la forza di prendere una decisione autonoma. Sono tornato indietro. Ho camminato per 13 ore, fino ai 2700, una quota considerata sicura per quel tipo di problema. E lì mi sono ripreso. Ma poi sono seguiti sei mesi in cui mi svegliavo la notte, allucinazioni. È stata dura anche allora.
La cabane des Dix 2928 m. In arancio, la traccia per la salita a la Serpentine. Sullo sfondo la Pigne d’Arolla 3772 m. Dietro la cabane, la cuspide di 3307 m delle Pointes de Tsena Réfien, il cui punto più elevato raggiunge i 3500 m.
– Secondo il programma originario dove si doveva concludere la vostra haute route? E quando?
Saremmo dovuti arrivare a Zermatt. Dopo la cabane des Vignettes, se ci fossimo arrivati, avremmo avuto ancora due giorni.
– Riconosci in questa immagine il vostro gruppo? (Vedi foto del gruppo più in alto.)
Eh sì. Proprio la prima a sinistra è la Betti. Poi Kalina, la moglie di Mario. Quindi Julia, Andrea, Marcello, Gabriella, Luciano, io e Francesca. Mario naturalmente ha scattato la foto.
– Avevi già avuto a che fare con una bufera simile a quella di quel giorno?
No.
Prima
– In che data siete partiti e da dove?
Da Chamonix il 26 aprile.
– Che tappe avevate fatto?
Bisogna che guardi una cartina. Comunque in pullmino fino all’Argentiere; poi… non mi ricordo. Siamo passati da Verbier, che c’era un tratto in auto.
La cabane des Vignettes 3194 m. Sarebbe stata la destinazione del gruppo se la bufera non si fosse mezza in mezzo.
– Il gruppo da quante persone era composto?
Da Mario, più 9 persone.
– I compagni del gruppo conoscevano già Mario?
Quasi tutti direi. Tranne noi, cioè l’Elisabetta, Marcello, Gabriella e me. La Betti aveva trovato Mario su internet.
– Perciò non conoscevi Mario prima di unirti al gruppo per la Chamonix-Zermatt?
Esatto, non avevo avuto modo di conoscerlo, neppure di fama.
– Come aveva stimato la tua preparazione e/o la tua esperienza?
Non l’aveva stimata.
– Come gli hai formulato la tua preparazione? O non c’è stata occasione?
Non c’è stata. Ci sono stati due momenti di valutazione. Prima di partire, in albergo a Chamonix, ci ha chiesto di mostrargli tutto il materiale che avremmo portato. Il mio andava bene, ma penso anche quello degli altri. Poi, dopo la prima discesa, dopo aver fatto questa foto di gruppo, ci ha detto che aveva visto che eravamo tutti bravi sciatori. Nient’altro.
– Successivamente ci sono stati motivi di perplessità o di elogio nei confronti della conduzione tecnica e non di Mario?
Emm… mah… no, direi di no. L’unica cosa che ho notato – tieni conto che a me piace andare in moto, in barca, in mountain bike – io ho sempre un po’ paura, soprattutto quando la cosa è impegnativa, come la stessa haute route. La cosa che mi inquietava un po’ era che nessuno del gruppo chiedesse niente del percorso. Mario non ci diceva nulla, ma neanche nessuno domandava. Io ero l’unico che ogni tanto chiedeva «mah, domani cosa ci aspetta?» E cose così, qualche informazione su quanto avremmo fatto. Tant’è che forse nel terzo giorno, qualcuno di noi mi ha detto, «ma dai, ma perché chiedi sempre?» Ma ha risposto Mario: «Lui ha pagato, quindi giustamente vuole sapere». Comunque, non è che dicesse molto. Mi dava l’impressione che non ne sapesse granché. Comunque è solo un’impressione.
– La sera prima, l’ipotesi di restare alla cabane des Dix in attesa di condimeteo favorevoli, è stata presa in considerazione?
Allora… a un certo punto… non ricordo se proposto da lui o da me, forse da me… Parlando con un ragazzo francese avevo visto che sarebbe volto al brutto e con il föhn. Allora con Mario abbiamo detto che avremmo fatto una salita e che, al cambio di tempo avremmo tolto le pelli, per rientrare alla cabane des Dix. La sera prima l’idea era un po’ quella.
Tommaso durante una intervista ad una testata svizzera.
– C’era qualcuno di voi che premeva per proseguire?
No. Nessuno diceva niente. Come delle pecore. Questa è una cosa che non mi spiego.
– Ricordi come è stato verificato il meteo la sera prima?
Ricordo benissimo. Nel rifugio [cabane des Dix. Nda] non c’è il wi-fi. Ma dove si mangia, c’è un Ipad a disposizione fisso su una pagina meteo. Sono andato a verificare. Dava brutto già da mezzogiorno dell’indomani e per tutto il giorno successivo. Parlando, ho chiesto a quel ragazzo francese cosa avrebbero fatto. Mi ha detto che forse avrebbero rinunciato perché sarebbe stato brutto. In particolare temeva l’ingresso del föhn. Al che, sono tornato al nostro tavolo e ho proprio detto «bad news». Mario disse che avrebbe visto poi che decisione prendere. E anche in quell’occasione, nessuno che abbia avuto da dire qualcosa. Ridevano, erano contenti così.
– La mattina, quali argomenti hanno prevalso per poi prendere la decisione di proseguire?
Nessun argomento, nessuna discussione. Ci siamo avviati e basta. Ricordo che la sola cosa è rimasta quello scambio con Mario dove lui ha concluso con un “poi vediamo”. Ma ci sono cose che non ricordo bene. Forse quello scambio è avvenuto la mattina della partenza. Comunque è avvenuto, di questo ne sono certo.
Tommaso racconta la sua memoria.
– Mario vi informava giorno per giorno sulle caratteristiche della giornata successiva?
No. È per quello che io domandavo, perché da parte sua non arrivavano spunti in quel senso.
– Vi trovavate bene tra voi, come gruppo?
Sì.
– Sai se è stato preparato uno schizzo di rotta della gita?
Di quel giorno lì?
–Sì.
Io non lo so ma penserei di no. C’era il programma: in caso di tempo favorevole, salire la Pigne d’Arolla; in caso di brutto avremmo svalicato sulla sella appena sottostante [tra quota 3796 e 3772. Nda] per poi proseguire per le Vignettes.
Il fatto è che sono sicuro che lui le caratteristiche di questa gita non le conoscesse. E poi nonostante fosse tutto ghiacciaio, eravamo slegati. Ho parlato con degli istruttori del Cai di Bolzano. Tutti loro hanno fatto quella gita nel nostro stesso senso, con tempo buono. Sulla Serpentine erano tutti legati, ho visto le foto.
Tommaso Piccioli, intervistato dopo essersi ripreso dall’esperienza della notte del 29 aprile 2018.
– Non hai pensato conoscesse così bene quel ghiacciaio da considerare la corda solo un impiccio?
XXXXXXXXX
– Sai che, in particolare con gli sci, spesso si sceglie di restare slegati, anche in salita, su un ghiacciaio non particolarmente crepacciato?
Certo… lo so. Tuttavia non è questo il punto. È che poco prima della cabane des Vignettes c’è un passaggio obbligatorio, sul quale devi assolutamente passare – facile ma dove non puoi sbagliare. Lo so perché me lo hanno detto gli istruttori di Bolzano.
– Intendi il punto in cui si attraversano le rocce?
XXXXXXXXX
– Sai dove si trova questo passaggio?
Esattamente non lo so perché non ci siamo mai passati. Dovrebbe essere non lontano da dove poi ci siamo fermati per la notte.
– Nelle tappe precedenti, cosa aveva usato Mario per seguire la via?
Aveva delle mappe gps sul cellulare che consultava ogni tanto… Però guardava le carte tradizionali e mi pareva andasse un po’ a vista. L’impressione era che conoscesse le tappe precedenti ma non quella di quel giorno.
– Ti riferisci a tutta la tappa o dalla bufera in avanti? Penso che con quelle condizioni, di visibilità pressoché nulla e quella forza del vento, chiunque avrebbe incontrato difficoltà a procedere linearmente.
XXXXXXXXX
L’area della tappa del 29 aprile. Nei cerchi, in alto, la cabane des Dix, in centro-destra, la cabane des Vignettes, in basso-destra, il bivacco Collon, a pochi metri dal quale si trova il rifugio Nacamuli. Questo non è presente in questa mappa del 1993.
Durante
– A che ora siete partiti dalla cabane des Dix?
Alle sei, credo.
– Era buio o albeggiava?
XXXXXXXXX
– Tutti i gruppi sono partiti dalla cabane des Dix o qualcuno ha preferito temporeggiare?
Non lo so. Anche se la cabane des Dix era piena.
– Ti risulta che Daniel Egg, gestore della cabane des Dix, abbia dichiarato che diverse delle circa 60 persone che avevano pernottato al rifugio, inizialmente dirette alla cabane des Vignettes, abbiano rinunciato alla gita a causa delle previsioni in peggioramento?
No.
– Qualcuno del vostro gruppo sembrava meno equipaggiato del dovuto?
No. Però una cosa mi ha colpito. In tante gite che ho fatto con compagni più o meno milanesi, ho sempre notato che almeno una o due persone avevano un ricevitore gps. Ugualmente per le gite con amici del Cai di Bolzano, dove mi reco spesso. Mentre questa volta nessuno, a parte me, ce l’aveva. Mi sembra strano perché per certe attività in montagna lo devi avere.
– Da non dimenticare che se il gps va in avaria le cose cambiano.
Certo bisogna avere anche le mappe, la bussola e l’altimetro, ma il gps è infinitamente più sicuro.
– A che ora e dov’eravate quando è cambiato il tempo?
Penso sia cambiato verso le dieci. Fai conto che avevo un Suunto di quelli buoni… e per il freddo ha smesso di funzionare. E so che la batteria era buona. Dunque non potevo vedere che ora fosse. Penso fossimo in questa conca [indica la zona del Col du Brenay, 3639 m. Nda], che è poi dove i francesi ci hanno raggiunto e si sono uniti a noi. Erano in quattro. E pure loro non avevano il gps. Continuavano a maneggiare le mappe, che gli volavano via. Lì, hanno visto che avevamo il gps e si sono aggregati.
Nel cerchio il presunto luogo del bivacco forzato. Si intravede il cavo citato da Tommaso, che corre dal cerchio, al vertice del triangolo roccioso più grande, sulla destra dell’immagine. O che attraversa il pendio, sotto gli affioramenti di ghiaccio, in direzione della cabane des Vignettes, che è fuori inquadratura sulla destra.
– Da quante persone era composto?
Pensavo quattro, non ero sicurissimo. Poi ho sentito che si sono salvati tutti e che erano effettivamente in quattro.
– Sai i loro nomi?
No.
– Lì eravate a circa quattro ore dopo la partenza?
Quattro, cinque… difficile stimare.
– Il tempo è cambiato velocemente e ha dato l’idea della violenza?
Inizialmente era solo whiteout, senza vento. Tutto bianco, non si vedeva niente. Visibilità un metro e mezzo.
– Qualcuno aveva nausea, o è caduto pensando di essere fermo o altri disorientamenti da whiteout?
XXXXXXXXX
– Quanto è durata la fase di whiteout senza vento?
Un bel po’. Almeno fino alle cinque del pomeriggio. Poi sono iniziate raffiche che ad ognuna cadevamo tutti. Cioè io non cadevo sempre e anche altri due o tre. In ogni raffica ci si arrestava, ci si puntava sui bastoni, ci si abbassava per ridurre la vela del corpo e spesso non bastava. Il vento ci ribaltava. Le donne e quelli più leggeri il vento li sbatteva giù subito.
– Da che direzione vi colpiva?
Da sud. Anche se poi ho sentito che era föhn. Ma il föhn non viene da nord?
– Per chi sta a sud delle Alpi sì. Ma il favonio non è un vento, è una caratteristica del vento. Ovvero quando perde il suo carico di umidità colpendo la barriera delle montagne e proseguendo più secco, più caldo e più veloce sul versante sottovento.
Comunque ho valutato quelle raffiche a 40, 50 nodi, 70, 100 chilometri all’ora. Se non di più. Raffiche così violente non le avevo mai incontrate.
– Utilizzare carta e bussola, anche con un eventuale schizzo di rotta precedentemente tracciato in quelle condizioni è impossibile. Qualcuno disponeva di gps? Il segnale era buono?
Gps valido significa resistente agli urti, waterproof e con le batterie a esaurimento nuove, non quelle ricaricabili. Come detto ero il solo ad averlo. E come detto, carta e bussola erano inutilizzabili in quella bufera, sia perché volano via, sia perché non puoi concentrarti. Pensa che anche solo utilizzare il gps è stato molto impegnativo per me. Inizialmente lo mettevo in tasca, poi non ci sono più riuscito. Il freddo, il ghiaccio, la vista, moltiplicavano l’impaccio fino a rendere tutto impegnativo. Così, l’ho sempre tenuto in mano tutto il tempo.
Nella zona rocciosa a sud della traccia puntinata si trova il presunto luogo del bivacco.
– Nel periodo di whiteout il gruppo era raccolto?
Sì, il gruppo è stato sempre raccolto. Funzionava così: lui [Mario. Nda] trascinava una corda e noi dovevamo seguirla. Poi quando è stato necessario usare il mio gps, gli camminavo a fianco. Pensa te che situazione… guarda come eravamo: io non vedevo niente. Avevo il vetro della maschera completamente ricoperto di ghiaccio, perché un po’ di vento c’era. E non si poteva pulire. Guardavo il gps aprendo un po’ la maschera in basso, sugli zigomi. La Betti, che invece aveva il vetro sano, mi diceva dove andare, mi diceva se c’era un crepaccio o altro. Io non vedevo dove andavo. Vedevo solo il gps. Perciò, la Betti al mio fianco, io in mezzo e Mario all’altro lato. Avanzavamo in tre, paralleli, con Mario che trascinava la corda e gli altri che la seguivano. Non si vedeva niente.
– Prima del sopraggiungere del whiteout avete visto altri gruppi salire verso la Serpentine o la Pigne d’Arolla?
XXXXXXXXX
– Nella zona de La Serpentine avete percorso qualche passaggio più impegnativo, ripido, ghiacciato?
XXXXXXXXX
– Quando è cambiato il tempo, non avete mai pensato di rientrare alla cabane des Dix? Ne avete parlato?
Guarda, queste sono le cose che veramente mi inquietano e mi inquietavano in quei momenti. Non abbiamo detto nulla. Nessuno ha aperto bocca, compreso me, nonostante la sera prima avessi considerato quell’opzione, cioè di tornare indietro in caso di peggioramento. Poi quand’ero lì… buio totale. Neppure mi è venuto in mente. Ora penso che avrei dovuto impuntarmi e pretendere di tornare indietro. Non si poteva proseguire. Avevamo il gps, potevamo tornare.
– Quando siete stati informati del cambio di programma, ovvero di raggiungere la cabane des Vignettes invece del rifugio Nacamuli?
Già la sera prima si era deciso il cambio di programma, ovvero di lasciar perdere il Nacamuli e andare alla Vignettes.
Tra la zona evidenziata in verde e le rocce sottostanti si troverebbe il luogo del bivacco forzato. Seguendo la traccia continua rossa verso valle, si aggirano le rocce per poi raggungere la cabane des Vignettes. La zona crepacciata, citata da Tommaso, quella raggiunta seguendo i francesi, potrebbe essere quella compresa tra la traccia 398 e le rocce del contrafforte a sud della capanna.
– Raggiungere il rifugio italiano richiede circa 8/10 ore di attività. Dipende anche dalle condizioni e dalle soste. Il gruppo era perciò ben allenato se dopo le tappe precedenti mettevate in conto una giornata piuttosto lunga?
Posso dire che non sapevo sarebbe stata una giornata così lunga. Penso che almeno due, tre persone non ce l’avrebbero fatta. Garantito. La Gabriella e la Betti non ce l’avrebbero fatta.
– La stima della temperatura e delle raffiche secondo quanto si è letto aveva spettri piuttosto ampi: da -20 a -5 per la temperatura; da 100 a 79 chilometri/ora per il vento. Hai un’idea più attendibile e come l’hai raggiunta?
Sì. Direi -5 gradi, che diventavano -20 percepiti con quel vento.
– Avete proseguito di buon grado fino a che punto? O ci sono state contestazioni o altri episodi di nervosismo, paura, tensione durante la giornata?
Nulla di quanto dici. Abbiamo proseguito e basta.
– Qualcuno del gruppo aveva premuto per continuare? C’è mai stata discussione se procedere o rientrare alla cabane des Dix?
Le sole discussioni sono state tra Mario e i francesi. Ma io non li ho visti. Lo so perché me lo ha detto poi il francese.
– Nel senso che un francese proponeva di rientrare verso la cabane des Dix?
No, non di rientrare. Ormai eravamo quasi arrivati. Queste discussioni sono avvenute dopo, verso sera, quando eravamo più o meno in fondo al versante sud-est della Pigne d’Arolla. Erano relative alle scelte delle direzioni per la cabane des Vignettes. È andata così. Inizialmente abbiamo lasciato la Pigne d’Arolla alle spalle per scendere, aggirare degli affioramenti e cercare la via per la cabane. Guidava il francese. A causa di una zona rocciosa che ci impediva di avanzare in direzione della cabane, il francese ha pensato di proseguire a scendere, penso per aggirare le rocce stesse. Ci siamo trovati grossomodo sui pendii a nord del col de Chermotane [3050 m. Nda]. Ma poi stavamo andando verso una zona crepacciata. A quel punto Mario ha ripreso il comando. Così abbiamo iniziato a risalire più o meno da dove eravamo arrivati. Abbiamo superato un tratto molto ripido. Ho avuto paura. Le ragazze erano devastate. Finché Mario non ha detto «ho visto gli ometti, ho visto gli ometti». E infatti li aveva individuati e siamo andati verso di loro. Era già quasi buio. [Secondo le coordinate della cabane des Vignettes fornite da rifugi-bivacchi.com e secondo il sito sunearthtools.com per quel giorno, il 29 aprile 2018, l’alba avveniva alle h05:20’ e il tramonto alle h19:35’. Nda]. Considera che con l’orologio stavo tracciando, solo che al momento ce l’ha la polizia [del canton Vallese. Nda] che ha svolto le indagini.
Nel cerchio si scorgono due sagome emergenti. Sono gli ometti che indicano il luogo del bivacco. Una terza massa più tozza, a sinistra dell’ometto di sinistra potrebbe essere il masso a ridosso del quale il gruppo ha cercato riparo. Se questa immagine raccontasse attendibilmente il posto dove il gruppo è giunto la sera del 29 aprile, si vede chiaramente la possibilità di crearsi una truna, manto nevoso e/o superficie ghiacciata permettendo.
– Ma il tuo orologio non era in avaria?
XXXXXXXXX
Che visibilità c’era in quei momenti? Voglio dire, a che distanza si è potuto scorgere gli ometti?
XXXXXXXXX
– Tutto questo saliscendi quanto può essere durato? L’avete fatto con gli sci ai piedi… metti-togli le pelli?
Non saprei forse due, tre ore. Nooo, con i ramponi. Ci siamo mossi con i ramponi da quando abbiamo superato la sella appena sotto la vetta della Pigne d’Arolla. Praticamente quando ci sarebbe stato da togliersi le pelli, abbiamo calzato i ramponi. Comunque agli ometti abbiamo passato la notte.
Tommaso indica sulla mappa una zona rocciosa dalla quale, a giudicare dal disegno della carta stessa, pare improbabile si possa vedere il rifugio. Traslando però più a nord-est la traccia da lui disegnata durante l’intervista, si finirebbe proprio in corrispondenza dell’affioramento roccioso dal quale effettivamente si può dedurre di essere a vista con la cabane des Vignettes. Glielo faccio notare.
Eh sì, potrebbe essere dove dici tu. Bisogna vedere cosa dice la polizia. Il mio orologio ce l’hanno ancora loro. E gli ho lasciato anche il gps. Mi hanno detto che me lo restituiscono questa settimana [Ultima settimana di giugno 2018. Nda]. Però non so se mi rimandano anche la traccia.
La zona entro e intorno al cerchio dovrebbe essere quella del bivacco. La prospettiva è relativa a una ripresa dalla cabane des Vignettes.
E poi, se un centimetro sulla carta corrisponde a 500 metri sul terreno, il punto dovrebbe essere quello in cima al tratto tratteggiato a nord dell’affioramento a monte del quale c’erano gli ometti.
Allora è come dici tu. Perché il rifugio era vicino, certo non distante più di 500 metri in linea d’aria.
– Per completare e verificare questi aspetti, aggiungeremo le memorie dell’orologio una volta che ne sarai rientrato in possesso.
Ok, certamente.
Tornando un momento ai ramponi: calzarli dove si sarebbe potuto iniziare a sciare, mi fa pensare ad una scelta in funzione della sicurezza. Camminando potevate stare più compatti e ridurre così il rischio di perdervi di vista. Inoltre forse Mario aveva previsto l’eventualità di un saliscendi a caccia del passaggio per la capanna.
Può essere. Tuttavia non eravamo legati.
Il fatto che non foste legati, potrebbe invece indurre a pensare che Mario conoscesse bene quel terreno. Così pure considerare accettabile da parte sua una marcia a gruppo serrato, nonostante ciò comportasse una pressione maggiore su eventuali ponti di neve. E poi sareste stati più agili senza l’impaccio della corda. Che ne pensi?
XXXXXXXXX
– Mario vi incitava?
Mario non ha quasi mai parlato. Certamente era stanco e mi sembrava avesse paura. Era teso. Ogni volta che qualcuno pestava la corda se la prendeva molto.
Al centro dell’immagine si distinguono le sagome del masso utilizzato per proteggersi dalla bufera e quella di un’ometto. Nell’angolo in basso a destra si scorge più marcato il filo nero della presunta tubatura di rifornimento d’acqua della cabane des Vignettes.
– Quando vi è stato chiaro che non avreste raggiunto la cabane des Vignettes? A che ora? In quel momento avevate una stima di quanto mancasse in tempo al rifugio?
Forse le otto di sera o poco prima. Erano le ultime luci. Il fatto è che nel gps si vedeva chiaramente la cabane molto vicina. Era la sola cosa che avevamo. A quel punto Mario ha detto «facciamo campo qui». Kalina, sua moglie ha protestato: «qui non si può scavare una buca, vado da un’altra parte». Ed effettivamente si è allontanata da noi.
– In che condizioni ti sembravano i tuoi compagni e Mario? In quali eri tu quando vi siete fermati?
Io stavo bene. Ma anche gli altri. Solo la Gabriella si vedeva che era provata. E un pochino la Betti. Infatti quando ho capito che avremmo passato la notte fuori, ho pensato che la Gabri avrebbe avuto dei problemi. Non pensavo certo saremmo morti quasi tutti.
– Non avete mai valutato di fermarvi prima? Forse Mario ha ritenuto che il rischio minore era tentare di raggiungere il rifugio?
Non si è mai parlato di fermarsi per bivaccare. Mario puntava al rifugio.
– Come si è svolto il momento in cui vi siete fermati consapevoli di passare la notte là?
Mario ha detto facciamo un buco, ma in quel punto non si poteva. Tutto roccia. Sotto poca neve era subito roccia. Ci ho provato con la piccozza.
– Che condizioni meteo c’erano?
Vento forte da ore e ha continuato tutta la notte. Visibilità praticamente zero.
– Avevate e avete provato a chiamare soccorso? Perché non siete riusciti?
Perché il satellitare di Mario non funzionava.
– Si accendeva e non prendeva il satellite o neppure si avviava?
Penso avesse le batterie bruciate dal freddo. Non si accendeva neppure.
– Nessun telefono per provare a chiamare qualcuno?
I telefoni erano tutti congelati. E poi a mio parere Mario avrebbe dovuto già provarci alle 14:00. Ci ha provato alle 20:00 anche sulle incitazioni piuttosto veementi di Marcello. A sua volta mosso e scosso dalla situazione psico-fisica di Gabriella. Era esausta, piangeva. Già in quei momenti, dentro di me, dicevo che non ce l’avrebbe fatta.
Questa foto è un ingrandimento della precedente.
– Non pensi che dire così, sia un facile senno di poi, sospinto dalla tragedia che hai vissuto?
XXXXXXXXX
– In che modo Marcello lo incitava visto che il satellitare non funzionava?
«Devi far qualcosa». «Fai qualcosa». Così gli urlava.
– Quando è stato chiaro che avreste dovuto bivaccare all’addiaccio?
Praticamente quando siamo arrivati agli ometti. Era quasi buio, non si vedeva niente, il vento era fortissimo, le persone non riuscivano quasi più a muoversi dalla stanchezza, i telefoni erano fuori uso, nessuno sarebbe potuto venire a prenderci in quei momenti.
– Il luogo del bivacco è stato scelto per qualche ragione tecnica e/o di sicurezza o è semplicemente il punto in cui è sopraggiunto l’imbrunire o perché eravate spossati da non poter più proseguire?
Più che scelto, siamo arrivati lì quando era ormai buio e al momento non abbiamo saputo che restarci. A suo modo è inspiegabile, se non per la spossatezza generale e il tramonto. Tecnicamente non era un buon punto per fermarsi. Non si poteva fare la truna. Era una specie di dosso, quindi più ventoso di altre forme. E come al solito nessuno di noi ha detto niente. Nessuno che abbia pensato o detto di cercare un luogo più idoneo.
– Tu cosa hai fatto?
Con Andrea ci siamo messi a scavare alla base di un grosso masso per organizzare una specie di truna, che poi truna non era. Era un riparo naturale un po’ migliorato per così dire. L’abbiamo scavato con la picca, non con la pala. Così ci siamo messi tutti addossati là dentro in quella specie di concavità che avevamo ricavato. Purtroppo Mario era inerte. Aveva uno sguardo diciamo sonnolente. Mi sono rivolto a lui, non arrabbiato, tranquillamente. Gli ho detto che avrebbe dovuto fare qualcosa per cercare sua moglie, capire cosa stesse facendo. Mi sembrava importante per lui e per noi. Perché se Kalina avesse trovato un posto migliore, avremmo potuto spostarci. Avremmo tirato fuori le pale per scavare una buca per tutti. Io e Andrea avevamo ancora le forze per farlo. Praticamente ho provato a rimetterlo in moto. Sai cosa mi risposto? «Io non posso perché non vedo più niente». Purtroppo aveva perso la maschera, o gli si era congelata. Di fatto non l’aveva indossata. Il vento, la tempesta di cristalli di ghiaccio, la luce del whiteout lo avevano accecato. Poi si è allontanato, nel buio assoluto, penso convinto di poter raggiungere il rifugio, in cerca di aiuto.
Verde: possibile area del bivacco; rosso si intravedono tre sagome di alpinisti nei pressi del passaggio che il gruppo ha invano cercato la sera del 29 aprile.
– Perché non avete usato la pala?
XXXXXXXXX
– Da lontano, leggendo le cronache della vicenda, sapendo che eravate su terreno glaciale, è sembrato particolare che non abbiate scavato un buco per proteggervi. Puoi raccontare qualcosa su questo aspetto per aiutarmi a capire per esempio perché non vi siete allontanati in cerca di un terreno idoneo a una truna o verso un crepaccio? Avete pensato di scavarne una? O di calarvi in un crepaccio? Qualcuno ci ha provato? I francesi ci hanno provato?
Guarda… per quel che mi ricordo c’era terreno adatto per scavare una truna, tutto intorno a dove ci siamo fermati e dove siamo rimasti. Avremmo potuto allontanarci di soli dieci metri e avremmo scavato una truna. Eppure nessuno di noi, neppure Mario, ha detto, o è andato là a scavare una truna.
– E i francesi?
Loro l’hanno scavata sì. Sono risaliti un po’ e si sono scavati la truna.
– A che distanza da voi?
Non lo so. Mi hanno detto 70 metri, ma non li ho visti.
– Chi ti ha informato di questo particolare? Il soccorso, la polizia, il procuratore che cura le indagini?
Non lo so. Non me lo ricordo. Forse da Caterina, la sorella di Betti – che non era con noi quel giorno – che ha avuto uno scambio di mail con il pubblico ministero.
Ingrandimento dell’immagine precedente. Entro il cerchio arancio, si distinguono meglio le sagome dei tre alpinisti presumibilmente diretti alla cabane des Vignettes, in alto a destra.
– I francesi sono arrivati sul posto insieme a voi?
XXXXXXXXX
– Ripensando ai tuoi compagni uno ad uno, cosa dicevate, cosa vi siete detti?
Dapprima ci siamo… diciamo sdraiati tutti insieme in quel buco che avevamo ricavato alla base del sassone. Dei teli termici sono volati via. Io e penso altri, neppure l’abbiamo tirato fuori. Eravamo uno sull’altro. Ma si stava scomodi e non serviva a niente perché con quel vento nessun calore che producevamo poteva essere trattenuto. La prima fase si è così. Nella seconda mi sono alzato in piedi e mi muovevo, dondolavo avanti-indietro. Gli altri erano rimasti seduti. Poi mi sono seduto anch’io. Ho notato che ero il solo ad avere il casco. Naturalmente sotto avevo un cappello windstopper. Forse mi sono salvato anche per quello. La protezione che crea è considerevole. Praticamente il vento ti colpisce dopo essere stato rotto dal casco. Smista l’impatto. La berretta è calda quando non c’è vento, ma con l’aria la dispersione del calore prodotto è massima. Infatti alla testa non ho avuto freddo. Poi avevo dei guanti buonissimi… cioè non sapevo fossero buoni, ma ora lo so. Anche se un po’ di postumi da congelamento alle dita li sento ancora.
– Ma in piedi eri più esposto al vento? Anche per capire la conformazione del vostro ricovero.
Sì.
– Avete passato la notte tutti vicini in quel sommario ricovero scavato da Andrea e te?
Come dicevo, inizialmente stavo in piedi e avevo la Betti sotto di me che, non so perché, continuava a mettersi con la faccia in giù. Io la giravo e lei si rigirava. È successo più volte. Le urlavo che non doveva addormentarsi. «Non devi addormentarti, non addormentarti. Muoviti. Muoviti». Lei era allo stremo. «Non ce la faccio. Non ce la faccio». Non diceva altro.
Ancora il presunto luogo di bivacco, eventualmente possibile anche poco più in basso del punto arancio, dove il ghiacciaio del disegno, quasi separa l’affioramento roccioso in due parti.
– Vi parlavate, vi sentivate?
Eravamo tutti vicini. Non dicevamo niente. Poi mi sono messo seduto cercando però sempre di dondolare avanti e indietro. Lo scopo era di far lavorare il cuore, affinché pompasse sangue verso gli organi vitali. Per gran parte della notte ho avuto vicino la Francesca. Ci abbracciavamo. Ci frizionavamo le mani. Poi – forse ho avuto dei momenti di sonno – mi sono trovato di fianco la Julia. E la Francesca era sdraiata, poco lontano davanti a me a faccia in su. Era grigia poverina.
– Ma nel buio come distinguevi tutti questi particolari?
XXXXXXXXX
– Riuscivate ad aprire lo zaino; avete potuto bere e mangiare qualcosa di caldo; tutti avevano il thermos?
No. Assolutamente. Troppo vento. Niente. Io non ho bevuto e mangiato niente e credo anche gli altri.
– Per la spossatezza o per la difficoltà imposta dal vento e dal gelo?
Sì, per la spossatezza e per la difficoltà.
– Quante corde aveva il gruppo?
Una.
– Quella di Mario?
Sì.
– Tutti avevano l’imbragatura indossata?
Sì.
Avevate viti da ghiaccio, spezzoni e altro materiale da ghiacciaio e di autosoccorso? Per recuperare da un crepaccio o per calarcisi?
No. Soltanto Mario. Il primo giorno della traversata ci aveva fatto fare delle calate in doppia, come esercitazione e verifica. Avevamo l’imbrago, la longe e due, tre moschettoni.
In questa immagine, tratta da un video trovato su youtube, si riconoscono il masso e due ometti. Segnavia e bivio di due possibili avvicinamenti alla cabane des Vignettes. A sinistra, est, seguendo il più ripido pendio, che in breve conduce a destinazione e, a destra, rimanendo sul versante sud-orientale de la Pigne d’Arolla. Dove Mario ha cercato di trovare il passaggio per raggiungere il rifugio.
– Nessuna vite?
Nessuna.
– Avete pensato di attrezzare un punto di calata per entrare in un crepaccio?
No.
– Stavate affrontando la notte all’addiaccio, avevate consapevolezza che c’era il rischio di morte?
Io, a un certo punto, sì. A un certo punto ho detto, qui qualcuno ci rimane… sicuramente la Gabriella.
– Avevate consapevolezza che la protezione di una truna avrebbe migliorato moltissimo la situazione?
Io lo sapevo, gli altri non lo so. Anche in quelle condizioni, dentro un buco, si potrebbero raggiungere i 3, 4 gradi, poi ti copri col telo… Meglio che star fuori.
– Tutti avevate la pala?
Sì.
– Il telo termico?
Penso di sì. Ne ho visti in qualche momento.
– Altri vestiti?
No. Avevamo già indossato tutto quello che avevamo.
– La dote che ti ha lasciato questa esperienza, quali accorgimenti ti farà adottare in futuro?
Controllare il meteo. Oggi, rispetto ad anni fa, evitare il tempo brutto è facilissimo… e quindi perché andarci incontro?
– La massima forza della bufera quanto è durata? Quando vi siete fermati era già attiva da tempo?
Eh sì. C’è stato anche un temporale. È andata avanti fino all’alba. Tutta la notte, senza tregua. Poi una cosa terrificante. Sapevamo… o per lo meno, io sapevo, ma penso anche gli altri, che il tempo brutto sarebbe durato anche tutto il giorno successivo. Cosa che non si è verificata, per fortuna.
Ripresa di una schermata della mappa on line dell’Ufficio federale di topografia, map.geo.admin.ch. Rispetto alla mappa utilizzata, edita nel 1993, vi si trova più d’una differenza, tanto nelle quote, seppur di poco, quanto nel disegno, anch’esse marginali.
– Come vedi anche oggigiorno le previsioni è meglio intenderle come tendenza in termini di calcolo delle probabilità, piuttosto che come dato attendibile.
Sì, è così. Comunque, stavo dicendo che, quando eri lì che aspettavi nella bufera, dovevi calcolare che sarebbe andata avanti in quel modo anche tutto il giorno dopo. Dentro di me dicevo «va beh, forse ce la faccio ad arrivare a domattina, ma poi?» Davo per scontato che a un certo punto avrei ceduto. Invece poi il tempo è cambiato.
– C’era qualche forma di solidarietà tra voi o ognuno era costretto a pensare alla propria sopravvivenza?
Marcello continuava a ripetere il nome di sua moglie «Gabri… Gabri… Gabri». Io urlavo all’Elisabetta. A parte questo non ricordo altro.
– Come descrivere la notte? Cosa vedevi e capivi dei tuoi compagni?
XXXXXXXXX
– A quali pensieri ti sei agganciato dall’inizio della notte?
I pensieri erano pochi. Devi concentrarti sui movimenti per mantenere un po’ di temperatura corporea e per evitare di fare cazzate. Le due più grandi che si possono fare, alle quali ho pensato con interesse due o tre volte, e per fortuna non le ho fatte, erano: sdraiarsi per terra e andare a cercare aiuto da solo. Per fortuna Dio mi ha salvato da queste due cose qui. Devo dire che ero abbastanza lucido, ma anche con un principio di percezione alterata. Avevo una canzone in mente in modo ossessivo, la vivevo come la presenza della morte. Era la morte che si avvicinava. Era una canzone di Chico Buarque, di carnevale. Una cosa allucinante. Mi sembrava una specie di sabba che mi annunciava la morte. Poi dopo arrivavano i pensieri di mia moglie, di mia mamma, dei miei affetti. Allora dicevo alla morte «Basta! Vai via. Vai via. Io devo vivere per loro». E andava via. La canzone rimaneva, però mi sentivo forte. Sentivo di poter resistere. Intanto non smettevo di muovermi.
Ultimi metri per la cabane des Vignettes. Alla sua destra il Bouquetin, 3838 m. Più a destra ancora il mont Collon 3637 m. Sopra la testa dello sciatore, sospeso, si intravede il tubo che alimenta d’acqua il rifugio. Lo stesso che Tommaso dice d’avere visto sotto il “precipizio” in cima al quale il gruppo ha bivaccato.
– Hai figli?
No.
– Avevi paura fino al terrore o eri concentrato per sentire come sopravvivere. Non hai mai finora parlato della sofferenza per il freddo?
XXXXXXXXX
– C’è qualche aspetto della tua educazione che ti ha comportato la consapevolezza che siamo noi a restringere e allargare i nostri limiti?
Probabilmente sì, anche se adesso non saprei dire cosa. Come ti dicevo, ho fatto molti viaggi in condizioni dure. Per esempio quei ragazzi di Bolzano [Marcello e Gabriella. Nda] so che non avevano mai fatto niente del genere. In passato, mi sono trovato nei casini diverse volte. Quindi un po’ di esperienza, probabilmente quei precedenti me l’hanno fatta.
– Se i due rifugi, Vignettes e Nacamuli, avessero allertato i soccorsi, a tuo parere sarebbero potuti intervenire nella notte? Li cito entrambi perché in uno o nell’altro avrebbe dovuto esserci una prenotazione. Non vedendovi arrivare, con quel tempo, certamente li avrebbero allertati.
So che aveva disdetto il Nacamuli ma non aveva prenotato alla Vignettes. Lo so dalla polizia. Questa è una cosa agghiacciante. La Vignettes non sapeva che noi saremmo dovuti arrivare.
– A tuo parere, con quel meteo, sarebbero potuti arrivare nella notte?
Degli istruttori del Cai Bolzano, con i quali ho parlato di questo aspetto, hanno detto che siccome lo devono fare, l’avrebbero fatto. Le condizioni erano più che proibitive, però qualcuno dalla Vignettes sarebbe venuto, se non altro, a indicarci la strada. Eravamo vicini. Veramente… dalla Vignettes eravamo vicini. Dalla capanna, venendo verso noi, c’era da percorrere una leggera pendenza facile, quindi, superato il passaggio roccioso… sarebbe bastato poco. Noi eravamo là, in cima a quelle rocce. Un elicottero certo non poteva volare né fare niente, ma anche solo dei volontari dal rifugio avrebbero potuto salvarci.
Marcello Alberti e Gabriella Bernardi, di Bolzano.
– Ma come avrebbero potuto conoscere la vs posizione, la vostra distanza? Nessun vostro telefono era operativo. E poi, dalla cabane, superato il passaggio di roccia, che è intorno ai 3200 m, dovevano ancora salire per circa 100 metri di dislivello, se è vero che la zona del bivacco è in cima all’affioramento roccioso a quota 3300 m circa. Se non ho capito male, non avevate neanche le torce accese.
XXXXXXXXX
– Torniamo al luogo e alla situazione del bivacco forzato. Hai detto che Kalina si è allontanata subito dal gruppo. In che direzione?
Non saprei. Forse da dove eravamo arrivati. È tornata un po’ indietro.
– Dopo aver scavato insieme ad Andrea, dopo esservi radunati per provare a creare calore, a che punto Mario si allontana da voi?
Non lo so, molto tardi. Non l’ho visto più. L’ultima volta che l’ho visto, era accucciato sullo zaino, come se lo abbracciasse. Mi aveva detto «Io non vedo niente, non posso far niente». Ma dopo mi era sembrato vivo e forte. Probabilmente non sarebbe morto se non fosse andato in piena notte a cercare soccorso. Poi, penso che gli sia venuto anche l’istinto di andare a cercare Kalina. L’avrei fatto anch’io per mia moglie, se non avessi saputo dove fosse e come stava.
– Mario sapeva dov’era Kalina?
No. Non lo sapeva. Dentro di me ho pensato che se si fosse mosso per andare verso il rifugio, prima avrebbe voluto accertarsi di come stesse Kalina e magari anche di informarla del suo progetto. Tuttavia a noi non ha detto niente.
– Qualcuno ha notato l’allontanamento di Mario? Qualcuno ha notato che non era ritornato?
No. Forse a quel punto erano quasi morti tutti.
Andrea Grigioni, di Lurate Caccivio, Como.
– La sua assenza, il suo mancato ritorno è stato notato dagli altri? Ha comportato per qualcuno un colpo psicologico? Vi siete sentiti ancor più smarriti?
XXXXXXXXX
– Hai avuto chiaro che Mario non sarebbe più tornato o hai seguitato ad attenderlo?
XXXXXXXXX
– Dalle cronache dei giorni successivi si apprende della morte di Mario causata dalla caduta in un crepaccio o da un salto roccioso. Ne sai qualcosa?
No. Anche io ho saputo dopo. So che sarebbe caduto in un canalone.
– Da chi lo sai, dal magistrato?
Dai giornali.
– Non ho mai letto di un canalone.
Sì va beh, i giornali scrivono di tutto.
– Avevate le torce?
Sì. Neanche tirate fuori.
– Sapresti indicare il punto esatto della vostra posizione, della posizione dei francesi e di Kalina? Considera che per le carte nazionali svizzere 1:50.000, ogni isolivella corrisponde e 20 metri di dislivello. Ho scelto di ingrandire questa parte di mappa [vedi immagine di pag 13] dopo aver messo insieme le informazioni che ho raccolto dalla stampa. La zona che indico è circa al vertice dell’affioramento roccioso chiuso a nord dalla traccia a pallini rossi.
Dopo aver valicato il colle a sud della vetta della Pigne d’Arolla, abbiamo seguito la traccia del gps. Era una traccia estiva. Disegnava semplicemente una L. L’abbiamo pedestremente seguita fino a dove lambiva le rocce. In quel punto era un po’ più ripido ma niente di impegnativo. Quando siamo arrivati nel punto dove la traccia gps incrocia la linea rossa, a quota 3240 m circa. Mario ha deviato verso le rocce. Fin lì mi aveva seguito, perché il gps lo impugnavo io. Siccome non volevo seccarlo, non ho detto nulla in merito alla sua scelta. Siamo dunque andati in direzione delle rocce/pallini rossi. Ci siamo ritrovati su un precipizio.
– Con quella luce e quella visibilità e difficoltà come l’avete riconosciuto il salto?
Eravamo proprio sul ciglio. Comunque a quel punto abbiamo visto un benedetto tubo di plastica, che indicava una presa d’acqua per il rifugio e di conseguenza la sua prossimità a noi. Era giù in fondo, sotto il salto di roccia. Non ci si poteva arrivare per via della fascia di roccette. Allora siamo tornati indietro. In quei momenti sono iniziate le raffiche.
Francesca von Felten, di Parma.
– Avrei bisogno di due spiegazioni:
1. Nella descrizione precedente, quella dove i francesi avevano guidato, prima che Mario riprendesse il comando, non hai fatto cenno alla traccia estiva che avevi sul gps. Puoi chiarire perché? Mi sembra una descrizione in contraddizione con la precedente.
2. Le raffiche c’erano da ore? Nella salita, dicevi, vi sbattevano a terra fin da prima del col du Breney.
XXXXXXXXX
[Tommaso riprende il racconto della sua memoria da dopo essersi lasciati alle spalle le rocce dalle quali vedevano il tubo di plastica. Nda]
Siamo tornati indietro da dove eravamo arrivati. Ho fatto presente a Mario che la traccia che vedevo sul gps era ancora più in basso, così siamo andati in quella direzione per avvicinarci alla traccia estiva che vedevo nel piccolo monitor. Era un tentativo per cercare un passaggio nella zona rocciosa. Ma c’erano ancora precipizi. Allora il francese ha proposto di scendere ulteriormente. Sosteneva che avremmo potuto raggiungere il rifugio se fossimo scesi ancora. Ma seguendo la sua idea ci siamo trovati di fronte a una zona crepacciata. Quindi siamo tutti risaliti seguendo Mario, anche i francesi.
– In tutto quel girovagare, la luce del rifugio non è mai apparsa?
No. Ho visto il rifugio soltanto il giorno dopo, quando ha schiarito. E appariva lontano, molto lontano. Fossero stati anche solo 500 metri in linea d’aria, ma con quel vallone da percorrere… era decisamente lontano.
– La mattina hai visto subito chi era sopravvissuto e chi no?
Sembravano tutti morti. Tranne la Francesca erano tutti a pancia in giù, non so perché, coperti dalla neve. Quindi ho detto… sono andati. Francesca invece era voltata verso l’alto ma era grigia di faccia.
– Quando ti sei accorto che Luciano e la Julia ce l’avevano fatta? Cosa vi siete detti?
XXXXXXXXX
(continua)
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Lorenzo, sinceri complimenti per questa intervista tutt’altro che facile.
Il racconto è crudo e terribile come lo sono questo tipo di tragedie.
Non conoscevo il tuo blog, che leggerò molto volentieri.
Ale