Platone e il diedro Mayerl

Platone e il diedro Mayerl
(un collasso epistemologico)
di Piero Pagliani

Il collasso epistemologico avvenne in discesa, molti anni fa.
Il Diedro Mayerl al Sass dla Crusc, più precisamente al Piz dl’ Pilato, in Val Badia, era una salita che mi affascinava. Perché? Chissà. Forse all’epoca non osavo confessarlo, ma oggi che queste cose non le faccio più posso essere onesto: uno dei motivi di quella fascinazione stava in un punto ben preciso della relazione contenuta in Arrampicate in Dolomiti di Lele Dinoia, Marco Polo e Roberto Roseo, del 1976, che definirei come la prima guida moderna in italiano delle Dolomiti.

Nella descrizione dell’8° tiro la relazione così recitava: “Niente chiodi. Passaggio di VI assai problematico”. E all’epoca una frase come questa mi stuzzicava la curiosità.

Quando sono in falesia preferisco spit ravvicinati. Perché ritengo assiomatico che in falesia non ci si debba far del male. Ritengo assiomatico anche non farsi del male in parete, ma lì le coordinate cambiano. Lo fanno silenziosamente, in punta di piedi, ed è difficile accorgersene.

La parete del Sass dla Crusc (Val Badia)

Altri passi della relazione erano invitanti: “Difficilissima arrampicata libera”, in un ambiente severo e superbo dove, ahimè, tutte le vie erano “di rango estremo e pertanto percorribili da una stretta cerchia di alpinisti”. Ovviamente questi giudizi valevano allora mentre oggi hanno un senso puramente storico. viste le imprese allucinanti dei moderni supermen dell’arrampicata. Già quando decisi di ripetere io il diedro Mayerl, la cerchia di alpinisti che percorreva quelle vie non era più così tanto ristretta, anche se non era necessario prendere il numeretto. E infatti quel giorno in parete c’eravamo solo noi tre: io, il nume tutelare local Cesare Masarei, allora del Soccorso Alpino della Val Fiorentina, e Marco Scimía, un muscoloso e amabile abruzzese-romano, che all’epoca mi stava dietro e a cui io da un bel pezzo non riesco a stare più dietro.

Ad ogni modo così era o così si narrava e alcune note un po’ (meno?) invitanti, come “su roccia prevalentemente friabile”, non riuscivano a farmi diminuire il fascino della via, anzi forse ci mettevano ancor più di pepe.

Conoscevo l’ambiente, perché l’anno precedente avevo scalato la via Messner al Gran Muro. E quindi conoscevo l’infernale zoccolo che con la sua friabilità mette a dura prova la pazienza per quasi metà della salita. Mentre arrancavo pensavo: “E’ la seconda volta. Che strazio. Io qui non ci ritorno più”. Lo avevo pensato anche dopo il Gran Muro. Non era stato vero allora e non sarebbe stato vero neanche quella volta, perché l’anno seguente mi sarei trovato ancora lì per andare a fare il dimenticato ma meritevole diedro Frisch-Renzler al Piz d’l Zubr.

Il tracciato del Diedro Mayerl

Ma la parte superiore, quella delle difficoltà, non aveva roccia friabile. Anzi per molti tiri era magnifica. Sì, è vero, nel primo la roccia era…beh, non era friabile, era proprio marcia, gli appigli a volte si sgretolavano a guardarli. Ma solo per pochi metri. Per il resto della via le cose erano molto diverse e occorreva solo fare attenzione in un punto a dei blocchi incastrati grandi come armadi. Il ritorno era semplicissimo. Ovvero sarebbe stato semplicissimo se non fosse successo qualcosa che, come vedremo, avrebbe avuto strane conseguenze filosofiche.

Qualche anno dopo, la curiosità di andare a vedere se una via era così difficile come si raccontava mi fece passare una mezzora terrificante in Civetta, ma nel caso del Diedro Mayerl il mio allenamento era più che adeguato alle difficoltà e con la testa c’ero tutto. I miei due compagni non pretesero mai di passare davanti. Anzi pretesero che rimanessi sempre al comando e a me andava bene così: salivo divertendomi, ero sicuro, sentivo di avere un buon margine. Nemmeno mi spaventò il momento più brr brr della giornata, che non fu il famoso passaggio di VI inassicurabile, che invece passai tranquillo, ma la sosta precedente, in mezzo a una placca che sembrava a picco sulla Val Badia, dopo un traverso per nulla banale dove in 20 metri trovai solo un paio di chiodi. Poco male, ormai ero alla sosta, protetta da due chiodi che collegai e ai quali mi appesi. Anzi, stavo per appendermi, quando notai che il più grosso si muoveva. Mi assicurai a un microfriend infilato in una fessurina e provai di nuovo il chiodo. Mi rimase in mano. Intatto. Un chiodo del mitico Sepp Mayerl che adesso fa bella figura sul mio caminetto in Dolomiti.

In arrampicata sul Diedro Mayerl. Foto: Claudio Betetto.

Lo rimisi nella fessura con la mano e cercai il martello. Quando si è furbi si è furbi, e quando si parte troppo sicuri e troppo vogliosi ci si dimentica di controllare la lista della spesa: il martello era rimasto nello zaino di Marco. Fin lì mi ero protetto con quel che c’era e qualche friend e quindi non ci avevo fatto caso. Ma in quel momento mi sarebbe servito. Dandomi dello stupido, mentre stavo appoggiato con la punta dei piedi sull’unica sporgenza della placca cercando di non pesare sui chiodi, mi venne un sospetto e provai anche il secondo. Si muoveva anche lui. Ricacciai dentro anche quello a viva forza. Insomma ero alla mercé di una sicura letteralmente “fatta a mano”. Richiamai Marco dicendogli di venire con circospezione e senza respirare. Giunto a due terzi del traverso gli indicai un buco nella placca dove piantare un chiodo universale. Marco, che nella difficoltà pura già mi dava la birra ma era poco avvezzo all’ambiente dolomitico, specialmente a uno così severo, era un po’ impensierito, oltre che stanco per il viaggio da Roma. Piantò adagio il chiodo, preoccupato di muoversi piano per evitare che la montagna si accorgesse di lui. Così il chiodo rimase un po’ fuori finché feci raggiungere Marco da Cesare che con un paio di martellate da professionista, accompagnate da un paio d’improperi in ladino, lo cacciò dentro fino alla testa.

Tirai il fiato, recuperai alla sosta Cesare che piantò nuovi chiodi con maestria e poi Marco, e il resto della salita continuò senza problemi.

La muraglia sbuca sul bordo superiore del bellissimo pianoro dell’Alpe di Fanes. Mentre contemplavo lo spettacolo rifacendo le corde chiesi a Cesare di chiamare casa sua a Colle Santa Lucia, così che mia moglie fosse avvertita che tutto era a posto e che eravamo sulla via del ritorno. All’epoca non avevamo i cellulari e Cesare doveva chiamare tramite la sua radio del Soccorso Alpino.

“Tutto a posto? Sei riuscito ad avvertire?”.
“Sì, tutto a posto”.

Bene. Dalla cresta tramite il Ju dl’Crusc si riscavalla verso la Val Badia, si scende lungo una facile ferrata e si giunge a una comoda cengia che taglia la parete fino all’Ospizio di Santa Croce.

E fu proprio sulla comoda cengia che rischiammo la tragedia. Ad un certo punto Marco inciampò ruzzolando giù lungo il ghiaione. Io ero un po’ avanti e vidi rabbrividendo la scena in silhouette, col profilo del ghiaione che si interrompeva su un alto salto di roccia: Marco si era fortunosamente fermato a pochi metri dal baratro. Gli urlai di non muoversi. Ero spaventato anche perché Marco non si era reso conto di dove era finito. Ritornai su di corsa e gli gettai una corda scongiurandolo di legarsi. Non lo fece ma risalì attaccandovisi, zoppicando vistosamente. Se per qualche motivo avesse mollato la presa sarebbe finito giù, senza possibilità di scampo. Ero col cuore in gola. Ma riuscì a raggiungerci. Lamentava un forte dolore alla gamba. Gli chiesi se poteva muovere la punta dei piedi. “Sì”. Meno male.

A quel punto chiamammo il Soccorso Alpino e Cesare corse verso il rifugio per attenderlo e dargli indicazioni. Io invece aspettai che Marco si riprendesse. Passò il tempo. Passò un po’ il dolore. Il Sole tramontava ma una splendida Luna illuminava il sentiero. Non avevamo le frontali. Non era previsto di rimanere in montagna di notte. Marco riprese a muovere la gamba e così, passo dopo passo, tenendo l’amico zoppicante per mano, seguendo le rocce più chiare, arrivammo al rifugio dove era appena giunta la squadra di soccorso, salita con la jeep. A quel punto dovevano solo riportarci a valle col loro mezzo, ma prima gli offrimmo un giro di rosso. Ne approfittai per telefonare a mia moglie. Appena alzò la cornetta lanciò un urlo di rimprovero:

Diedro Mayerl: il traverso dalla sosta a mano. Foto: Emanuele Andreozzi.

“Chi si è fatto male?”.
Ero sorpreso: come faceva a sapere che qualcuno si era fatto male?

“Beh, Marco è caduto lungo il sentiero. Capita”.
“E’ tutto il giorno che sto in pensiero!”, continuò ad urlare. “Altro che “capita”!”.
“Vabbè, vabbè. Ci vediamo tra un po’”.

Continuavo a non capire: come faceva a saperlo? E poi, perché “tutto il giorno”?
Chiesi a Cesare: “Ma tu hai telefonato a Fabrizia?”. “No!”. Mistero.

Tornammo a casa verso mezzanotte. A Marco era passato il dolore alla gamba e già mi chiedeva dove si poteva andare ad arrampicare il giorno dopo. Entrammo. Fabrizia era in piedi ad attenderci con un viso sconvolto e pieno di rabbia. Mancava solo il mattarello in mano.

“Bé, non ti sarai mica spaventata. Sono cose che succedono”.
“Non mi sarò mica spaventata?! E’ tutto il giorno che ho il cuore in gola!”.

Anche se non aveva il mattarello non osai chiederle spiegazioni, ma bisbigliai a Marco: “Domani niente roccia. Braciolata lungo il torrente con gli amici”. E così fu. Era il 15 di agosto del 1994. E a Ferragosto una braciolata ci stava.

Il giorno dopo scoprii l’arcano. Non potendo raggiungere direttamente la sua postazione quando aveva avvertito via radio che eravamo usciti e che tutto era andato bene, Cesare aveva dovuto triangolare col Soccorso Alpino di Arabba. La cognata riportò in modo meccanicamente preciso e secco l’informazione a mia moglie: “Fabrizia: ha telefonato il Soccorso Alpino di Arabba e ha detto che tutto va bene”.

E giustamente Fabrizia aveva pensato che se aveva telefonato il Soccorso Alpino, non tutto era andato bene. Da qui la sua angoscia. Mezz’ora dopo Marco si sarebbe fatto male per davvero e per davvero avremmo chiamato il Soccorso Alpino.

Ora, Platone nel “Teeteto” definisce una “conoscenza” (cioè una “episteme”) come una “credenza, vera e giustificata” del soggetto.

“Credenza”, perché il soggetto deve esserne cosciente e ci deve credere, “vera” perché la cosa creduta deve essere vera (altrimenti è un’opinione una “doxa”), “giustificata” perché il soggetto non deve tirare a indovinare ma deve avere motivi per credere alla cosa.

Fabrizia credeva che qualcuno si era fatto male, Marco si era veramente fatto male, e Fabrizia aveva motivi che giustificavano la sua credenza (la telefonata del Soccorso Alpino di Arabba). Ma quando lei aveva avuto conoscenza che qualcuno si era fatto male, una conoscenza che aveva l’approvazione niente meno che di Platone, nessuno si era ancora fatto male. Ecco il “collasso epistemologico”.

Questa aporia nella definizione classica di “conoscenza” la discutemmo durante una ricerca su un sistema di logica formale per la sintesi dei programmi a cui partecipavo da esterno con un team del Dipartimento di Scienze dell’Informazione dell’Università di Milano. Ne scaturirono bei risultati e anche il collegamento con problemi matematici su cui la comunità internazionale dei logici ancora si danna. Ma questa è un’altra storia.

Io sono contento che in casa non avevamo un mattarello, altrimenti me la sarei vista brutta a causa di Platone.

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Platone e il diedro Mayerl ultima modifica: 2024-02-13T05:31:00+01:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “Platone e il diedro Mayerl”

  1. Sulle mirabolanti avventure del Mitico Marco ci si potrebbe scrivere un libro, ricordo ancora un lontanissimo tentativo di tanti anni fa per raggiungere Paklenica partendo da Roma: biglietti del traghetto per la traversata da Pescara in tasca… incredibile a dirsi, ma a causa di un panino con le cipolle e un cornetto alla cioccolata di troppo, non siamo arrivati nemmeno al mare… gli infermieri dell’ospedale stanno ancora ridendo.
    Un vecchio amico 🙂

  2. A proposito di greco. Sul Sass de la Crusc , ma  più a sinistra,  c’è  una gran via del Greco.

  3. Che incanto mi suscita il tuo racconto nella reminiscenza di quelle montagne che ho calcato da escursionista e sciatrice semplice e inesperta ma sempre entusiasta. E mi sovvengono reminiscenze lontane anche di quel greco e di quella filosofia a cui al liceo cercavo di dare un senso senza grande convinzione. Piero sei inarrivabile anche per il mattarello di Fabrizia, Santa Donna!

  4. Grazioso ed avvincente il racconto. Bellissimo il diedro! Peccato non averlo fatto.

  5. Ne approfitto per salutare il caro amico Bruno Telleschi con cui ho condiviso splendide giornate in montagna. Ciao Bruno! 

  6. Del gran diedro ricordo di aver fatto probabilmente una variante verso destra come ultimo tiro …forse uno  o due chiodi su delle pance grigie molto bella e impegnativa.

  7. Evviva Piero! Il suo coraggio e la sua ostinazione risolvono in bellezza il collasso epistemologico di Platone senza incappare nel mattarello di Fabrizia.

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