Presentazione a Lost in translation
Tra gli alpinisti di tutto il mondo che hanno fatto la storia dell’ultima dozzina abbondante di anni prendete i nomi più importanti, associateli, mescolateli e distillatene l’essenza con un solo filtro. Avrete uno spaccato di avventure verticali che si riflettono nelle singole vite orizzontali di donne e uomini americani, spagnoli, baschi, francesi, britannici, tedeschi, austriaci, tirolesi, polacchi, sloveni, cechi, slovacchi, russi, ucraini, nepalesi. Questo filtro è la dote sovrumana di un solo individuo che comunque di umanità normale ne ha da vendere.
In questo libro è tutto ciò che rende grande l’alpinismo planetario: solo gli italiani mancano. Perché? Perché il filtro è quello del più grande traduttore vivente, che di solito vive e lavora in Italia e traduce per i suoi compatrioti. Qui gli italiani dunque fanno da sfondo o da coro, vengono citati quando necessario al racconto, ma non sono mai i protagonisti.
E’ proprio questo che secondo me getta una luce del tutto nuova sulla portata enorme di informazioni ed emozioni che normalmente non vengono mai sdoganate nel nostro paese, sulla bellezza delle sfumature destinate a risultare appunto lost in translation. Con una lingua così forte come la nostra, della quale siamo tutti innamorati e un po’ succubi, è raro che succeda. E quando avviene difficilmente è in un teatro, alla presenza fisica del protagonista: le rare volte capita seduti su un divano a leggere un libro ben scritto ma soprattutto ben tradotto.
Di tutto ciò è ben cosciente l’Autore che, oltre a possedere una memoria eccezionale (sovrumana, dicevo prima), ha la sensibilità e la prontezza di mettersi sullo stesso piano dei giganti. Non possiamo che dargli ragione quando scrive:
“Tradurre qualche articoletto, tutto sommato, è paragonabile a scalare qualche via semplice in falesia.
Tradurre un libro equivale a salire una qualche bella via di roccia.
Tradurre un alpinista dal vivo, invece, può essere paragonabile ad una prima assoluta su una via alpinistica che presenta un po’ tutte le difficoltà su roccia ghiaccio e neve che chiunque frequenti la montagna riesce ad immaginarsi”.
Luca Calvi non fa mistero dei suoi segreti, le armi vincenti che superano l’importanza del suo smisurato vocabolario multilingue: in primo luogo cercando (in genere con qualche aiutino alcolico…) solidarietà, rispetto, amicizia e fiducia già nei primi minuti di conoscenza con il protagonista nelle ore prima della serata; in secondo luogo la capacità di entrare nel suo intimo grazie all’altrettanto colossale conoscenza dei più diversi dialetti che danno colore al processo mentale di traduzione. Ecco che, come per incanto, a Luca sono chiari i punti di forza, le debolezze, i tic, le energie che hanno spinto colui che gli è di fronte a compiere imprese memorabili e che però, nella vita di tutti i giorni, recitano parti più o meno aderenti al proprio essere reale. Cosa che facciamo tutti, naturalmente.
La traduzione, con Luca Calvi, diventa lavoro di team a due, a volte perfino di equipe multilingue, come avrete modo di leggere.
E pensare che c’è ancora chi pensa che di un qualunque testo o di un qualsiasi discorso esista LA traduzione, quella cui il bravo traduttore deve avvicinarsi tendendo alla perfezione oggettiva. Già nella stessa lingua, quando vi è passaggio tra scrittore e lettore, tra chi parla e che ascolta, non esiste oggettività. Sarebbe come dire che un cantico di Dante Alighieri letto da Roberto Benigni e lo stesso cantico letto dall’alunno più bravo della scuola media facciano lo stesso effetto perché le parole sono le stesse…
Per realizzare la sprovincializzazione del pubblico italiano medio occorre passare attraverso filtri soggettivi: e per Lost in translation questo non è un obiettivo da raggiungere, bensì semplicemente una normale partenza, un processo acquisito e fondante.
Riflettiamo: stiamo leggendo il libro di un traduttore, i ricordi di chi ha fatto spettacolo in team dal vivo, e non in playback come succede con gli articoli, con i libri e anche con i film e video sottotitolati o, peggio, doppiati. Siamo perciò a un livello davvero superiore. Perché è in teatro che può avvenire il vero scambio, l’osmosi che tutti ricerchiamo quando ascoltiamo od osserviamo le performance di un protagonista che non parla la nostra lingua.
Il terzo segreto del nostro Autore è di avere piena conoscenza (tramite intuizione) dell’eterno conflitto in essere del protagonista: lasciarsi andare o recitare la parte ch’egli crede vogliano i suoi spettatori? In che percentuali questi sta miscelando le due tendenze? E quanto al traduttore: come intervenire in questo processo, quando spingere? quando fermarsi? quando aggiungere una propria sfumatura o un particolare, magari per rappezzare un piccolo incidente di percorso?
C’è poi un quarto segreto di Luca Calvi, che però è dote più da scrittore che da traduttore: l’umorismo. Potente, leggero, crasso o sfumato si adegua come un camaleonte all’umorismo più o meno latente dell’interlocutore. L’umorismo è come la musica: unisce ed è universale. Non bisogna avere paura di “rubare” la personalità altrui e di regalarla alla platea: quando ci si unisce nella risata, non c’è mai crudeltà o mancanza di rispetto. Calvi non fa satira.
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Meneghello diceva che dato che il figlio capisce la lingua del padre con un centinaio di padri potremmo parlare con un cromagnon. Voglio dire il pensiero quando viene scritto viene per così dire tradotto. Il traduttore, quando traduce, traduce nel suo pensiero, quando il traduttore scrive traduce il suo pensiero. Noi, quando leggiamo, traduciamo nel nostro pensiero. Insomma dal pensiero dell’autore a noi sono 5 passaggi, di cui ben 3 a capo del traduttore!!! Mestiere difficile e mai abbastanza riconosciuto
“come il temutissimo e attaccatissimo Carlo Crovella.”
Timeo Crovellam et dona ferens.
Ho notato che l’intervento di Luca (Calvi) si differenzia leggerissimamente da ciò che troppo spesso rovina il nostro forum: sproloqui, sintassi sgangherata, parole inappropriate, e soprattutto malevolenza, astio, invettive, botte da orbi.
Che non convenga arruolarlo come commentatore, affinché ci dia l’esempio?
@Roberto Pasini
Ti ringrazio per le belle parole.
Visto che ti piace il mio humour, potrei solo aggiungere che ciò che mi è veramente congeniale come lavoro di traduzione di opera scritta è la letteratura antica, quella in cui l’opera di traduzione si muove assieme a quella dello storico.
In questo senso credo di aver dato e di dare il meglio di me nella traduzione dei “pionieri ” dell’alpinismo nelle terre che dall’attuale nord-est italiano arrivano ai Carpazi. E’ una questione di passione culturale.
En passant, di opere scritte in quest’area come La rivolta degli animali di Kostomarov, pubblicato da Sellerio negli anni Novanta o Due storie ucraine di Mykola Chvyloì’ovyj, pubblicato da Santi Quaranta, per non parlare di Le Ombre degli Avi Dimenticati di Mychajlo Kocjubyns’kyj, pubblicato da Santi Quaranta, come forza espressiva e impegno sono assolutamente all’altezza di Orwell, Melville o Proust.
Ho poi lasciato perdere un certo tipo di letteratura e la traduzione di quel particolare tipo di letteratura proprio perché… Troppo seriosa e spesso autoreferenziale. Non mi vedevo e non mi vedo a fare solo la vita del traduttore da te descritto, meno ancora quella dell’interprete “che si confonde con la tappezzeria”.
Mi piace studiare lo sviluppo della cultura, la mia area di maggior interesse è quella che bai identificato e, essendo io innamorato cotto del mondo della montagna, a tempo perso mi diverto a tradurre e ogni tanto pure a scribacchiare, a discettare di storia dell’alpinismo in una prospettiva molto ampia in cui storia, filologia, etno-linguistica e antropologia si incontrano per cercare di capirci qualcosa, senza comunque la pretesa di sciogliere ogni e qualsivoglia dubbio.
Qualcuno, per prendermi in giro, dice che amo tradurre gli alpinisti del passato perché non si possono più lamentare, ma è una semplificazione eccessiva.
In ogni caso, ringraziando di nuovo te, Roberto, come anche le altre cortesi parole lasciate da altre pregevoli firme del GognaBlog, come il temutissimo e attaccatissimo Carlo Crovella, questo libro altro non è che un divertissement nel quale parlo anche (ma poco) della traduzione di opere scritte, ma soprattutto di ciò che vari (parecchi) grandi alpinisti e scalatori hanno lasciato in me.
Il caleidoscopio è quello di un traduttore/interprete atipico, filologo di formazione. Nessuna presunzione, il solo piacere di raccontare qualcosa ai possibili ventisei lettori (se ne avete dati venticinque a quello scassaballe del Manzoni ne darete ventisei a me, no?).
Un ultimo appunto…
A nessun traduttore, credetemi, passa per la testa l’idea di poter rendere con la propria “ri-creazione” l’avventura o la performance narrata. Non riusciamo a rivivere l’emozione vissuta come qualcuno avrebbe voluto intendere.
Al traduttore basta riuscire a rendere nella propria lingua quanto è stato scritto in un modo che sia più aderente possibile allo stile ed alla personalità dell’Autore.
Noi, quando traduciamo, non ricreiamo l’avventura dell’alpinista, bensì la narrazione fatta dall’alpinista o da chi di lui scrive.
Questo per quanto riguarda un’opera scritta.
Per quanto riguarda il piacere di tradurre sul palco i vari personaggi, avendo tradotto su un palco una notevole varietà di personaggi dal mondo della politica a quello dello sport, posso garantire che tradurre un alpinista o uno scalatore può essere un’esperienza piacevole oppure uno scassamento di epididimi di proporzioni bibliche, il tutto a seconda di come il suddetto “personaggio” sappia porsi.
Di certo, come sottolineano i miei amici Alessandro Gogna e Alessandro Filippini, mi sono ritrovato con la capacità di tradurre e riprodurre da varie lingue, riuscendo ad “interpretare” la parte da me stesso tradotta. Ottimo il termine inglese usato dal mio amico Alessandro per descrivermi, ovvero Translactor, che potrei provare a tradurre con TraduAttore.
Alla fin fine sono solo un artigiano della parola, che si guadagna da vivere traducendo testi di vario tipo, appassionato di montagna, che nel poco tempo libero che ha si diletta a scrivere di storia dell’alpinismo dolomitico o nei Pesi dell’Est e che adesso, finitis duodecim lustris, ha deciso di scrivere qualcosa di sé, senza prendersi troppo sul serio, riservando strali ed approfondimenti a chi, invece, troppo spesso lo fa.
Quando insegnavo in università seguivo il dettame di chi vorrebbe dire di sé che delectando docet. Avendo lasciato perdere l’accademia più di vent’anni fa, ho abbandonato il docere per il piacere delle discussioni conviviali e delle ricerca basata sui propri gusti e attitudini.
Ringrazio ancora chiunque abbia dimostrato un qualche interesse -anche minimo e solo critico – per il mio Lost in Translation, saluto l’amico Alessandro Gogna, Roberto Pasini, Carlo Crovella, il mio carissimo amico Giuseppe Penotti e chiunque abbia voglia di discutere della per me bellissima introduzione al mio libro, che Alessandro Gogna generosamente ha messo a disposizione del suo Blog e che per me vale quanto un’onorificenza da parte del Capo dello Stato.
Buone Vacanze Pasquali a tutti
LC
Caro Alessandro, la tua rivelazione mi coglie di sorpresa!
Ho riletto l’articolo sotto questa luce e ugualmente lo sento distante e un po’ altisonante, forse perché non conosco l’autore di cui si parla?
Chi stabilisce cosa è normale? Il fatto che qualunque aspetto o azione siano nella norma per noi, questo non significa che siano normali. So che si tratta di sottigliezze linguistiche, ma come per i termini “conquista” o “assalto” che per me dovrebbero essere evitati quando si parla dell’arrivo in un luogo, ritengo che il modo in cui ci si esprime sia importante.
Rimango dell’idea che una traduzione, per quanto appassionata, non possa mai eguagliare una data esperienza (mi sembra di ricordare che un amico comune sostenga con forza che non sia trasmissibile). Può essere coinvolgente ma, per coglierne il vero spirito, non si può che ascoltarla raccontare dall’autore.
E’ certo che, nel bene e nel male, il traduttore dà la propria impronta al testo: mi è successo di non riconoscere lo stile dell’autore in certi elaborati.
Per questo leggo raramente libri tradotti, in pratica forse solo quelli degli scrittori giapponesi che amo.
Non concordo sul fatto che la lettura di Benigni debba necessariamente essere superiore a quella fatta da un allievo: tutto sta nella passione che viene trasmessa, meno dall’esperienza o dalla presenza scenica. A me è accaduto di emozionarmi quando una bimba mi ha cantato una canzone durante il viaggio in treno, come dono per la camminata che avevo guidato.
Certamente mi hai incuriosito e andrò alla ricerca di un qualche testo tradotto, non prima di aver letto l’originale, non appena ultimerò “Sul fondo del barile” e “Into the wild”, che consiglio.
Precisazine: nel mio 10 per “commento precedente” si intende il numero 8 (Pasini nel frattempo si è inserito). Ciao!
Quanto sia facile equivocare sui social viene dimostrato anche dal paragrafo finale del commento precedente. Infatti non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello di pormi allo stesso livello di Calvi (di cui nel primo mio commento tesso le lodi, non so se sia esplicito o criptico), ma semplicemente ho linkato un testo in cui il concetto di Montale era stato espresso come maggior profondità e, inoltre, collegato all’attività di traduzione di un’altra persona molto abile sui testi “alpinistici” come la torinese Paola Mazzarelli. Io non c’entro nulla e quindi la tiritera è tutta una costruzione mentale.
Visto come sia facile prendere “roma per toma”, anche su un commento di tre righe più un link autoesplicativo, non mi stupisco che l’articolo di Gogna possa non risultare di non immediata comprensione, ma NON dipende dall’autore, bensì dai lettori o dalla loro probabile frettolosità di lettura.
in ogni caso, se raccogliete l’invito di Alessandro e sottolineate i punti che non vi convincono, sarà di interesse per tutti focalizzare meglip i concetti. Buona giornata!
Sulla traduzione dei testi scritti c’e’ una vasta letteratura. Tutti sappiamo che i grandi traduttori da Fenoglio a Pavese sono stati spesso anche grandi scrittori. Ognuno di solito si è specializzato in un autore o in un filone che evidentemente è a lui congeniale. Calvi per come lo conosco come lettore è un uomo dell’Est con specializzazione sull’alpinismo. Evidentemente penso ami molto entrambi, la Mitteleuropa e la montagna. Questo rispecchiamento gli consente di ottenere risultati molo buoni, anche se di per se’non e’uno scrittore di professione e i testi che traduce pur pregevoli non sono Moby Dick. Ma l’aspetto originale di Calvi è la sua capacità “attoriale” dal vivo. Di solito i traduttori vivono nel chiuso delle loro stanzette, incatenati alla tastiera. Calvi è un estroverso, allegro, caciarone, che dal vivo da’ il meglio di se’. È l’opposto di quelle grige figure di traduttori che appaiono di fianco ai politici nei meeting internazionali e si confindono con la tappezzeria. Lui è una personalità che interagisce con un’altra personalità, le sue traduzioni sono un vero e proprio duetto. Poi c’è il Calvi di FB di cui sono un seguace perché agisce il mio lato goliardico che a volte un po’ perbenisticamente nascondo. Ogni giorno lui pubblica cose di ogni tipo: battte, foto, vignette, invettive contro i cialtroni, ironie su se stesso e il suo “panciottino”. Mi strappa sempre un sorriso e gli perdono alcune cadute a volte a livello delle cazzate che dicevamo al liceo. Ma perché no? Regredire ogni tanto fa bene, senza cadere nel cattivo gusto. Ecco questo è il Calvi che non conosco personalmente ma solo com e “utilizzatore finale’ come Berlusca 😀 uno e trino; serio orientalista di scuola ca’ Foscari, attore e simpatico goliardone dei social ( mi par di capire anche nella vita).
Anche io sono rimasto abbastanza perplesso dai commenti. Il testo mi sembra chiaramente comprensibile e trasmette molto bene la personalità di Luca Calvi e il suo lavoro di traduttore. Esercitando comunque il beneficio del dubbio, conoscendo bene Luca Calvi, può anche essere che per chi non lo conosca, il testo sia apparso criptico.
Esilarante invece il commento di Crovella, che con un link cita se stesso, mettendosi più o meno allo stesso livello di uno scrittore-traduttore che parla, scrive e traduce dal vivo oltre 20 lingue e le varie differenze dialettali.
#1 Marcello Cominetti, #2 Paolo Fissore e #6 Grazia Pitruzzella. L’autore del post è Alessandro Gogna. Sono io quindi, che non firmo mai quando scrivo su GognaBlog. Quanto all’incomprensibilità, francamente sono molto stupito e non riesco a vedere in tutto il testo neppure un passaggio “oscuro”. Chiedo pertanto il vostro aiuto, magari segnalandomi uno o due dei punti più “incomprensibili”. “Umanità normale” è riferito a quella parte della personalità di Luca Calvi che investe tutta la sua esperienza di vita al di fuori del mondo verticale. Un modo figurato per dire che questo traduttore ha una lunga e spessa storia di vita, tale da fargli facilmente comprendere le motivazioni degli alpinisti che traduce, noti al pubblico per azioni e imprese che di “normale” hanno certamente poco.
D’accordo con Marcello, non ho capito quasi nulla.
Per esempio, cosa intende per “umanità normale”?
Mi verrebbe da suggerire all’autore di volare un po’ più basso, poiché ritengo che “tradurre un alpinista” può essere considerata certamente una fortuna (ammesso che quest’ultima esista!), visto che si può partecipare, immaginando d’essere lì, a qualche intensa esperienza, ma certamente non può essere paragonato a una prima assoluta!!
L’émotion est juge, et c’est personnel.
A proposito di Montale e della ricreativita’ del traduttore, qualche approfondimento, specie riferito alle traduzioni di montagna, si trova in un articolo uscito sul Blog un po’ di tempo fa:
https://gognablog.sherpa-gate.com/brividi-in-quota/
Mi viene in mente una tesi di Euenio Montale (che con l’alpinismo non ha nulla a che fare, ma con il tradurre sì) il quale sosteneva che tradurre è RI-creare, cioè la traduzione e nei fatti un’opera creata da zero, ms nel solco dell’opera originaria. Quindi possiamo dedurne che i traduttori sono degli scrittori, inventano anche loro, con una difficoltà in più: reinventando stando nei binari definiti dall’autore originario. Questo vale in tutti i campi, non solo nei libri di montagna. Io aggiungo che questa visione è tanto più vera per le traduzioni in lingua italiana, data la complessità della nostra lingua, dove ogni sfumatura può dare un significato completamente diverso all’intera frase.
Sono andato a vedere cosa è in effetti il libro e credo possa essere più che interessante per un pubblico con gusti alpinistici. Ma dell’articolo ho capito meno di Cominetti. Una miscela di parole, dotte ma per me al limite dell’incomprensibile, da farmi dubitare della loro necessità. Senza offendere, a causa della mia ignoranza linguistica, ma cosa dice del libro e come invita alla sua lettura ? E chi è l’autore ?
Questo articolo andrebbe, secondo me, “tradotto”.
Non c’ho capito niente.