Prima invernale al Pilastro a Tre Punte (RE 030)
di Ugo Manera
(da Pan e Pera)
Nel mese di settembre, con Gian Piero Motti e altri due amici tentai una nuova via sul pilastro ovest del Becco di Valsoera (quella che poi divenne la via del Diedro Giallo), ma giunti oltre metà parete constatammo che proseguendo non saremmo scesi in giornata, per cui desistemmo e uscimmo seguendo la via Cavalieri-Mellano-Perego.
I miei rapporti con Gian Piero erano sempre più stretti anche se eravamo diversi. Motti era di animo molto sensibile e spesso tormentato da interrogativi di carattere esistenziale e filosofico. A quegli interrogativi cercava delle risposte attraverso l’indagine introspettiva e con lo studio del pensiero degli uomini. Quando sembrava aver concluso positivamente l’analisi e raggiunto uno stato di serenità, altri dubbi insorgevano che lo spingevano a rincorrere un orizzonte impossibile.
Tutte le inquietudini del suo carattere Gian Piero le trasferì sul suo modo di interpretare l’alpinismo; di questa attività, oltre che un protagonista, divenne uno studioso. Fin dai primi anni di pratica analizzò motivazioni e personalità dei protagonisti, confrontandosi con l’alpinismo che monopolizzava la nostra cultura. La “scuola” europea di derivazione romantica e idealista non lo convinceva, e non si identificava in un «alpinismo angoscioso e teso al conseguimento di un risultato, inteso come meta da raggiungere, in un meccanismo autosuperante». Egli si mise allora ad analizzare gli scalatori californiani e a leggere molto sul moderno alpinismo francese. Fu appunto nelle testimonianze dei californiani che Gian Piero scoprì: «un esasperato individualismo che si manifesta da un lato con atteggiamenti antisociali, dall’altro con l’arrampicata intesa non tanto come espressione sportiva e competitiva, ma soprattutto come fenomeno individuale e come ricerca personale di sensazioni altrimenti irraggiungibili». In quel modo di intendere la scalata, Gian Piero trovò le risposte che cercava. Dall’alpinismo francese apprese l’interesse a portare l’avventura e il massimo impegno ovunque esistesse una parete, anche se non terminava su una cima celebre, ma portava solamente ai prati dell’altopiano.
Io invece avevo un solo cruccio: quello provocato dal senso di responsabilità verso i miei famigliari; non mi ponevo interrogativi di carattere esistenziale e il mio alpinismo seguiva un unico indirizzo: compiere tante salite e vivere molte avventure. Il mio modo di concepire la montagna era però lontanissimo dalla visione drammatica alla Bonatti e altrettanto lontano dall’interpretazione retorica dell’alpinismo come scuola di vita. Per questo seguivo interessato le ricerche di Gian Piero, e mi sentii molto vicino a lui nel tirare le conclusioni che ci portarono a cercare la nostra piccola “California” e a scatenarci nell’esplorare le allora sconosciute pareti delle Prealpi francesi.
Il 1971 fu un anno ricco di realizzazioni, dal Monte Bianco alle Dolomiti, e segnò anche l’inizio della nostra esplorazione delle pareti calcaree francesi; Motti sosteneva che le due guglie che tante volte avevamo visto scendendo dal Monginevro verso la Francia, offrivano delle ottime possibilità. Erano le Tenailles du Montbrison che noi, erroneamente, avevamo sempre creduto fossero di roccia marcia; trascinati da Gian Piero, effettuammo un primo assaggio sul principio dell’estate, poi ritornammo in forze nel tardo autunno per salire lo spigolo sud-est (oggi una grande classica). La nostra “missione” esplorativa coinvolse ben nove scalatori, tra i quali, oltre a noi promotori, Alessandro Gogna, Gian Carlo Grassi e Benvenuto Laritti. Scendemmo a notte fonda, vagando al buio nella bella foresta di conifere, ma il calcare di Francia ci aveva conquistati: con Gian Piero avviai una sistematica esplorazione di quelle Prealpi che avevamo imparato a conoscere attraverso i racconti di scalate apparsi sulla rivista del Club Alpino Francese La Montagne et Alpinisme.
Cadute le foglie dagli alberi, comparsa la prima neve sulle cime, ogni anno si rinnovava il medesimo tema: l’alpinismo invernale. Quali gli obiettivi da selezionare per il nuovo inverno? All’inizio di ogni stagione io ne avevo in mente molti, ma il problema era sempre lo stesso: poco tempo da dedicare a questa attività, che invece ne richiedeva molto. Bisognava poter partire quando in montagna c’erano le condizioni favorevoli e le previsioni erano buone; inoltre occorreva avere alcuni giorni a disposizione per fare fronte a eventuali bivacchi. Tali esigenze aumentavano ancora se l’obiettivo prescelto si trovava nel massiccio preferito, quello del Bianco. La conoscenza approfondita del Gruppo, abbinata alla grande voglia di fare, mi consentirono spesso di ottenere successi importanti malgrado i condizionamenti appena elencati.
Per l’inverno ’71-’72, con Gian Piero avevo progettato di salire l’ardito Pilier a Tre Punte al Mont Blanc du Tacul per la via aperta da Enrico Cavalieri, Andrea Mellano, Romano Perego e Beppe Tron, nell’agosto del 1959. L’itinerario si svolgeva su splendido granito rosso, contava una sola ripetizione ad opera di Guido Machetto e Beppe Re, e risultava essere molto bello.
In verità la meta non era nuova per noi: avevamo già condotto un tentativo l’inverno precedente, fallito a causa del maltempo. Ricordo che, in quell’occasione, quando arrivammo alla base della parete, nuvole minacciose cominciarono a coprire il cielo; metà della comitiva optò per un ripiegamento immediato: io, con il mio compagno di cordata, volli comunque attaccare e dopo due lunghezze di corda ci trovammo immersi in una fitta nevicata e dovemmo desistere. Riattraversammo la Vallée Blanche nella nebbia più fitta e con la neve che scendeva abbondante; quando aprimmo la porta del rifugio Torino, incrostati di ghiaccio, un gruppo di alpinisti ci accolse rumorosamente e uno di loro, la guida Enrico Mauro, mi si avvicinò porgendomi una borraccia e dicendo: «Bevi, è solo acqua di ghiacciaio».
Io, assetato, tracannai con ingordigia il liquido e… alla terza sorsata mi accorsi che si trattava di grappa.
Il secondo tentativo fu assecondato da tempo splendido. Eravamo in quattro: Gian Piero ed io formavamo una cordata, l’altra era composta da Gian Carlo Grassi e dal biellese Miller Rava. Il nostro progetto consisteva nel salire in funivia al Colle del Gigante con la prima corsa del sabato, portarci con gli sci alla base della parete, attaccare la via, salire fino al sopraggiungere delle tenebre, bivaccare in parete, completare la salita e scendere nella giornata di domenica. Tutto si svolse come previsto: breve discesa con gli sci nella Vallée Blanche, poi risalita fino alla crepaccia terminale sotto la parete del Tacul. Il sole era scomparso dietro la cresta delle Aiguilles du Diable e faceva molto freddo, il ripido pendio che portava alle rocce era di ghiaccio traslucido, durissimo e fragile.
Per tacito accordo, quando ero legato con Gian Piero, il ghiaccio era riservato a me: mi avviai perciò sul pendio scavando gradini per i piedi e tacche per le mani. Alle rocce mi fermai e il mio amico mi raggiunse: non stava bene, aveva un forte mal di testa e un po’ di nausea; continuai perciò ad andare io davanti e, salendo lungo diedri intasati dalla neve, giungemmo a una cengia nevosa quando ormai era notte. La seconda cordata si unì a noi: anche Gian Carlo non si sentiva bene. Con due indisposti rannicchiati da un lato, assicurati ai chiodi da roccia, Miller ed io cominciammo a sbancare il pendio per ricavare la piazzola sulla quale rizzare le tendine da bivacco.
Scavammo con i martelli e piccozze spalando con il casco la neve rimossa; sotto la crosta ghiacciata trovammo farina leggera e rapidamente riuscimmo a ricavare un ripiano sufficiente per le due piccole tende; Gian Carlo e Gian Piero intanto si erano ripresi e parteciparono all’ultima fase dei lavori. Quando fummo tutti rintanati nei piccoli ripari, a sorbire le bevande ricavate dalla fusione della neve, arrivò anche l’allegria e, malgrado il gran freddo, scherzammo e ridemmo a lungo finché l’atteso sonno catturò i pensieri trasformandoli in sogni, liberi dalla prigionia di quella sistemazione.
L’alba sorse in un tripudio di luce; l’esposizione della parete consentì ai raggi del sole appena sorto di raggiungere il nostro bivacco e sopra di noi il granito divenne color del fuoco. Uscimmo dalle nostre tende infreddoliti, ma con tanta voglia di riprendere l’arrampicata; battendo i denti ci preparammo, riducendo al minimo i pesi da portarci appresso, poi affrontammo la salita divisi in due cordate. La scalata fu di grande soddisfazione, su roccia saldissima e, più leggeri del giorno prima, progredimmo veloci caricandoci a vicenda con esclamazioni di entusiasmo per la bellezza del luogo e per la magnifica arrampicata. Il nostro equipaggiamento comprendeva i pesanti scarponi doppi per proteggere i piedi dal freddo e i movimenti non erano certo quelli morbidi ed eleganti tipici della moderna arrampicata sportiva; si ricorse spesso all’artificiale e la progressione fu rude e faticosa, ma sempre entusiasmante. Toccammo la vertiginosa vetta del Pilier, poi scendemmo lungo la via di salita calandoci nel vuoto mentre la parete andava lentamente in ombra e il freddo ritornava pungente.
Fu una bella avventura, condotta alla corsara, sfruttando al meglio il poco tempo a nostra disposizione. Ripenso con nostalgia ai miei tre compagni che oggi, nel ricordo, mi sembrano perfetti e meravigliosi; scorrendo nel film della memoria l’immagine dei loro volti mi sento invadere dalla commozione. Erano tutti più giovani di me e nessuno di loro è ancora in vita: Miller venne travolto da una valanga in Himalaya, Gian Piero si tolse la vita e Gian Carlo cadde in un canale di neve nell’Appennino.
Ripensando alle sofferenze, ai rischi, ai compagni morti in montagna, ogni tanto mi chiedo: «Ma perché? Ne vale la pena?». Non ho nessuna risposta a questa domanda: come in preda alla dipendenza di una droga, dopo ogni avventura mi sento spinto irresistibilmente a cercarne un’altra, così avanti, senza certezze né dubbi, come un masso che rotola lungo una china senza fine.
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