Project Victory

Project Victory
(nuova audace via sulla parete nord del Pik Pobeda in Kirghizistan)
di Gleb Sokolov
pubblicato su The American Alpine Journal, 2010)
Traduzione dal russo all’inglese: Ekaterina Vorotnikova

Sopra la mia testa c’è un forte botto, come se una porta gigantesca si stesse chiudendo sbattendo. Il turbine nevoso si condensa in uno sciroppo schiumoso. “La cosa più importante è non respirare… non respirare!”. Stringo la mia piccozza e premo la testa contro il ghiaccio. Una massa di neve rimbomba e sibila, tirandomi le gambe dolcemente ma con insistenza. Pochi secondi dopo, altra neve. Mi scrollo di dosso la polvere e i miei pensieri galoppano: se fossi stato un metro più in basso, sarebbe finita… Vitalya non avrebbe potuto trattenermi… la roccia mi ha protetto… non c’è posto per la tenda… questo è brutto, ma dove è meglio?”.

(1) Pik Pobeda 7439 m da nord; (2) Pobeda West 6918 m, con lo sperone Medzmariashvilli (1961) evidente sull’estrema destra. Al centro è segnata la linea del Camel Buttress. Dopo otto giorni su questa parete di 2000 metri, Vitaly Gorelik e Gleb Sokolov continuarono verso la vetta ma furono respinti da condizioni proibitive verso il Pobeda West e scesero lungo la Medzmariashvilli Route in una terribile bufera. Foto: Roger Payne.

È quasi buio, anche se deve mancare almeno un’ora al tramonto. Nell’oscurità e nella neve che soffia, riesco a malapena a vedere il mio compagno in piedi sotto una parete rocciosa a 20 metri alla mia sinistra. Dall’alto, a sinistra e a destra, arriva il fragore di grandi valanghe. Mentre quella dopo vola su di me, mi premo di nuovo contro il ghiaccio. Devo tornare da Vitalya. Non è che da lui si possa piazzare una tenda, ma almeno questi pazzeschi treni di neve non gli passano accanto. Le valanghe sembrano cadere ogni tre o quattro minuti. Subito dopo l’ultimo salto da dietro la protezione della roccia, corro attraverso il canale innevato e arrivo alla sosta mentre il rombo annuncia l’arrivo del prossimo treno.

“Hai guardato a destra? Come sono le cose lì?”
“Merda totale. Un fiume di valanghe”.
“Quindi, dobbiamo scavare proprio qui.”

Un ghiacciaio è sospeso in alto; chissà cosa potrebbe rompersi con questo tempo orrendo. Avevamo programmato di passare la notte molto più in alto e più a destra, in un luogo relativamente sicuro, ma le condizioni e il tempo hanno deciso diversamente. La bufera di neve non si ferma. Tritiamo il ghiaccio brutalmente duro per tre ore alla luce della lampada frontale, cercando di ricavare una piattaforma della tenda. Siamo sul ripido e il lavoro procede lentamente. Alla fine, arrivati alla roccia, dobbiamo accontentarci di uno stretto ripiano, con metà della nostra minuscola tenda sospesa nell’aria. La ancoriamo alla roccia e fissiamo sopra di essa un materassino per deviare la neve.

La nevicata non è così spaventosa adesso, e alle 22.30 entriamo al riparo. Ancoriamo tutto: zaini, scarponi, guanti. Beviamo e mangiamo il più possibile; siamo ancora solo a 5400 metri, e abbiamo fame. Verso l’una di notte ci mettiamo a dormire, uno di fronte all’altro su un unico materassino. Ognuno di noi ha un piumino e mezzi sacchipiuma ci coprono le gambe. Non abbiamo ancora freddo. La montagna rimbomba tutta la notte, ma gradualmente si calma. Al mattino le valanghe hanno smesso di scuotere la nostra squallida dimora.

La mia ossessione per questa linea su Pik Pobeda è iniziata quattro anni fa, ma in realtà risale al lontano 1976. Fu allora che, in una libreria antiquaria, comprai per caso The Spring Behind Nine Ranges, un semplice libro con immagini in bianco e nero che ha cambiato il corso della mia vita. “L’anziano colonnello piangeva nella tenda. Ha pianto, perché ha scalato il Pobeda, e perché è tornato dal Pobeda…”. Quelle foto del Pik Pobeda – il nome significa “vittoria” – mi hanno afferrato e non mi hanno mai lasciato andare. Non appena arriva l’estate, come un vecchio cavallo del reggimento che reagisce al suono di una tromba, non vedo l’ora di andare in un solo posto: il ghiacciaio South Inylchek, sotto il Pobeda.

Vitaly Gorelik studia la parete nord del Pik Pobeda due giorni prima di partire per l’impresa, Foto: Gleb Sokolov.

Dal 2006 Vitaly Gorelik ed io avevamo concentrato i nostri pensieri sulla parete nord della “nostra” montagna. Il nostro obiettivo era una nuova linea tra la Dollar Route (Smirnov, 1986) per la vetta principale del Pobeda 7439 m e la via classica per il Pobeda West 6918 m (Medzmariashvilli, 1961). Stando sul Dikiy Pass, ai piedi della Medzmariashvilli Route, si può vedere un vago contrafforte sulla parete nord che conduce direttamente al Camel, un picco minore sulla cresta ovest del Pobeda. Si chiama il Cammello perché le enormi cornici conferiscono all’orizzonte una caratteristica forma a gobba; è un nome appropriato, ma come la maggior parte dei cammelli è vizioso e traditore. I pendii meridionali sono soggetti a valanghe che possono rappresentare un serio pericolo se si vuole salire alla vetta del Pobeda per la sua cresta ovest. A nord, dove si trova il nostro percorso, anche il Camel è soggetto a valanghe. Speravamo di raggiungerlo per fasce di roccia bruna o nera, a volte giallastra. Le pareti strapiombanti di ghiaccio su entrambi i lati di queste rocce ci hanno ricordato le folte ciglia di certi ex leader del nostro paese. Assieme alla neve che si accumula sulla parete con il cattivo tempo, rappresentavano un serio pericolo.

Vitaly ha 42 anni e vive nella meravigliosa Akademgorodok, ed è il mio vicino di casa. Assieme a vari amici, festeggiamo le vacanze, beviamo, sciamo e scaliamo le montagne. Nel 2007 abbiamo scalato insieme la parete ovest del K2. Vitaly è uno scalatore eclettico, affidabile sia su roccia che su ghiaccio. Era senza dubbio il leader del Pobeda.

La montagna aveva sconfitto facilmente i nostri primi due tentativi, nel 2006 e nel 2008. Ogni volta, una pazzesca nevicata era iniziata la notte prima che iniziassimo a salire. Ci siamo svegliati con una cacofonia di valanghe ininterrotte e siamo corsi giù per il ghiacciaio, mentre il Pobeda brontolava e sospirava, come per dire: “La prossima volta, ragazzi, non sono dell’umore giusto”. Ma mentre salivamo sull’elicottero per lasciare il campo base, il Pobeda ci regalava un sorriso solare. “Ci vediamo la prossima estate, ragazzi!”

Nel 2009, adattandoci alla montagna, abbiamo posticipato il nostro arrivo di una settimana e mezza, per non iniziare a scalare la parete fino alla fine di agosto. Per raggiungere la vetta del Pobeda serve un ottimo acclimatamento, e di solito vado in Himalaya per scalare un facile 8000, oppure salgo il Khan Tengri due o tre volte, prima di tentare il Pobeda. Avevo già scalato il Manaslu nel 2009 e Vitaly si era acclimatato velocemente, quindi avevamo programmato una sola salita del Khan Tengri.

A metà agosto eravamo stati sulla vetta del Khan Tengri, a circa 7000 metri, ci siamo riposati e ci siamo preparati a incontrare la nostra vera meta. Il tempo cominciò a peggiorare, con qualche nevicata ogni pomeriggio. Questo ha suonato l’allarme: dovevamo sbrigarci. La parete nord non riceve molto sole e un’enorme tempesta può chiudere la montagna per la stagione.

Gorelik in testa su ghiaccio durissimo durante il secondo giorno sullo sperone Camel. Foto: Gleb Sokolov.

Il 18 agosto saliamo sul ghiacciaio in elicottero e camminiamo per diverse ore fino al campo base avanzato sul ghiacciaio sotto il passo Dikiy. La giornata è luminosa ma non molto calda. Ci avviciniamo per dare un’occhiata all’approccio. La crepaccia terminale sembra essere per lo più coperta di neve: difficile, ma possibile. Ci sono poche tracce fresche di valanghe o caduta di ghiaccio, il che alimenta le nostre speranze. La sera beviamo una birra, mangiamo e parliamo un po’ prima di dormire. Nella notte inizia a nevicare.

È di nuovo la fine? Dovremmo tornare al campo base per consolarci con parole comprensive che però non possono consolare mai? Siamo soffocati dalla rabbia e dalla delusione. Beviamo il tè e decidiamo di sederci nella tenda per un giorno. Di tanto in tanto la tenda svolazza al vento delle valanghe vicine. Aspettiamo un miracolo. Se torniamo indietro, non ci sarà tempo per un nuovo tentativo.

E il miracolo accade! Dopo mezzogiorno la nevicata cessa, la nebbia scompare e la muraglia finalmente diventa silenziosa. Le stelle brillano nel cielo serale blu scuro. È assolutamente silenzioso.

La mattina presto del 20 agosto 2009 ci affrettiamo per i due chilometri lungo la base della parete, esposta ai pericoli dall’alto. “Sbrigati” è un’esagerazione. La neve alta fino alle ginocchia ci rallenta, ma ci muoviamo il più velocemente possibile verso la crepaccia terminale. Sotto la sua protezione riprendiamo fiato, beviamo un sorso dal thermos e riprendiamo rapidamente a muoverci. Per ora la parete tace. La terminale non è colma come sembrava dal basso. Ci vuole un’ora e mezza per superare in artificiale una parete strapiombante di cinque metri. A mezzogiorno c’è un’enorme valanga di ghiaccio alla nostra sinistra, e due ore dopo una grande valanga di polvere da destra attraversa le nostre tracce sottostanti. La montagna sta facendo uscire i suoi cani da guardia.

Sopra la seconda crepaccia terminale siamo assolutamente sprotetti su un pendio nevoso, quindi saliamo verso il riparo di alcune rocce. Avevamo sperato di salire molto di più oggi, almeno fino al livello del seracco che ora è sospeso sopra di noi. Appena arriviamo alle rocce, la neve ricomincia a cadere (nevica già da un po’ di tempo nelle vicinanze del Pobeda West, quasi due km più in alto). Il Pobeda si è svegliato e ha cominciato a brontolare. È ora di cercare un riparo.

Quarto giorno. Difficile scalata su misto a circa 6000 metri sulla fascia di rocce gialle e marce. Foto: Gleb Sokolov.

Siamo esausti per le avventure del giorno precedente e non vogliamo alzarci. Non c’è vento e il sole splende, ma all’ombra abbiamo freddo. Quando accendiamo il fornello, il ghiaccio che ricopre la nostra tenda evapora. Dopo colazione strisciamo fuori nell’aria gelida. Quel ghiacciaio è ancora sospeso sopra le nostre teste. Dovremmo uscire di qui.

Saliamo verso destra. Il ghiaccio è straordinariamente duro, come una lastra d’acciaio, anche se dal basso sembrava un névé. Lentamente ci arrampichiamo fuori dal pericolo del ghiacciaio di sinistra, solo per ritrovarci in pericolo sotto quello di destra. Ci stringiamo accanto a rocce che creano un’illusione di sicurezza. Il crepuscolo ci sorprende su un ripido pendio di ghiaccio duro. Non si può fare nulla al riguardo, ma almeno è relativamente sicuro. Piccozziamo il ghiaccio all’infinito per scavare un terrazzino. A mezzanotte cerchiamo di metterci comodi nella nostra casa angusta, sciogliendo il ghiaccio per l’acqua e preparando la cena. Il cielo notturno è sereno, e questo è bello, ma fa troppo freddo.

Il terzo giorno è molto simile al secondo. Ancora una volta saliamo su ghiaccio ripido, quasi impenetrabile. Lavoriamo lentamente, ma gradualmente usciamo dal terreno esposto alle scariche più pericolose. Trascorriamo la notte sotto una fascia di roccia gialla, il punto che speravamo di raggiungere il primo giorno. Come sempre, lavoriamo fino a tardi e entriamo nella tenda solo verso mezzanotte. Il terrazzino supporta solo metà della tenda. Potremo sdraiarci fianco a fianco solo per due notti su sette su questa via… I nostri polpastrelli si stanno spaccando per tutto il lavoro che facciamo con le mani semicongelate, ed è disperatamente difficile maneggiare l’accendino per accendere il fornelletto. Solo dopo esserci riscaldati dentro i sacchipiuma possiamo accendere l’accendino e quindi accendere il gas.

Ora finalmente iniziamo a scalare la parete rocciosa superiore, se quella può essere chiamata roccia. Possiamo intagliare appigli nella pietra gialla marcia con i nostri attrezzi da ghiaccio; l’odore di zolfo ci riempie le narici. Gli ancoraggi di sosta fanno paura. Le prese si rompono sotto le nostre mani e i nostri piedi. E ora il tempo peggiora di nuovo. Il vento soffia e gli spindrift scorrono lungo l’intera muraglia. Finiamo la fascia di rocce gialle al buio. Di nuovo, non c’è posto per la tenda. A circa 6000 metri, alla luce delle lampade, troviamo un pezzo di roccia abbastanza orizzontale da far sedere due persone. Ci montiamo su la tendina, ma nella notte  più volte ci ritroviamo con il sedere nel vuoto.

Grazie a Dio, il tempo è del tutto calmo e soleggiato la mattina del nostro quinto giorno in parete. Anche se siamo ancora all’ombra, è bello. Possiamo persino scattare foto. Ho una semplice fotocamera inquadra e scatta (la chiamiamo “portasapone”); una buona macchina fotografica è troppo pesante e scomoda per una scalata a due. Con un portasapone a volte puoi scattare belle foto con una mano. Scaliamo rocce semi-marce tutto il giorno. Sicuramente non è facile, ma è un piacere rispetto al giorno precedente. Alla fine della giornata, ci ricaviamo un meraviglioso ripiano per la tenda in un pendio névé. Beviamo e mangiamo, al recupero rispetto ai giorni precedenti.

Gorelik in testa su difficile terreno di arrampicata mista, ormai molto in alto in parete. Foto: Gleb Sokolov.

Il giorno seguente il tempo è di nuovo freddo ma sereno, e tutto il giorno arrampichiamo su roccia innevata. È ripido, ma la roccia è migliore e le camme e i chiodi forniscono una buona protezione (in questa salita abbiamo incontrato cinque diversi tipi di roccia). Spesso ci assicuriamo usando viti da ghiaccio nei canali ghiacciati tra rocce pittoresche: assomigliano a doccioni stravaganti. Intagliamo la neve da una crestina di névé a 6500 metri e ci godiamo la nostra seconda notte buona consecutiva.

Al mattino, invece, il tempo è peggiorato. È il nostro settimo giorno di parete – speravamo di salirla in cinque – e la cresta finale non è molto al di sopra: ma un’ultima fascia rocciosa è davvero ripida e ricoperta da un sottile strato di ghiaccio. L’arrampicata è estremamente difficile. Dobbiamo pendolare un paio di volte. Di tanto in tanto Vitaly deve calarsi dalla sosta appena raggiunta e risalire a jumar con il suo zaino sulla schiena. Grazie a Dio, la roccia è solida. Piccole valanghe di neve polverosa non ci danno mai l’opportunità di rilassarci. Quella notte non c’è posto per la tenda, e torniamo alla vecchia routine, ammucchiando la neve su una lastra di roccia, cercando di livellare una piattaforma. Dentro la tenda è bagnata dal nostro alito, e fatichiamo ad accendere il fornello. Non riusciamo ad accendere i fiammiferi e ci fanno troppo male le dita per accendere con l’accendino. Ci arrendiamo quasi e restiamo sdraiati tremanti nei nostri sacchipiuma. Ma un’ora dopo, dopo esserci un po’ ripresi e dopo aver riscaldato gli accendini, riusciamo ad accendere il fornello per sciogliere la neve e cucinare qualcosa. Immediatamente il mondo cessa di essere così terribile. La vita è bella.

Sopra, possiamo vedere la cresta nevosa che porta al Cammello. Ma presto avremo a che fare con la famigerata neve del Tien Shan e con il ghiaccio duro sottostante. Quando calpesti tale neve, non resta lì consolidata ma scorre invece diretta sull’assicuratore. Dobbiamo lavorare con la massima prudenza per non staccare goffamente l’intero pendio. Piano piano strisciamo verso l’alto. I nostri arti sono come braccia robotiche sotto la guida di un processore mezzo morto. La trincea che abbiamo scavato poteva essere vista con il cannocchiale dal campo base, a molti chilometri di distanza, ma nel tardo pomeriggio nevicava forte e la trincea è stata cancellata.

Sembra che dobbiamo essere vicini alle cornici del Cammello, ma non si vede nulla. Navighiamo a sensazione. Il vento soffia via il calore da noi. Va bene quando calpestiamo i piedi nella neve e saliamo, ma non appena ci fermiamo per assicurarci ci sentiamo condannati. Ad un certo punto, durante l’incubo della bufera di neve, per una frazione di secondo il Camel è illuminato dal sole della sera, un gigante rosa-grigiastro. Ci vogliono altre due o tre ore per raggiungere la cresta. Non c’è posto per la tenda, quindi senza discutere continuiamo lungo il crinale, girando sotto il lato sud del Camel. Solo pensieri primitivi occupano la nostra mente: “Attenzione… speriamo di non cadere… Dio, aiutaci…”. Alle 23, dopo aver traversato lungo pareti verticali, ci ritroviamo in cima alla cresta. Ancoriamo la tenda con viti da ghiaccio, in modo che non venga spazzata via dai venti dell’uragano. Ci dimeniamo nei sacchipiuma con addosso gli scarponi; se la tenda dovesse lacerarsi, vogliamo essere pronti.

Settimo giorno, finalmente roccia migliore. Ma il meteo precipita. Foto: Vitaly Gorelik.

Al mattino, 28 agosto, l’uragano soffia ancora. Non discutiamo nemmeno se andare sulla vetta principale del Pobeda, anche se in buone condizioni ci sarebbe voluta solo un’ora e mezza. Vogliamo solo scappare, sopravvivere. Alle 8 del mattino non c’è visibilità. Alle 10, nessuna visibilità. Alle 12, nessuna visibilità. Siamo nella tenda sdraiati con i vestiti addosso, così possiamo fare una fuga non appena si schiarisce. Finalmente, alle 14, otteniamo un po’ di visibilità. Raccogliamo immediatamente le nostre cose e iniziamo a tornare indietro lungo il crinale verso il Pobeda West, verso casa.

Le nuvole si precipitano verso di noi; la cresta sembra infinita. Spesso dobbiamo fermarci ad aspettare piccoli spiragli tra le nuvole, per non deviare dal crinale. La nostra energia e le nostre forze sono svaniti. Alla fine svoltiamo al largo del Pobeda West e perdiamo rapidamente quota. Trascorriamo un’altra notte fuori, a 6400 metri, tra grandi massi. Abbiamo finito il gas e le batterie sono scariche. Il vento squarcia la nostra tenda come un cane che strappa un tappeto.

A tarda notte, nel decimo giorno, raggiungiamo il campo, gli amici, il calore, il tè e la vodka. Quando ci svegliamo il giorno dopo, siamo stupiti di scoprire che nessuno di noi due ha congelamenti. Abbiamo perso dai 12 ai 14 kg ciascuno. Il tempo peggiora ancora e dobbiamo aspettare quattro giorni prima che un elicottero ci possa prendere e riportare a casa. Solo in quel momento rivediamo la montagna: assolutamente bianca.

Vitaly Gorelik (a sinistra) e Gleb Sokolov. Gli scalatori hanno perso dai 10 ai 12 kg di peso ciascuno nei 10 giorni dell’impresa. Foto: Gleb Sokolov.

Sommario
Area: Tengri Tag, Kirghizistan
Ascensione: prima salita in stile alpino di Camel Buttress (circa 2.000 m, 6B) sulla parete nord del Pik Pobeda, Vitaly Gorelik e Gleb Sokolov, 20–29 agosto 2009. I due uomini hanno trascorso otto giorni a scalare la parete e terminato sulla cresta ovest a circa 6950 m. Sono scesi attraverso la Medzmariashvilli Route sulla vetta di 6918 m del Pobeda West (Vazha Pshavela Peak).

Una nota sull’autore
Gleb Sokolov, 55 anni al momento di questa salita, vive a Novosibirsk, in Russia, e lavora come fotografo. Ha completato più di 50 ascensioni di vette di 7.000 metri, tra cui una salita in velocità ai 7439 m del Pik Pobeda (20 ore) e una traversata solitaria di otto giorni del massiccio. Nel 2003 ha salito una nuova via sulla parete nord del Pik Armenia a 7100 m, proseguendo poi fino alla vetta del Pobeda.

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Project Victory ultima modifica: 2023-03-09T05:06:00+01:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Project Victory”

  1. Il miglior riconoscimento per la fatica fatta è ciò che si diventa grazie ad essa…”Goditi la vita. C’è un sacco di tempo per essere morto” (Hans Christian Andersen).

  2. Perdere un chilo di peso al giorno non è per nulla salutare. Mens sana in corpore sano si diceva, ergo…..questi dono dei pazzi. Complimenti

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