Può rinascere l’amore?
di Enrico Camanni
(dalla sua pagina facebook, 12 dicembre 2019)
Prima di diventare la città dell’automobile Torino era la città delle Alpi. La montagna era scolpita nel codice genetico delle famiglie borghesi, nel messaggio liberale di Quintino Sella, nella cultura cattolica di Pier Giorgio Frassati, nella passione laica delle associazioni escursionistiche proletarie, in tanti amori di diversa provenienza. Il legame si è sciolto nel corso del Novecento, come quando cala il vento del nord e i profili delle Alpi sfumano nel grigio delle ciminiere.
I nomi spiegano l’intensità della relazione. La regione è il Pié monte, che vuol dire “al piede della montagna”, e gli abitanti sono i Taurini, un appellativo che viene da Taur, monte. Gli antichi torinesi erano “abitanti dei monti”. Torino è l’unica metropoli al mondo circondata come un golfo da quattrocento chilometri di creste, dai quasi quattromila metri del Monviso agli oltre quattromila del Gran Paradiso e del Monte Rosa, con la vela bianca del Rocciamelone in mezzo alla scogliera. Fino alla seconda metà dell’Ottocento le Alpi sono state al centro dei pensieri, degli scambi e dei sogni. Per secoli, prima di diventare uno sfondo da cartolina, hanno rappresentato il cuore geografico del Ducato di Savoia e del Regno di Sardegna; un collante di rocce e stili di vita univa Chambéry e Torino sotto un solo governo. Anche la sindone ha attraversato le Alpi.
L’unità politica transalpina si rompe alla vigilia dell’Unità d’Italia, quando Cavour cede Nizza e la Savoia ai francesi in cambio di aiuto diplomatico e militare. Nasce un confine dove non c’era, e i torinesi cominciano a pensare che al di là delle Alpi abiti lo straniero. Le cime diventano sentinelle della nazione e Quintino Sella, il ministro alpinista, si adopera per strappare il Cervino agli inglesi. Quando lo stesso Sella, nell’ottobre del 1863, fonda il Club Alpino al Castello del Valentino riunisce tre anime della città: alpinisti, scienziati e patrioti. Il CAI nasce sui valori dell’alpinismo e cresce nell’ideale della patria.
Non è che uno dei tanti parti torinesi. Anche lo sci arriva a Torino alla fine dell’Ottocento, grazie ad Adolfo Kind; il Club Alpino Accademico nasce in città nel 1904 e segna l’emancipazione degli alpinisti dalle guide valligiane; la Giovane Montagna è fondata nel 1914 dai ragazzi che fanno montagna da buoni cristiani. Alfredo Frassati, senatore del Regno e fondatore de La Stampa, nel 1887 scrive sulla Gazzetta del Popolo della Domenica che «le Alpi sono l’ultimo ma invincibile e fortissimo baluardo d’Italia nostra. Vinti al piano, ci rimane ancora una speranza in alto…». Il figlio Pier Giorgio, futuro beato della Chiesa, risponde che le «ascensioni alpine hanno in sé una strana magia, che per quante volte si ripetano e per quanto si assomiglino tra loro, non vengono mai a tedio, nel modo stesso che mai ci tedia l’eterna vicenda della primavera…». Il giovane Frassati muore per un attacco di poliomelite senza riuscire a scalare il Cervino dei suoi sogni.
Anche il socialismo umanitario torinese è legato alle Alpi. Edmondo De Amicis, padre dello scalatore Ugo, è vicino agli ideali del Club Alpino e dall’albergo Giomein ai piedi del Cervino benedice l’alpinismo come una religione laica. Gli fa eco lo scrittore e alpinista Guido Rey, con la famosa dichiarazione «credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede».
Intanto si afferma l’industria pesante e Torino diventa la città delle fabbriche. La montagna dà sempre meno pane e i montanari sono utili braccia per le presse, dove il raccolto non dipende dalla bontà del sole e delle piogge ma è occupazione garantita, posto fisso, sudore a catena. Mentre i valligiani scendono in pianura in cerca di lavoro, i cittadini salgono in vetta a cercare l’emozione e lo sport. Due esodi opposti percorrono le valli, chiudendo l’epoca austera della civiltà alpina e aprendo il tempo scanzonato del turismo. Chi va incontro alla fabbrica e chi la fugge, almeno per una boccata d’aria fresca.
I vecchi ideali sbiadiscono senza scomparire. Mentre il fascismo incoraggia la maschia pratica della montagna e organizza l’educazione alpina di massa, le famiglie antifasciste torinesi rivendicano la loro diversità. Secondo Vittorio Foa «esiste un’altra retorica, forse più sottile, per cui la montagna diventa elemento distintivo di gente che si considera diversa dagli altri perché non cerca né la mondanità né l’esibizione». La montagna di certa borghesia torinese è incompatibile con il fascismo per una ragione di stile, come testimonia Natalia Ginzburg nel Lessico famigliare alludendo al padre Giuseppe Levi: «Non era consentito, nelle gite in montagna, né cognac né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva, “roba da negri”; e non era consentito fermarsi negli châlet, essendo una negritura… Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia “i negri” che andavan su leggeri in scarpette da tennis…».
Per Massimo Mila, nel Capitolo primo e ultimo di un’autobiografia alpina, si tratta di un’iniziazione materna: «La persona che mi avviò alla montagna fu quella che più tardi avrebbe dato qualunque cosa per allontanarmene, cioè mia madre. Era giovane e robusta, nel 1920, quando una mattina sì e una no, durante la villeggiatura alpina a Coazze, mi tirava giù dal letto di buon’ora e dopo avermi somministrato il caffè-latte con l’uovo sbattuto mi guidava in lunghe galoppate mattutine…».
Poi viene la Resistenza e le Alpi diventano, anche fisicamente, un rifugio di libertà. Per comprendere i valori della montagna ridisegnata dai partigiani bisogna leggere le righe di Primo Levi su Sandro Delmastro, ucciso dai nazifascisti: «Sandro portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del CAI, tutta sbertucciata… Non la portava perché ci credesse: anzi, per la ragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo…».
Soprattutto tre uomini hanno segnato l’alpinismo subalpino del Novecento avanzato: Giusto Gervasutti, Guido Rossa e Gian Piero Motti. Il friulano Gervasutti ha portato l’arte della scalata dolomitica sui gelidi terreni delle Alpi occidentali, aprendo itinerari memorabili e diventando un caposcuola. L’alpinista Rossa, operaio e sindacalista, ha risvegliato nei torinesi l’amore per la disubbidienza e il libero pensiero, prima di trasferirsi a Genova ed essere barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse. Motti ha raffinato le trasgressioni di Rossa dando vita al Nuovo Mattino, un soffio d’aria fresca nella palude retorica della montagna eroica. Infine negli anni Settanta e Ottanta del Novecento è arrivata la primavera dell’editoria alpina torinese, a fianco di altre grandi intuizioni come le Comunità montane e i Parchi naturali regionali.
La metropoli ha spesso guardato alle montagne secondo logiche di “conquista”, occupando con le fabbriche le basse valli o esportando la città in quota – com’è accaduto con l’invenzione di Sestrière e dei distretti della neve –, ma oggi la crisi della fabbrica e l’emergenza climatica ripropongono le Alpi come uno spazio essenziale da difendere e abitare. Torino è un’altra città, e le Alpi sono sempre lì. Nascerà un nuovo amore?
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Mi è capitato tra le mani qualche anno fa un libro molto bello di uno storico dell’ambiente Marco Armerio, Le montagne della patria, edito da Einaudi. E’ una carrellata storica sulle “narrazioni” relative alla montagna che hanno accompagnato la storia del nostro paese e le politiche sull’ambiente montano adottate dai vari governi negli ultimi due secoli. E’ una miniera di cose interessanti. C’è tutto un capitolo tutto dedicato proprio all’ambientalismo fascista, alla figura di Arnaldo Mussolini e all’ambiente torinese di quell’epoca, alle figure di De Amicis e Rey, alle polemiche sulla strada Breuil – fondo valle, all’idea di costruire un ascensore dentro il Cervino, su cui proprio Camanni ha scritto un libro. Se uno ama storicizzare (Vedi anche articolo di oggi di Mauro Calibani) e capire il retroterra degli ambienti in cui ci muoviamo è un libro davvero prezioso.
In effetti è proprio così, lo conferma anche la mia esperienza personale. Io ho lavorato a Milano per due anni, fra l’89 e il ’91, trasferendomi in toto: dopo una prima ondata di entusiasmo per la vita frenetica e frizzante (era la “Milano da bere”: feste, vernissage, sfilate di moda… e poi idee professionali, dinamismo, danè che girava a mille), una vera sbornia cui non ero abituato per colpa del mio provincialismo sabaudo, alla fine non vedevo l’ora che terminasse il contratto che mi “teneva” a lavorare a Milano e, appena possibile, sono letteralmente scappato indietro. Da allora (e sono ormai 30 anni) non ho più spostato il mio baricentro esistenziale torinese (famiglia, lavoro, amici): in effetti sono un indiscutibile esempio di “bougia nen”. Gli amici milanesi “alpinisti” (alcuni risalgono ai quegli anni) mi piace incontrarli in territorio neutrale, facciamo gite in VdA, in Svizzera, nelle Alpi centrali. Terminata la gita, loro riprendono la strada per Milano e io me ne torno nella mia sonnolente Torino. Anche nella scelta delle gite spesso emergono criteri differenti, conseguenza delle diverse mentalità. Però l’articolo è incontrato sul solo rapporto di Torino con la montagna. Credo che una testimonianza diretta, come la mia, sia un elemento di ulteriore conoscenza per chi non ha mai frequentato di persona l’ambiente alpinistico subalpino, nei suoi diversi (e complicati) risvolti. Ciao!
Il tuo commento Roberto è la migliore chiosa per questo articolo. Davvero una bella analisi che, dopo decenni di vissuto a Milano, mi trova molto d’accordo.
Come molti piemontesi di frontiera ho frequentato Torino e Milano, prima di trasferirmi definitivamente in quest’ultima. Torino rispecchia anche nell’andare in montagna quell’estremismo frutto della divaricazione sociale che l’ha caratterizzata a partire dal secolo scorso. Da un lato gli operai in periferia e dall’altro l’aristocrazia e la borghesia in collina. E sopra tutti le due corti, prima i Savoia e poi gli Agnelli. Questa divaricazione netta ha radicalizzato tutti gli aspetti della vita sociale, dalla politica alla montagna, dando un’impronta rigorista che ha accomunato i due schieramenti, che su questa base comune probabilmente si sono anche incontrati in montagna. Questo carattere è stata una risorsa ma anche un limite, impedendole di sviluppare una reale capacità integrativa di chi veniva dall’esterno e un’imprenditoria diffusa, che solo dopo la crisi FIAT ha cominciato a svilupparsi. Girando per la città si percepisce il suo carattere serio, dignitoso ma anche un po’ chiuso e provinciale. Milano ha sempre avuto un vasto ceto intermedio di artigiani e piccoli imprenditori e una struttura industriale più diversificata che ha rappresentato la base del riformismo e del pragmatismo ambrosiano. Una realtà sociale più articolata e mescolata e anche l’andare per monti ha risentito di questa caratteristica dando luogo ad un alpinismo meno netto e caratterizzato, anche nelle sue diverse scuole di formazione, più articolato sul territorio e più integrativo di stimoli di varia provenienza. La situazione attuale delle due città illustra bene le differenze. Basta farci un giro. Non mi interessava esprimere giudizi comparativi senza senso ma solo sottolineare che l’andare per monti risente della realtà sociale dentro la quale si sviluppa e quindi a mio parere va relativizzato evitando ogni atteggiamento agiografico.
Per essere migliori bisogna vedere nelle montagne la bellezza della natura e dimenticare la prigione delle città. La stessa bellezza che annega nei mari e dilaga nelle campagne. “E il naufragar m’è dolce in questo mare” (Leopardi), nel mare della bellezza!
Può farsi che sia così (puzza sotto al naso), anzi lo è di sicuro per un certo ambiente torinese. Ma chi ci è nato (come me) ne viene intriso fin dall’origine per cui diventa un elemento da cui è impossibile separarsi. Il tutto è relativo e soggettivo: chi osserva da fuori giudica questo atteggiamento come un elemento negativo, chi lo vive visceralmente lo considera addirittura il centro nevralgico del suo amore per le montagne.
Una certa severità di educazione alla montagna come elemento chiave per l’educazione in senso lato è peculiare di un certo risvolto della tradizione torinese. Ed è un fattore trasversale ad ambienti fra loro anchr molto diversi. Se interessati a una rielaborazione di mie esperienze personali sul tema, vi inviterei a ri-leggere il racconto “Pan e ciculata” pubblicato su questo blog nell’inverno 2018-19.
Più in generale, è ovvio che la tradizione alpinistica non sia una prerogativa esclusiva di Torino. Molte altre città o altri contesti sociali e geografici possono vantare una loro tradizione. Quella torinese ha pero’ delle peculiarità tali da generare molti scritti. In ogni caso l’articolo di Camanni è incentrato sul tema torinese ed è per questo che se ne parla nei commenti, senza citare altre città. Non mi pare però che ne’ l’autore né i commentatori abbiano mai imbastito un confronto con altre tradizioni. Ognuno ha la sua storia e titte le storie sono tutte meritevoli di analisi e approfondimenti.
valori della montagna
valori del mare
valori del deserto
valori del lavoro
valore della famiglia
valore della amicizia
valori dello sport
Quanti valori ci sono nella vita!!
Se parli con un marinaio ti dirà di sicuro che in mare ci sono valori importanti. Stessa cosa te lo dirà un abitante del deserto. E via così.
Non è che quelli della montagna sono più importanti di altri. Anche perchè se così fosse, chi c’è nato e vessuto, vorrebbe dire che è megliore degli altri .
Ma non mi sembra che sia sempre così.
Torino ha un legame forte con le sue montagne? Sicuramente. Però mi sembra che anche Genova, pur essendo una città di mare, abbia un forte legame con la montagna. I fatti ed i nomi lo dicono.
Forse Torino si differenzia per una certa forma di aristocrazia di derivazione sabauda….per non dire puzza sotto al naso.
Non voglio rubare altro spazio ai commenti che dovrebbero essere pertinenti allo scritto (così bello) di Camanni. In realtà, indirettamente, il tema se l’andar in montagna “renda” migliori è collegato ad un certo sentimento alpinistico diffuso a Torino. O meglio possiamo dire che in un certo spaccato di alpinisti torinesi (parlo di alpinisti/scialpinisti di livello medio) si ravvisa questo specifico risvolto del sentimento. L’amore di Torino (di una certa Torino) per le montagne è intimamente connesso alla convinzione che l’andar in montagna renda migliori come persone. Migliori in termini di persone cristalline: è per questo motivo che molti di noi torinesi amano così intensamente le montagne. E’ irrilevante se sia fondata o meno, questa convinzione: il solo crederci e il tramandarla agli allievi/figli (spesso le due cose coincidono) ha un preciso “valore” ideologico. Diciamo, più realisticamente, che l’andar in montagna può contribuire a rendere migliori: occorre che ci sia la disponibilità dell’individuo a recepire i valori della montagna e trasmigrarli in tutta la sua esistenza. Altrimenti costui resta quello che era prima di partire per i monti, a prescindere da quanti m di dislivello sale o da quale grado realizza in parete…
magari sbaglio , ma sembra di percepire in questa affermazione , che la montagna ci renda migliori.
Sinceramente non credo. Quello che penso che la montagna, come tanti altri luoghi difficili, faticosi, pericolosi, acutizza le caratteristiche dell’individuo. Nel bene e nel male, forse più nel male. Se sei un merda nella vita di tutti i giorni, lo sei anche in montagna. Quello che fa la differenza è l’individuo.
Ho capito: la “gentilizzazione” è come la “calabresizzazione” e la “tobagizzazione”.
E finanche la “guidorossazione”.
Io non credo assolutamente di essere un caiano, in particolare come lo ha descritto Matteo. Pero’ da predenti dibattiti ho preso nota che esprimere valori “romantici” (sintetizziamoli per semplicità nella famosa “lotta con l’alpe” di G.Rey) viene oggi considerato un atteggiamento negativo, vecchio, obsoleto… in una parola “caiano”. Io non sono per nulla un appassionato delle riunioni con presidenti grassi, ma in effetti (per come sono stato educato da mio padre ancor prima che dal Cai torinese in cui mi sono formato) credo profondamente nel principio che l’andar in montagna sia un fattore che forgia la personalità individuale a tutto tondo. Su questo blog ho pubblicato nel maggio 2019 un post intitolato “Montagna scuola di vita”: il concetto è lì e non lo ripeto. Questa mia convinzione, che per me NON è “caiana”, viene pero’ così tacciata nel web dei giorni nostri, con un taglio dispregiativo. Per me è invece il “vero” valore dell’andare in montagna e tale concezione è molto radicata nell’esperienza torinese, in particolare fra gli alpinisti/scialpinisti di medio livello (compagine cui appartengo io). Non stiamo parlando di top climber, quindi, ma di gente normale che coltiva la passione per la montagna lungo tutta l’esistenza, come un “valore” che sta a fianco delle cose fondamentali della vita quali la famiglia, l’impegno professionale, l’essere cittadini consapevoli e maturi. Tale principio (e qui c’è il collegamento con le riflessioni di Camanni) ha contraddistinto, in particolare nell’esperienza torinese, persone che nella vita di tutti i giorni avevano invece posizioni completamente opposte. Fascisti e antifascisti (le definizioni sono esclusivamente di natura storica e si riferiscono al ventennio), se appassionati di montagna, avevano un linguaggio “comune” che permetteva loro di dialogare, laddove sulla carta avrebbero dovuto solo spararsi. Potrei raccontare diversi aneddoti, ma ragioni di spazio mi inducono a non farlo. Lo stesso principio vale anche per altri periodi storici e tutto sommato anche per i nostri giorni (dove ovviamente “spararsi” va interpretato solo in termini metaforici). Questo è l’amore che io “vedo” nell’esperienza torinese, una caratteristiche che forse è tipicamente accentuata nell’ambiente subalpina e non immediatamente comprensibile da chi non ha mai bazzicato l’ambiente torinese. In conclusione, ripropongo la mia sensazione che tale visione, almeno qui da noi, sia ancora ben presente, anche nelle generazioni più giovani. La qual cosa mi fa tirare un bel sospiro di sollievo. Buona serata!
A Matteo commento 13: Le sai tutte!
“L’Avvocato diceva: Gli italiani devono guardare alle Alpi, non alle piramidi.”
che era il modo migliore affinché lui potesse farsi gli sporchi affaracci suoi!
L’Avvocato diceva: Gli italiani devono guardare alle Alpi, non alle piramidi.
“ulteriore conferma della pluralità di orientamenti che ispirano l’andare per monti.”
Sono sempre stato conscio di questa pluralità: in montagna andavano i partigiani e i militi della Monte Rosa.
Diciamo che nel mio piccolo io sono d’accordo con la Costituzione e di certe pluralità ne faccio volentieri a meno.
E, come detto, per mia indole personale e convinzione culturale e politica sono avverso a qualunque misticismo
Il termine “gentilizzazione” si rifà al filosofo Giovanni Gentile.
Matteo, sul personaggio politico Evola e sulle sue responsabilità rispetto alle persecuzioni razziali io la penso come te. Non a caso è sempre stato il riferimento della destra più estrema italiana, a partire da Pino Rauti. Nel suo percorso Evola ha attraversato diverse fasi e messo insieme diverse ispirazioni, compresa la fase mistico-orientaleggiante- alpina quando si è ritirato in montagna dopo che lo stesso Farinacci gli aveva proibito di pubblicare la sua rivista. La domanda di Gogna si riferiva a questa parte, che personalmente mi è estranea, ma che è comunque ricorrente magari in altre forme nel corso storia dell’alpinismo, e che non necessariamente sfocia in una posizione politica reazionaria. Una curiosità che emerge nel sito che ho linkato e scovato per caso è il resoconto una sorta di pellegrinaggio arrampicatorio/alpinistico di un gruppo di sostenitari sulle “montagne di Evola come scuola di vita, ad ulteriore conferma della pluralità di orientamenti che ispirano l’andare per monti.
Che cos’è la “gentilizzazione” ?
E perché “purtroppo” ?
“Non ho detto che sarebbe inopportuno”
Lo dico io, ‘zzo!
Julius Evola è un fottuto fascista, purtroppo scampato alla gentilizzazione, che ha passato la vita dopo il ’45 cercando di giustificare/mascherare/truffare il suo razzismo con assurde tesi misticheggianti [il che peraltro rafforza la mia viscerale avversione a qualunque misticismo] .
Finita l’intemerata, vorrei spiegare a Carlo Crovella qualcosa che mi pare non gli sia ben chiaro: il termine “caiano” non è riferito al CAI nel suo insieme, né definisce il socio come tale. Non è una forma di disprezzo per il CAI e i suoi soci, ma per un modo di essere che contraddistingue alcuni di essi, che però purtroppo spesso ricoprono posizioni dirigenziali o in vista.
“Caiano” definisce quella particolare forma mentis e quel tipo di socio che infesta il CAI, talora detto anche “barbacai”, che pensa che siccome è del CAI è il rappresentante della Montagna e il custode dei Valori, anche se in montagna non è mai andato se non per mangiare la polenta.
Che ama le gite sociali e i gruppi numerosi, dove passi per il vecchio saggio e a cui tenere allocuzioni verbose da riportare nel bollettino sezionale.
Che ha opinioni molto forti e radicate soprattutto su quello che non conosce e che pensa che opinioni differenti dalle sue siano eretiche.
Per limitarsi ai nomi richiamati nell’articolo, Levi e Mila non erano caiani, come non credo lo fosse un Gervasutti (che infatti ce ne mise per farsi accettare) e di sicuro anti-caiani sono stati Rossa e Motti.
C’era una foto di qualche anno fa (che non riesco a ritrovare) e che ben rappresentava lo spirito caiano: a una riunione UIAA ritraeva l’allora presidente del CAI, tronfio come un tacchino e altrettanto grasso, di fianco al presidente dell’Alpine Club inglese, che mi pare fosse Doug Scott.
In realtà, avendo letto il tuo Ladri di Anime, dubito che tu stesso sia caiano, se non forse per partito preso, preso nella foga del contendere
Ci sono in noi angoli al buio, rimossi, significati incompresi o mortificati.
La luce, la valenza che hanno diventa una cicca da calpestare sotto la suola delle ideologie, delle paure, delle idiosincrasie, dell’interesse personale.
Qualunque si vuole sia la causa, con quell’azione, anche inconsapevole, compiamo un passo distante da noi stessi.
Leggere l’incompreso, il rifiutato come un’informazione utile alla nostra ricerca è invece emancipazione da luoghi comuni nobilitati quanti si desideri.
Ovvero.
Chi di noi sottroscriverebbe un contratto con soci che non riteniamo all’altezza?
Saremmo democratici in quell’occasione?
Non ho detto che sarebbe inopportuno. Ho solo fatto riferimento ai corsi e ricorsi che portano a mettere nel dimenticatoio o a rivalutare periodicamente pensatori del passato. Siamo sempre epigoni, a volte senza esserne consapevoli. Nel caso specifico, Evola appartiene ad una tradizione di pensiero che mi è totalmente estranea per le sue componenti antimoderniste, al di là del suo sostegno alla teoria dell’aristocrazia spirituale contrapposta alla democrazia. Non tutti la pensano così. Non mi scandalizzo. Sul tema Evola e montagna segnalo questo sito, magari qualcuno riconosce certi frammenti di linguaggio
https://www.rigenerazionevola.it/meditazioni-delle-vette-recensione/
Roberto Pasini, ti cito: “Attenzione però il vento potrebbe cambiare e le ceneri di Evola e del suo misticismo naturista, antimodernista e orientaleggiante potrebbero tornare a nuova vita“.
Potresti per favore spiegare perché questo secondo te sarebbe inopportuno?
Da ragazzo, influenzato da bravi maestri universitari, sognavo di fare lo storico. Sogni di gioventù. Da quel tempo antico ho imparato che lo storico, il politico e l’opinionista (anche di blog) sono mestieri diversi. Tutti nobili e legittimi, ma appartengono a campi diversi del sapere e della vita sociale. Probabilmente in questo pezzo Camanni ha assunto il ruolo di opinionista e quindi ha citato ciò che gli era più funzionale, dimenticando alcuni “amori” incestuosi per la montagna di cui oggi ci si vergogna un po’ nel mondo del politicamente corretto. Attenzione però il vento potrebbe cambiare e le ceneri di Evola e del suo misticismo naturista, antimodernista e orientaleggiante potrebbero tornare a nuova vita.
la storia la fanno gli uomini e, spesso e volentieri, la raccontano come meglio gli conviene.
Camanni, applicando il principio “guai ai vinti”, omette tutto il capitolo dell’alpinismo fascista torinese (varrebbe anche per altre città). Di quel periodo cita solo gli antifascisti. Una ricostruzione più esaustiva avrebbe dovuto ricordare i rapporti di Rey con il fascismo, l’influenza di Evola( e il suo culto mistico delle vette e della natura da lasciare incontaminata) le cui ceneri furono sepolte nel ghiacciaio del Lys e le battaglie “ambientaliste” di una parte del Cai fascista contro la strada di collegamento tra Cervinia e il fondovalle e l’effetto corruttivo del telegrafo e del grammofono in montagna. Temi ben trattati in un vecchio libro edito proprio a Torino” Scarpone e moschetto”. Questo per ricordarci come la montagna è stata “usata” ampiamente dall’uomo in epoche diverse per proiettarci i suoi diversi sentimenti/ideologie. La storia non è un santino ad uso devozionale. È molto più complicata e le sue diramazioni a volte sono inquietanti.
Bellissima descrizione dei sentimenti “torinesi” per la montagna. Come si può arguire dal testo di Camanni, essere alpinisti a Torino è qualcosa che si pone ad un livello che sta “sopra” rispetto alle idee che determinano le singole esistenze individuali. Andar in montagna affratella nello spirito persone che, nella quotidianità, possono benissimo trovarsi su posizioni diverse, a volte anche opposte e conflittuali. Anche appartenere al Cai, qui, è stato storicamente vissuto in modo speciale ed è qualcosa di molto differente rispetto al termine “caiano”, oggi di larga diffusione nel web, tra l’altro con un taglio dispregiativo. Certo, anche a Torino ci sono molti individui che, seppur iscritti nominalmente al Cai, non sono affatto pervasi dallo spirito tradizionale della montagna subalpina (e viceversa: ci sono molto non iscritti che sono invece profondamente pervasi da questo spirito). A differenza dell’amico Camanni, io personalmente non ritengo che questo particolare amore (dei torinesi per la montagna, NdR) debba “rinascere”, perché lo vedo ancora, forse più diluito rispetto al passato, perché mescolato con una moltitudine di persone che hanno una visione sportiva e tecnicicista della montagna. Diluito, mescolato, forse un po’ rimaneggiato, ma questo particolare amore torinese c’è ancora. E non è prerogativa solo dei “vecchi” con i pantaloni alla zuava, anzi. Frotte di giovani stanno nuovamente “tornando” verso lo spirito più tradizionale dell’andar montagna. Ed è questa la constatazione più bella.