Quale alpinismo moderno?
(da Un Alpinismo di Ricerca, scritto nel novembre 1976)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Novembre 1976. Un convegno di proporzioni nazionali fu organizzato a Torino. Tema dell’incontro di buona parte dei migliori alpinisti italiani era l’alpinismo moderno, alias scambi d’idee per un’accettazione del settimo grado. Fui incaricato di leggere una relazione sull’evoluzione dei materiali in relazione allo sviluppo delle possibilità umane di recente vistosamente allargate.
La sala era grande, l’ambiente un po’ oppressivo. Avevo deciso di uscire allo scoperto, di dire qualcosa. Nei miei intendimenti ci sarebbe stata anche una spiegazione della mia interruzione di montagna. Già al mattino una potente raucedine m’impediva di parlare, ma al momento buono sarei riuscito a formulare le parole che leggevo. Non avevo fatto i conti con il numero di persone che ascoltava. Se fossi riuscito a interessare due o tre ascoltatori sarebbe stato già un successo. Verso la fine però sentii d’essere più sicuro su quello che avrei detto. Feci una esauriente lettura delle mie ricerche sui nuovi materiali. Parlai per la prima volta in Italia di «gore-tex». Poi, invece di terminare con la presentazione di qualche mirabolante ritrovato della tecnica, chiesi «quali materiali permettono un vero passo avanti rispetto a ieri?».
«Nella lettera di invito a questo convegno ci si chiede se può essere “umanizzato” l’alpinismo. Se può essere o no trasformato in un’equilibrata attività spirituale e tecnica, non necessariamente visionaria, angosciosa, incomprensibile alla pubblica opinione. Per rispondere non si può prescindere dalle ragioni arcane per cui lo pratichiamo. Quale “equilibrio” è possibile se continuiamo a sognare “passi avanti rispetto a ieri”? Non ci può non essere visione o angoscia finché si mira all’alto. Non si può parlare del rapporto tra i materiali e i progressi in montagna finché si è nell’ambito di una umanizzazione. I dislivelli psichici continueranno a essere conservati fino a che ci interesserà il progresso tecnico.
Se vogliamo imprese sempre più mirabolanti in se stesse, occorre proseguire, oltre che in tecnica di roccia e di ghiaccio, anche sulla strada degli ultimi ritrovati del materiale. Se invece diamo maggiore importanza al soggetto, all’alpinista, non rimane che diminuire la quantità di materiale. Nel caso di un eventuale Everest senza ossigeno dobbiamo chiederci se ci interessa più l’uomo o la parete, senza parlare di serenità o di umanizzazione. Più che alla coscienza, mi rivolgo qui a quella parte di noi che non è sottoposta al raziocinio e che in tutti noi preme per venire alla luce. Vorrei dare immagine a ciò che io sento come problema reale. Ci si possono immaginare alcuni uomini completamente al buio su una grande cengia. Uno di loro riesce ad accendere una lampadina elettrica e quindi a vedere senza essere visto. Ma costoro, a quel chiarore vago, riescono a costruirsi altre lampade. E così tutti insieme fanno a gara a chi corre più forte sulla cengia. Ogni tanto qualcuno inciampa e cade nel vuoto. I più bravi decidono che, per divertirsi di più, è meglio correre al buio senza alcuna luce. E così avanti indietro, chi nelle teorie eroicistiche, chi trotterellando per allenarsi, chi soltanto per giocare; visto che nessuno vuol ritornare in città, chi di loro si deciderà per primo a salire verso la fine della parete? Occorre proprio aspettare l’alba? Ma quando questa arriverà, probabilmente saremo tutti stanchi di correre. Se riteniamo che la crisi sia superabile solo mutando i fattori della moltiplicazione, se c’inquadriamo al passo dell’oca e allo squillo delle fanfare, se ci fermiamo a fumare insieme il calumet della pace, siamo tutti i prigionieri di quella cengia: mezzi, attrezzi e sistemi nuovi non faranno che stabilizzare il vecchio bel gioco. Chi vuole spogliarsi non solo del materiale ma anche dei vestiti per poter affrontare la vera Parete?
Non ho mai creduto sia il caso dire a un giovanissimo come deve fare a scalare. Al massimo si può dare un consiglio, se richiesto, di carattere evolutivo, mostrando al più una direzione, lasciando che ciascuno scopra i propri “veri” passi avanti. Proprio perché sull’ultima vera parete non ci si può legare ad alcuna corda, nessun aiuto da sotto o sopra. E chi ha intrapreso l’ultima via non parla con nessuno, non può sprecare energie con chi si attarda sulla cengia. Ha bisogno di tutta la sua energia vitale, deve richiamare dalle cose ogni sua attenzione, concentrare la propria violenza psichica soltanto su se stesso, al contrario dell’eroe che è tale solo per essere applaudito e per morire. In questa Azione si procede da soli, non è più il tempo di giocare».
Qualche istante di silenzio assoluto seguì la mia tirata. Poi la platea si scisse in due: una parte applaudiva così forte da coprire il silenzio dell’altra.
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