Quando il soccorritore diventa il soccorso

Cosa succede quando ti trovi su El Cap con un partner gravemente ferito? Era l’11 ottobre 2017 e l’ex operatrice di Yosemite Search and Rescue (YOSAR) Josie McKee stava scalando in speed climbing il Nose con la sua abituale compagna di big wall Quinn Brett, quando questa è volata con la conseguenza di una grave paralisi. Le due donne erano più che semplici arrampicatrici esperte: nel 2012, Brett aveva stabilito un record di velocità sul Nose; nel 2016, McKee è diventata la seconda donna a fare la parete da sola. Qui, McKee, istruttrice di medicina in ambiente wilderness e co-fondatrice di Flash Foxy Climbing Education, ci racconta di come ci si sente a trovarsi su El Cap in questa inversione di ruoli, con una partner gravemente ferita, di come ha affrontato le conseguenze e di cosa tutti dovrebbero sapere prima di iniziare una qualche avventura. 
Ecco la sua storia, raccontata ad Anna Callaghan.

Quando il soccorritore diventa il soccorso
di Josie McKee
(pubblicato su outsideonline.com il 5 novembre 2019)

Quinn Brett (a sinistra) e JosieMcKee in vetta alla Washington Column (Yosemite Valley)

Quinn era in testa nella prima metà quando è successo. Era così che facevamo, già nelle salite di prova: lei avrebbe condotto fino a Boot Flake, circa a metà della parete di 920 metri, e poi sarei andata avanti io dopo aver fatto il King Swing, un pendolo a sinistra per raggiungere un diedro. Eravamo in short fixing (quando il capocordata tira su tutto il lasco della corda, fissandola poi in modo che il secondo possa iniziare a salirvi a jumar mentre lui continua a scalare in testa). Questo genere di tattica di solito si gestisce con il principio del “vietato cadere”, perché qualsiasi caduta potrebbe avere gravi conseguenze. 

Per la maggior parte della metà inferiore ero salita in simultanea dietro a Quinn, con la corda che scorreva nei rinvii tra di noi. Stavamo salendo in modo ottimale, davvero efficiente. In stato di grazia, la nostra progressione era potente. Stavamo superando una cordata e uno mi disse: “Wow, state andando forte. E’ per il record?”.
“È davvero difficile stare dietro a Quinn!” gli ho risposto. 

Quinn e io avevamo fatto un sacco di cose grandi insieme, e quando è così si deve davvero essere affiatati, motivati e andare. Se solo inizi a parlare di un incidente, se uno dei due vi accenna solo, si scardina l’intero processo. Quindi ci si tiene tutto dentro. Ma la notte prima di questa salita, entrambe non avevamo dormito molto bene. Entrambe sotto choc per la morte di Hayden Kennedy e Inge Perkins all’indomani di una valanga nel Montana, diversi giorni prima. Conoscevo Hayden, ma Quinn era più vicina a entrambi. Ci stava pesando e stavamo ancora elaborando quella doppia tragedia. 

Avevamo programmato di partire alle 4.30 per avere un vantaggio sulle cordate che stavano bivaccando sul Nose. Ma abbiamo dormito fino alle 8.00 e in mattinata, mentre stavamo guidando nel parco, abbiamo discusso se avesse ancora un qualche senso logistico fare la scalata e se ci sentissimo fisicamente bene. 
Quinn era del parere “Sì, andiamo”.

Ciò che ora di più mi prende la mente è che non abbiamo parlato se fossimo pronte emotivamente. Penso che entrambe abbiamo avuto la sensazione che non avremmo dovuto andare, ma non ne abbiamo parlato. Niente affatto, andiamo e basta. Facciamo e basta

Quando Quinn si alzò sulla Texas Flake, al 15° dei 31 tiri della via, uscì dal mio campo visivo mentre si dirigeva verso Boot Flake, dove mi avrebbe ceduto il comando. Stavo per recuperare una protezione e mi sono chiesta: “Se stacco questa, c’è qualcosa ancora tra di noi?” In quella frazione di secondo, ho pensato anche: “Vabbè, non sarà qui che ci tiriamo giù una con l’altra. Qui ci sono un po’ di cenge e quindi anche chiodi”. Così ho recuperato il rinvio e ho continuato a salire.

Quinn urlò che mi aveva fissato la corda, quindi avevo via libera per salire sulla Texas Flake. Una volta arrivata lì mi sono agganciata l’ancoraggio, ho disfatto il nodo sul quale ero salita e le ho dato lasco. Questo è quello che si fa, non bisogna fare altre manovre di corda, perché qui stiamo salendo in speed; la corda la lasci lì, libera. E naturalmente si è incastrata dietro alla lastra staccata (flake). Ho urlato a Quinn che non poteva ancora fare sosta. Ho rifissato la corda, sono scesa, ho sbloccato il lasco e poi sono risalita all’ancoraggio di sosta e mi stavo preparando a far sì che lei potesse mettersi in sosta.

Il soccorritore Aaron Smith in azione. Foto: Tom Evans.

Fu allora che la sentii urlare. Alzai lo sguardo, vidi che stava cadendo e che mi stava passando accanto. E’ andata a sbattere sulla Texas Flake. Ho visto il suo casco volare via, e poi è caduta altri quattro metri, dietro alla scaglia, per fermarsi proprio su quei blocchi dai quali poco prima avevo disincastrato la corda. In totale, era caduta più di 30 metri. 

Quinn era circa 7-8 metri sotto di me, a testa in giù tra i massi. Ho pensato che forse era morta. Ho urlato il suo nome un paio di volte e lei non ha risposto. 

Ricordo di aver provato a fare un respiro profondo. “Josie, devi controllarti. Assicurati di fare tutto correttamente. Non uccidere anche te stessa”. Ho impiegato cinque secondi per controllare la manovra di discesa, poi mi sono abbassata fino a Quinn, chiamandola ancora un paio di volte. Stava ansimando come avesse difficoltà a respirare correttamente. “Devo assicurarmi che abbia modo di respirare… deve respirare”. Ho provato a raddrizzarla in posizione verticale per arrivare alla sua bocca e assicurarmi che stesse respirando. A quel punto iniziò a gemere. “Quinn! Quinn! Stai bene. Ti tireremo fuori”. Ho tirato fuori il telefono, l’ho messo in vivavoce e ho chiamato lo YOSAR. Non volevo chiamare il 911; volevo parlare subito con quelli che sarebbero venuti a prenderci. Ma nessuno mi ha risposto, così ho chiamato il centralino. 

I soccorritori Aaron Smith e Brandon Lathum hanno raggiunto Josie McKee e Quinn Brett sulla Texas Flake del Nose. Foto: Tom Evans.

“911, qual è la tua emergenza?”.
“La mia compagna è appena caduta sul Nose. È stato un brutto incidente”. 

Il centralinista ha iniziato a farmi tutte le domande di protocollo. E allora, un po’ sgarbatamente, ho detto: “Sono un ex membro della SAR. Connettimi al SAR. Devo parlare con qualcuno che mi può aiutare. Veloce”. Mi ha collegato a Philip Johnson, il supervisore del turno quel giorno, uno specialista di salvataggio incredibilmente competente e mio ex supervisore. E lui ha fatto andare le cose in fretta. 

L’elicottero (pilotato da Keith Nelsen) sta raggiungendo i soccorritori Aaron Smith e Brandon Lathum che hanno approntato la barella sulla Texas Flake. E’ ben visibile, in alto, la Boot Flake. Foto: Tom Evans.

Ci sono due modi diversi per salvare le persone su El Cap. Se non è urgente, si calano dall’alto con la corda. Se è urgente, allora interviene l’elicottero con un soccorritore appeso a un cavo di 50 metri. È una manovra sempre complessa e delicata: un elicottero gigante che sfiora la parete, se arriva una folata di vento, rischia di schiantarsi sulla roccia. Muoiono tutti. 

L’elmetto di Quinn aveva probabilmente assorbito la maggior parte del primo impatto, ma dopo deve aver urtato di nuovo la testa abbastanza forte e c’era molto sangue. Le ho avvolto un foulard sul collo per fermare l’emorragia e ho controllato i suoi segni vitali. Più tardi scopriremo che si era rotta la scapola, le costole e la colonna vertebrale e che un polmone era perforato.) Ho monitorato Quinn e mi sono assicurata che stesse ancora respirando, avesse polso e fosse cosciente. Le ho fatto domande e ho continuato a parlarle. Volevo coprirla con del vestiario (le persone che perdono sangue e hanno lesioni traumatiche vanno facilmente in ipotermia), ma non avevamo molto, solo una felpa con cappuccio da sole e strato antivento. Sarebbe stato un problema se fossimo rimasti lì più di qualche ora. 

Pochi minuti dopo, Philip richiamò. “Josie” ha detto “Puoi mettere una corda fissa per calarvi su El Cap Tower? Sarebbe più facile il recupero con il cavo d’acciaio”. La struttura di El Cap Tower era una lunghezza sotto di noi. Ho risposto che non volevo spostare Quinn. In quel momento la stavo sorreggendo, completamente accasciata su di me. Lei c’era e non c’era, sembrava proprio grave. Non volevo allontanarmi da lei. Ma dovevo mettere la corda fissa. Fortunatamente sotto di noi c’era una cordata, così risalii all’ancoraggio, raccolsi il lasco e lo lanciai all’esterno della Texas Flake. Quelli della cordata hanno potuto prendere il capo e attaccarlo alla loro sosta su El Cap Tower. A quel punto il team di soccorso è decollato e l’elicottero si è messo in verticale su El Cap Tower. I ragazzi sono saliti sulla fissa e l’abbiamo imbragata in barella. Al ritorno dell’elicottero è stata agganciata e portata via. 

Erano passate poco meno di tre ore dalla prima chiamata di soccorso. Sembra molto tempo, ma non lo è. Penso che sapere bene cosa vuol dire un soccorso di quella portata mi abbia aiutato sia a fare la telefonata veloce sia a non ritardare parlando troppo a lungo con il centralinista. In questo modo sono stata in grado di comunicare rapidamente i dettagli alle persone che stavano per eseguire il salvataggio, di che tipo di assistenza medica Quinn aveva bisogno e con cosa avevamo a che fare. 

Fa tutto parte dell’addestramento a chi per primo risponde a una chiamata di soccorso in ambiente wilderness: conoscere più dettagli possibile e riferirli. Anche se è solo un addestramento di base, avere chiara questa metodologia è il modo responsabile per essere efficienti. Le cose purtroppo accadono, nonostante la nostra preparazione. Quinn e io stavamo correndo grossi rischi che non tutti corrono, ma succedono anche cose brutte. E il 911 non è sempre il numero migliore da chiamare. Meglio conoscere i numeri del parco o della SAR (Search and Rescue) locale ovunque si sia. 

Dopo l’infortunio di Quinn, ho lottato con il fatto che abbia avuto una lesione al midollo spinale che l’ha lasciata paralizzata. Non si deve spostare un paziente con una lesione alla colonna e mi chiedevo continuamente se eravamo stati noi, spostandola, a causarle ulteriori danni. Mi sentivo in colpa e mi chiedevo: “Cosa avrei potuto fare diversamente per stabilizzarla?”.

Aaron Smith e Quinn Brett si allontanano dalla Texas Flake. Foto: Tom Evans.

L’indagine sull’incidente indica che è stata la caduta di 30 metri causa principale della paralisi, non il suo successivo spostamento. Ma c’è ancora qualche possibilità, qualche dubbio sospeso. Credo che lotterò con questa domanda per il resto della mia vita.

I soccorritori incontrano continuamente questo genere di domande. YOSAR ci ha fornito formazione e istruzione su come affrontare il trauma e su ciò che le persone fanno emotivamente quando lo affrontano. Ma questo è stato molto più intenso di qualsiasi altro incidente io abbia incontrato come professionista. Dopo la caduta di Quinn, ho pianto quando ero ancora legata a lei. Non riuscivo a dormire la notte. Ho avuto molti pensieri ripetitivi, spesso mettendo in dubbio ciò che avevo fatto lassù. 

Sapere che questa roba è normale mi ha aiutato molto. Sapere di fare le cose per prendermi cura di me stessa mi ha aiutato. Gruppi come il Climbing Grief Fund stanno aprendo questo dialogo, fornendo istruzione e consulenza. Negli ultimi anni, YOSAR ha offerto dei corsi annuali di primo intervento psicologico. Un paio di amici dell’attuale team YOSAR affermano che è certamente d’aiuto essere aiutati a comprendere fino in fondo la propria risposta agli incidenti, oltre che aiutare coloro che sono stati soccorsi. Credo che questo sia importante per gli addetti all’EMS (Emercency Medical Service), almeno quanto qualsiasi altro dettaglio nella nostra formazione di pronto soccorso. 

Le persone non sempre affrontano il trauma in modo corretto, ma è importante farlo. Come nello stretching o nella corsa: sai che ti fa bene, ma a volte sei pigro e non lo fai. Ma dopo ti senti sempre meglio. La stessa cosa vale per le emozioni. Devi comunque fare cose che facciano bene al tuo stato emotivo.

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Quando il soccorritore diventa il soccorso ultima modifica: 2020-05-11T05:38:35+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Quando il soccorritore diventa il soccorso”

  1. Marcello, sei un professionista della montagna, se posso un consiglio, non andare oltre, altrimenti prima ti censurano e poi ti scomunicano! 🙂 
    Alla peggio possono anche accusarti di diffamazione: va di moda !

  2. Io me la cavai da una caduta, con il peggior pendolo della mia vita. Da allora non arrampico più. Faccio tutto ma in parete non vado più. 

  3. Un bell’esempio di come in certi paesi facciano parte del soccorso alpinisti di punta. A casa nostra, a parte qualche eccezione (che sottolineo esserci!) ambiscono a farne parte perlopiù elementi alpinisticamente di livello molto basso. Diverso è il rendersi disponibili per soccorrere dal far parte di macchinose organizzazioni “legalizzate” . 

  4. Da brividi… Si sa che queste cose succedono, e specialmente in discipline come il free solo o lo speed climbing… Arrampicare è una attività che comporta molti rischi, anche quella tradizionale.
    Non mi permetto di giudicare chi ha la  volontà di fare attività del genere

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