Pubblichiamo volentieri queste due riflessioni, di Andrea Gennari Daneri e di Antonio Pennacchi, perché in buona parte rispecchiano anche il nostro punto di vista “su queste ultime ore tra la montagna e le tastiere”.
Quel che c’è dopo Nardi e Ballard
di Andrea Gennari Daneri
(pubblicato su www.pareti.it l’11 marzo 2019
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Come avete avuto modo di constatare nei giorni scorsi la nostra cronaca a riguardo di quanto (non) stava accadendo sulla montagna himalayana si è interrotta al momento in cui Txikon ha proposto di perlustrare la zona coi droni. Ognuno di noi ha smesso di sperare in un esito positivo in momenti diversi. Quello è stato il nostro momento. La prossima notizia da pubblicare, se ci sarà, sarà quella del ritrovamento dei cadaveri. Ora è partita, com’era prevedibile, la dietrologia generale e più o meno competente su quanto sia presumibilmente accaduto e su quello che si sarebbe dovuto fare e non fare.
Che sia stata una valanga, una scarica di sassi o persino un volo non trattenuto ora ha poca importanza, perché non ci saranno mai nemmeno le condizioni per poter ricostruire quanto veramente successo.
Il fatto importante e francamente piuttosto triste è che il mondo si è nuovamente diviso in Moriani e Nardiani, e in mezzo agli uni e agli altri ci sono tanti che non hanno mai infilato un rampone in vita loro. E’ molto triste quello che stiamo leggendo sui social, che mai come in queste occasioni si mostrano dissocial.
E’ invece l’alpinismo, signori. Che inizia dove finisce l’arrampicata sportiva e che ha infiniti livelli crescenti di presa di rischio, e di cui tantissimi versanti di tantissime montagne rappresentano il livello massimo, non solo questo. Gianni Comino scalava i seracchi che stavano per cadere. Alex Honnold si lancia su Freerider slegato, Markus Pucher va sul Torre in solitaria invernale. Daniele Nardi e Tom Ballard non tornano da questo Sperone Mummery di cui tutti sembrano avere avuto sempre un plastico tridimensionale in camera da letto.
E’ solo l’alpinismo, la motivazione che hai dentro, la fortuna o la sfortuna di essere nel momento giusto o sbagliato in quel particolare posto, come è successo al fortissimo Massimo Farina, a quella roccia di Marco Anghileri e a tantissimi altri noti e meno noti. Un giorno, se un giorno l’alpinismo interesserà ancora a qualcuno, si passerà anche dal Mummery e probabilmente anche da cose più difficili. Ma è troppo facile dire adesso: “lui non doveva essere lì,” oppure “non aveva il livello per farlo” una volta che è morto. Tutti i morti in montagna avrebbero dovuto essere altrove per non morire. E a volte più forti e veloci di quello che erano. Persino Honnold, se gli fosse glissato un piede sul diedrone di 7c, sarebbe da molti ricordato come uno che non aveva il livello per farlo.
Nardi e Ballard inseguivano un sogno come di più piccoli, ma non necessariamente meno pericolosi, seguiamo tutti noi che andiamo in montagna.
Dei sogni bisogna avere rispetto e basta. Senza i sogni, anche quelli illogici, l’alpinismo diventerebbe arido. E il mondo in generale, senza quei piccoli alpinisti coraggiosi, secondo noi sarebbe parecchio meno interessante da vivere.
La volontà di andare “oltre il limite”
di Antonio Pennacchi
(pubblicato su www.ilprimatonazionale.it il 13 marzo 2019)
Riportiamo un omaggio dello scrittore Antonio Pennacchi a Daniele Nardi, l’alpinista di Sezze morto tragicamente sul Nanga Parbat pochi giorni fa. Nel testo pubblicato sulla sua pagina Facebook, lo scrittore pontino esalta la volontà dell’alpinista di “superare i limiti imposti”, in controtendenza con i molti che soprattutto sui social hanno criticato il tentativo di Nardi giudicandolo “un rischio inutile”.
In giro per Latina oltre che per i social c’è chi dice: “Ma chi glielo ha fatto fare? Come gli salta per la testa, a uno di Sezze, di andare fino sopra all’Himalaya, al Nanga Narbat, con moglie e un figlio piccolo a casa? Non glielo aveva detto pure Messner: rinunciate, non andateci?”. Beh, con tutto il rispetto per Messner, credo però che non ci sia stato nessuno – tra tutti quelli che lo hanno conosciuto sia a Sezze che a Latina, a cominciare dalla madre – che non gli abbia detto chissà quante volte: “Non partire Danie’, stàttene alla casa!”. Ma lui ti guardava con quegli occhi bambini, e poi sorrideva: “Debbo andare per forza”.
“Pìgliatela in quel posto, allora, adesso” dicono sui social o in giro per i bar, dimenticando che – prima o poi – si muore tutti a questo mondo, pure quelli che restano a casa. Pure giovani giovani, magari in macchina sulla Pontina o una Migliara, quando non proprio dentro il bagno di casa, scivolando sulla saponetta. Muoiono perfino quelli che non fumano – quelli che non hanno proprio mai fumato, mai drogato, mai bevuto, pensa tu! – mentre certi che fumano arrivano pure a cent’anni. C’è poco da fare: prima o poi si muore tutti e non conta – alla fine – come si muore, ma come si è vissuto.
La volontà di andare “oltre il limite”
Non c’è essere umano che – da bambino o adolescente – non abbia sognato di fare, da grande, ciò che nessun altro aveva mai fatto: nel lavoro, nello sport, nell’arte, nella scienza o nell’avventura. Poi man mano, crescendo, la maggior parte si adegua agli standard del reale e cerca una vita pressappoco uguale a quella degli altri: “Perché chiedere di più?”. Ci sono invece quelli – una minoranza – a cui il fuoco non si spegne con la crescita, a cui il fuoco rimane. A loro non basta una vita normale. Debbono sempre osare e stirarla al massimo: sempre in cerca di guai, sempre in bilico sull’orlo per superare il limite.
Pensano un’impresa e subito la tentano, e più è difficile e più gli viene voglia: “Non l’ha fatta mai nessuno? Beh, è per questo che la debbo fare io. Se no chi la fa?”. Pensa solo a quanta gente è morta, prima che imparassimo a volare.Quelli che vanno in cerca di guai ci servono come il pane. Svolgono una fondamentale funzione cosmica, prima ancora che sociale. E’ una legge della fisica: non possiamo essere tutti perfettamente uguali, non esiste in natura la normalità. Pure se vai in spiaggia da Capo Portiere a Rio Martino e ti metti con il microscopio, tu non troverai due chicchi di sabbia perfettamente identici. Ora noi umani siamo sostanzialmente tutti uguali e le spinte che animano il conscio e l’inconscio di quella minoranza – quelli che, quando tutti guardano da una parte, loro invece guardano da un’altra: per terra, di lato, per aria o comunque oltre; i divergenti – quelle stesse spinte le abbiamo tutti, dentro. La maggioranza poi le reprime, peril fortissimo impulso a conformarsi agli altri, a sembrare in tutto e per tutto uguali per essere accettati dagli altri, amati e rassicurati.
Il primo passo della civilizzazione
Per fortuna però ci sono pure quelli come Daniele Nardi – ma come anche Tom Ballard e Virginia Chimenti del resto, la volontaria Onu di Cisterna caduta l’altro giorno col Boeing in Etiopia, mentre era in volo per Nairobi – che quelle spinte non le hanno represse ed hanno vissuto fino in fondo la voglia di divergere, discoprire l’ignoto e superare i limiti imposti.Se non ci fossero al mondo quelli come loro – quelli che con gli occhi bambini e col sorriso sulle labbra sfidano l’inviolabile – noi staremmo tutti ancora all’età della pietra, anzi, pure prima: sopra le piante come ogni altra specie di scimmie, nel centro dell’Africa, a mangiare banane.
Quando il primo di noi – un milione e mezzo d’anni fa – è sceso dall’albero, ha raccolto una pietra e con questa pietra ne ha scheggiata un’altra per farne un utensile e s’è levato in piedi in mezzo alla savana, a vedere se per caso passasse una gazzella, noi tutti in coro, da sopra all’albero, gli strillavamo: “Che cazzo stai a fa’? Torna subito qua sopra, che là sotto ti si mangiano i leoni”.
Invece è lì che è nata la civiltà – la tèkne, lo sviluppo – il primo passo della civilizzazione, con tutti noi che dietro a lui, mano mano, siamo scesi dall’albero e un passo dopo l’altro, seguendo loro, siamo arrivati dove siamo, alle navicelle spaziali oramai pronte per la conquista dello spazio. Ogni singolo progresso dell’umanità è dovuto a quei pochi – come Daniele Nardi – nati e cresciuti con il fuoco dentro e privi del normale senso del limite. Li dovremmo solo ringraziare. Ciao, Daniele. Riposa in pace col tuo amico Tom Ballard. Vi sia lieve la neve che vi copre. Un pensiero ai vostri cari.
Per approfondimento sulla figura di Daniele Nardi: https://www.urbanwall.it/2019/03/17/daniele-nardi/
Per approfondimento sull’intera vicenda:
http://montagnamagica.com/la-tragedia-sullo-sperone-mummery-fanatismi-e-alpinismi/
Grazie al sig. Stenghel per i brividi che mi ha regalato nei suoi messaggi in questa discussione, che non posso far altro che condividere al 200%.
Non sarò mai all’altezza della più facile delle sue vie, ma a volte anche per osmosi, per condivisione dell’aria comune che si respira, si può imparare qualcosa da qualcuno, anche stando seduto nel tavolino a fianco, alla Lanterna, origliando discorsi tra i veri alpinisti.
Condivido al 100% anche chi dice che qualcuno di noi è ancora arrampicato sulle piante, magari pure a pontificare, e qualcun altro si prende la briga di scendere e conoscere, esplorare.
Altrove ho trovato scritto “se anche avessero avuto successo, che cosa avrebbero portato a casa in fin dei conti? un grandissimo sti**zzi”.
Che di fatto, per i miopi o gli ignoranti (nel senso più letterale del termine, senza insulto), è la riduzione estrema dell’alpinismo in sè… agli occhi di chi in montagna ci va per gioco, 1 settimana all’anno, che fine c’è nell’andar per crode?
Una volta però le persone che NON conoscevano qualcosa, non si permettevano di dire nulla. Ora i megafoni del 21° secolo danno voce a tutti indiscriminatamente… e si perde il rispetto, la comprensione, il semplice silenzio.
Qualche mese fa, su questo blog, trovai l’articolo
https://gognablog.sherpa-gate.com/i-rompicoglioni/
quanto è adatto ai nostri tempi, sconvolgente quanto sia lo specchio della vicenda della morte di Daniele Nardi e Tom Ballard
Visti i commenti delle migliaia di himalaysti da tastiera su FB ho tranquillamente rispreso in mano “solitudine bianca”, r.messner, priuli&verlucca. Sarebbe bello che tutti potessero leggere le pagine da 182 193 dove l’autore che, sembra aver dato del suicida a daniele e tom, ma non ci credo neanche un po, racconta di quando scende da solo col maltempo, senza previsioni, telefono, tenda sacco eccetera non troppo lontano da dove sono adesso i due ragazzi. Si capiscono tante cose ma… parere personale.
ed io resto in attesa di chi, prima o poi, scalerà questa via in invernale, e sono convinto che Dan e Tom, da lassù, si faranno una bella risata
Caro Emanuele
forse non hai letto bene quello che ho scritto o forse lo hai interpretato male. Il mio scritto semplicemente afferma quanto sia impossibile fare dell’alpinismo senza rischi. E’ una scelta! Quindi per favore non parlare di egoismo che è una brutta parola, bensì di passione. Ho rinunciato per anni a un certo alpinismo per amore per la mia famiglia, perché sapevo quanto sia difficile salire le montagne senza rischi, quindi per favore non mi piace essere citato nelle tue conclusioni. Che non condivido!
Molto belli gli articoli e significativi anche gli interventi che, con tatto e delicatezza, hanno aggiunto valore alle parole; condivido in particolare il commento di Mario Spini che mette in evidenza come sia straziante il dolore per chi è legato alle vittime affettivamente; personalmente, anche perchè l’ho vissuto e lo vivo, l’alpinismo con elevato rischio, pur avendo “senso” e “valore”, e questo lo dico anche a Giuliano, resta una scelta profondamente egoista.
Concordo completamente con l’autore dell’articolo.
Solo una precisazione: se hai un figlio piccolo non parti più
Solo qualche pensiero confidenziale sulla vicenda Nardi Ballard, e poi magari mi iscrivo al blog…
Le grandi imprese…Tanti anni fa esploratori, alpinisti, navigatori… erano in buona parte o notabili Lord, Sir, Duchi etc…, e per coronare i loro “sogni” potevano tranquillamente autofinanziarsi. Oppure, nel caso di “spedizioni” i cui fini, oltre a muovere da “sogni” personali, variavano dal ritorno economico a quello di prestigio nazionale o di regime etc. ( da Nobile all’alpinismo eroico teutonico al K2 etc…) a coprire le ingenti spese intervenivano mecenati, finanzieri, governi, stati, ovviamente calcolando il proprio tornaconto.
Venendo all’alpinismo, a mio avviso, nella sua dimensione più’ pura, ha il suo motivo di esistere nell’intimità’ dell’alpinista stesso, che nel continuo confronto con la natura vive esperienze impagabili, sia che vada sul Monte Penna che sul Cerro Torre. E’ una dimensione personale, profonda, sentimentale.
Il caro Daniele, che ha tutto il mio rispetto e simpatia, e che, mi auguro, in questo momento si trovi in qualche altra dimensione libero e sereno, era un alpinista professionista. Ovvero, per realizzare i suoi “sogni”, non essendo, penso, ne un Falck, ne’ un Gardini o tanto meno un Elon Musk, doveva ricorrere a sponsor, media e tutto quanto potesse consentirgli di realizzare le imprese che gli stavano a cuore. E qui c’e’ il primo aspetto, forse scomodo, ovvero il ruolo delle pressioni del “sistema di finanziamento” dell'”impresa”, che forse spostano l’asticella della “difficoltà'” sempre più’ in alto sino all'”impossibile”. Il secondo aspetto, consequenziale, e’ che forse, al di la di tanta retorica, il buon Daniele dovesse alla fine far certe cose proprio perchè’ aveva una famiglia, una moglie ed un figlio da mantenere e, una volta entrato nel meccanismo finanziario di questo tipo di alpinismo, l’unico modo per restar a galla e’ quello dell’exploit a tutti i costi (ed e’ lo stesso meccanismo che induce alpinisti di massimo rispetto come Moro, Messner etc. a “dover” dire la loro, magari perchè’ hanno un contratto con la Gazzetta dello Sport etc. anche se preferirebbero starsene zitti…nessun giudizio da parte mia comunque, fa parte del gioco…). Per ultima, c’e’ la dimensione interiore più’ profonda che muove ogni essere umano nelle sue scelte…ma su questa, non credo che nessuna intervista (sponsorizzata pure quella…) o dichiarazione prima di ogni spedizione possano far luce…forse solo gli amici più’ cari, le persone più’ intime…
Un caro saluto e grazie per le belle cose che fai.
Bravo Giuliano non potevi scrivere parole più belle ma sopratutto, giuste!
Bel articolo che condivido.
Ricordando Daniele Nardi e Tom Ballard
Ci sono momenti… momenti in cui bisogna solo lasciar parlare il cuore e dare solidarietà, oppure tacere e lasciare che sia il silenzio a parlare.
Cosa spinge una persona a mettersi in gioco, fino a rischiare la vita per un ideale, per un sogno o semplicemente per una forza misteriosa che si chiama passione?
La mia vita è stata piena di passioni più o meno nobili, che mi hanno spinto a rischiare, che mi hanno portato addirittura ad azzardare, passioni che mi hanno arricchito dentro avvicinandomi a Dio e, purtroppo, anche quelle più effimere che mi hanno sopraffatto. Le emozioni e le sensazioni delle più grandi avventure, se indirizzate a fin di bene, diventano virtù da seguire e ci dimostrano che non può esserci vita senza passione. Per non rassegnarsi alle prove della vita, per non arrendersi, ci vuole cuore. Per vivere bisogna essere innamorati della vita, e io voglio vivere, non esistere.
È impossibile fare dell’alpinismo senza osare. La colpa non è nostra, ma della passione! Ma è ineluttabile per uno scalatore mettere a repentaglio la vita; allo stesso modo corre dei rischi chi ha scelto di essere un soccorritore, chi ama la velocità o il volo, chi lavora in una miniera o fa il camionista e chi più semplicemente decide di farsi una famiglia.
E allora, quanto si può rischiare per inseguire un sogno?
C’è chi si è giocato la vita, nessuno può dire se giusto o sbagliato, dipende dal senso, dalla ragione della propria esistenza.
La passione è il tendere verso un obiettivo che si desidera intensamente: è una spinta che ti dà una forza enorme, inaspettata, e ti può condurre addirittura fino al sacrificio estremo della vita. Si può morire per amore? Certamente!
San Francesco diceva: “Voglio essere un folle nel mondo”. E non credo intendesse dire di voler essere un instabile mentale, oppure un pericolo pubblico, bensì: “Voglio abbandonarmi a Dio con tutto il cuore, seguendolo nell’amore fino al rischio estremo della morte”.
Con queste premesse, sostengo ancora e con forza che non si può fare dell’alpinismo senza rischiare. Soprattutto nel passato che gli alpinisti scalavano con le sole mani e una corda legata alla vita e qualche vecchio chiodo forgiato in officina. Eppure molti grandi sono caduti senza essere giudicati dei folli o dei suicidi. Il rischio grande o piccolo che sia, volontario o non, fa parte dell’alpinismo. La storia dell’alpinismo è piena di alpinisti che si sono spinti oltre e con rischi enormi. Ripensando ai primi alpinisti che si sono spinti sull’Everest…
“Perché l’Everest?”. George Mallory rispose: “Solo perché è lì”.
Del mitico alpinista vissuto all’inizio dello scorso secolo mi colpi una frase: “Che senso ha scalare una montagna? Ciò che conta è sapere di aver compiuto qualcosa. Bisogna esser convinti di poter resistere fino alla fine sappiamo anche che non esistono sogni che non valgano la pena di essere sognati… Abbiamo sconfitto un nemico? No, abbiamo vinto noi stessi. Abbiamo conseguito qualcosa di pienamente soddisfacente… Lottare e capire – una cosa non è possibile senza l’altra; questa è la vita…”.
Mallory è deceduto assieme al giovane compagno di corda Andrew Irvine durante la scalata per la conquista della vetta dell’Everest, nella spedizione del 1924. Entrambi gli alpinisti furono inghiottiti da una bufera di neve dopo essere stati avvistati a poche centinaia di metri dalla cima. Da allora la sua vicenda è diventata leggenda: la sua passione e il suo entusiasmo per le grandi montagne e per l’Everest, la sua quasi ossessione era l’essenza della vita, assieme al coraggio di superare ogni limite al di là della resistenza umana. A quei tempi le spedizioni himalayane erano dilettantistiche e l’equipaggiamento molto più primitivo di quello odierno: i vestiti di lana e di seta e le scarpe di cuoio erano più adatti a una gita in montagna che a una spedizione estrema. I due alpinisti sono saliti senza sapere veramente a che cosa andassero incontro e non tornarono indietro, ma ancora oggi non è dato sapere se i due britannici riuscirono o meno nell’impresa quasi trent’anni prima della conquista. Per la maggioranza degli uomini, il tentativo alla cima più alta del mondo, e in quell’epoca, equivale ad un suicidio, come la scalata di una grande e difficile parete rocciosa è soltanto la conquista dell’inutile, ma per la maggior parte degli alpinisti non lo è, anzi, le scalate ti danno la gioia di esistere.
Cosa spinge l’uomo a mettere in pericolo la propria vita? Quanti alpinisti hanno perso le loro giovani vite per rincorrere la loro passione, per essere fedeli ai loro sogni. Quante tragedie sulla Nord dell’Eiger, come su altre montagne, ma nonostante ciò la sfida continua. Pensando al fortissimo alpinista Tom Ballard, il mio pensiero vola a un altro grande alpinista americano John Harlin jr. che, a soli nove anni, perse il padre, suo omonimo, a causa della rottura di una corda sempre sulla parete Nord dell’Eiger. Il piccolo promise a sua madre che non sarebbe mai diventato un alpinista e fece di tutto per rimanere fedele alla promessa. Ma la passione non gli dava pace: doveva ripercorrere la stessa via, passando proprio per il punto dove avvenne l’incidente fatale. Riuscì a compiere l’impresa quarant’anni dopo, contro le angosce della madre e della moglie.
Tra me e me: “Probabilmente avrei fatto la stessa cosa”.
Loro erano in due, d’inverno, su un ottomila.
Come Revol e “il Matto”, ma un poco di più e nessuno altro prima.
Ma magari mi sogno.
Loro erano fra quelli che hanno avuto coraggio e sono scesi dalle piante per provare a scoprire il mondo.
Chissà perchè la gente non ha più la curiosità di leggere ciò che scrivono i grandi alpinisti e non ha più la voglia di conoscere la storia dell’alpinismo.
L’alpinismo, come l’uomo, procede sempre a piccoli passi e chi li confonde o non li conosce di sicuro riesce a capire poco dell’alpinismo e dell’uomo.
Per me è deludente: quasi tutto è sempre già accaduto e ogni volta c’è qualcosa di nuovo, piccolissimo, ma nuovo.
Mamma mia che infinita tristezza in questa vicenda… e che belle parole finalmente si leggono, dopo vagonate di assurdità, invidie, presunzioni e chiacchiere geriatriche su due poveri ragazzi morti facendo quello che amavano fare.
Cercando qualcosa dopo la scomparsa di Nardi e Ballard, su questo blog, incappai nell’articolo “I Rompicoglioni”, ugualmente folgorante.
Un pensiero ai cari dei 2 alpinisti
Mario Spini, allora, mettiamo fuori legge l’alpinismo. In fondo non serve a nulla. Sia quello facile che quello estremo. Perché la gente non si ammazza solamente con quello estremo. Anzi !!
Chi pratica forme di alpinismo molto rischiose penso sia ben consapevole di alcuni conseguenze: nei confronti dei propri affetti (se ne ha) compie un gesto di assoluto egoismo. Se sopravvivera’ proverà una fortissima gratificazione per l’ affermazione personale, indipendentemente dal valore assoluto dell’impresa. Se morirà si esporrà inevitabilmente al giudizio morale, di chiunque verrà a conoscenza del fatto , ed al giudizio tecnico degli addetti ai lavori. Voi mi direte: ma chi se ne frega del giudizio degli altri! Certamente, condivido. E’ proprio per questo che il rimpianto più straziante non potrà che essere il dolore dei tuoi cari rimasti.
ci sono dei casi in cui questo è sicuramente vero. Non lo so se lo è stato per Tom e Daniele. Spero di no! Spero che abbiano avuto ben altre motivazioni.
Anche per Comino sui seracchi della Poire è stato consumistico?
Si può dire che il tentativo di Comino al seracco della Poire sia stato una forzatura che ha fatto male al mondo della montagna, dell’alpinismo?
Lui ha fatto una scelta, credo anche molto ragionata. Non credo che abbia voluto lanciare un esempio.
Vorrei concentrarmi su un punto specifico. Oggi le pressioni mediatiche e commerciali sono diventate così pressanti che, per distinguersi, occorre andare sempre oltre.
Voglio dire 30-35 anni fa Messner stupiva il mondo concatenando due 8000 oppure salendo l’Everest in solitaria e senza ossigeno… oggi passerebbe inosservato ripetere queste performance, che pure sono di rilievo oggettivo.
Allora per conquistarsi oggi la prima pagina bisogna fare “di piu'”, sempre di più e si arriva a tentare qualcosa (Sperone Mummery in prima assolurta durante l’inverno) che, raginevolmente, pare proprio oltre ogni limite sensato.
Le cose in genere vanno bene, a volte purtroppo no.
A me tutto questo non piace. Non é una “sana” ricerca di andare oltre il limite, ma é una forzatura conseguente al modello consumistico e commerciale. E questa forzatura non fa bene al mondo della montagna.
Molto belli entrambi gli interventi.
Bellissime parole, bellissimo articolo 🙏
parole sante