Questione di carattere
di Stenio Solinas
(già pubblicato il 9 novembre 2018 su ilgiornale.it)
Spessore 4, Impegno 4, Disimpegno 0
A leggere Lo stile italiano, di Romano Benini (Donzelli, pagg. 338, euro 22), si ha la stessa sensazione che la musica di Wagner procurava a Woody Allen in un film: «Viene voglia di invadere la Polonia».
Siamo i migliori, per arte, cultura, storia, gusto: e lo siamo da secoli. Economista e docente di moda industriale, Benini non è uno sciovinista o un esaltato: segue il filo rosso dell’etica unita all’estetica che dagli Etruschi ai giorni nostri, passando per l’antica Roma, l’età dei Comuni, il Rinascimento e il Barocco si è dipanato con alti e bassi, ma non si è mai spezzato. «La ricerca della bellezza e della qualità, le vocazioni dei territori, la creatività e il design non sono che le forme esteriori di una specifica cultura» spiega, «di una vicenda storica e del carattere stesso dell’Italia».
Naturalmente, definire lo stile, ovvero il carattere, di un popolo è un esercizio di alta acrobazia, pericoloso in un Paese come il nostro dove antitaliani per definizione, Dante per fare solo un nome, convivono con arcitaliani altrettanto definiti, Mussolini per farne un altro, in un amalgama che quando non è impossibile si rivela esplosivo. Benedetto Croce ammoniva che il carattere di una nazione era «la storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia», ma per essere coerente con l’assunto ne datava l’esistenza a partire dal Settecento e nel descriverne il percorso dall’Unità alla Prima guerra mondiale lasciava però interdetto il lettore non spiegandogli come il razionale trionfo della libertà lì narrato avesse poi portato alla caduta di Giolitti, alla Grande guerra e al Fascismo.
Si dirà che prima di essere una nazione incarnata in uno Stato l’Italia sia stata un’idea ed è un’osservazione sensata. Esiste un mito italiano, del quale ovviamente fanno parte Roma e la romanità, anche se non si può certo dire che gli italiani siano una diretta discendenza dei romani.
Benini definisce «l’influenza della politica dell’impero romano o delle potenze rinascimentali» come il frutto «non del potere delle armi o del condizionamento economico», ma come «trasmissione di un sistema di regole di riferimento, di strumenti culturali e di standard di benessere condiviso», ma è una tesi azzardata.
Alphonse de Lamartine – 1790-1869.
Non solo perché nel primo caso la forza delle armi e un alto concetto del diritto fecero del civis romanus il modello di riferimento, ma perché nel secondo non si tiene conto della realtà effettuale: l’Italia rinascimentale, così come quella dei Comuni medievali con cui era venuta fondendosi, gronda, letteralmente, di sangue, un’impressionante litania di faide, fratricidi, vendette, distruzioni.
Ciò che nel saggio di Benini è un po’ lasciata da parte, è del resto proprio la dimensione del politico, senza la quale però il tentativo di definire uno stile, ovvero un carattere, italiano, resta monco. L’autore si rifà alla vocazione universalistica dell’impero romano e del papato per spiegare la tarda formazione nazionale e statuale e, di converso, un nazionalismo tiepido a petto di prospettive europee o sovranazionali. Così facendo sorvola però sulla plurisecolare decadenza italiana, dal Seicento all’Ottocento, «la terra dei morti» di Lamartine, «l’espressione geografica» di Metternich, e non tiene conto che è proprio il Machiavelli fondatore della moderna scienza della politica a vedere nel papato universale il peggior nemico di una dimensione propria e nazionale, e nella rissosità dei principi, eternamente in lotta fra loro e preferenti la sudditanza allo straniero a un’egemonia indigena, le cause di un’endemica debolezza e di una sostanziale condizione di minorità continentale.
Klemens von Metternich – 1773-1859.
Si dice comunemente che i Comuni, le Signorie, il Papato e il Fascismo siano le quattro istituzioni politiche originali corrispondenti al carattere e alle tradizioni italiane, il che vale a dire sistemi tirannici o oligarchici. Di queste il Fascismo fu per certi versi il tentativo di «italianizzare», cioè portare a compimento, quel Risorgimento che era stato minoritario e anti-municipale, antitaliano insomma e però un’invenzione politica che arrivava quattro secoli dopo l’invocazione machiavelliana di un Principe nazionale e che per potere essere vincente si era fondata sull’utilizzo spregiudicato dello straniero non potendo contare sull’appoggio dell’italiano. Questo per dire che nella stessa storia d’Italia sono proprio gli «antitaliani» quelli che vedono al di là delle beghe e degli interessi di cortile, delle fazioni e degli odi intestini. È anche questo a fare dell’Italia un laboratorio politico di prim’ordine nel suo oscillare fra il quieto vivere di chi nasconde dietro la retorica dell’universalismo l’accettazione di fatto di una sudditanza politico-economica e chi, proprio per il pregresso di una civiltà plurisecolare, cerca di farvi corrispondere una consapevole e compiuta dignità nazionale. È da questo laboratorio politico che nel secondo dopoguerra novecentesco, quando la logica dei blocchi faceva dell’Italia un protettorato Usa nel quale politicamente contava più il ministero delle Poste che quello degli Esteri, venne fuori prima il compromesso storico e poi l’eurocomunismo, ovvero un tentativo di scartare a sinistra senza uscire dai binari delle democrazie occidentali. Ed è sempre da questo laboratorio politico che, caduto il Muro di Berlino, è venuta fuori prima la riverniciatura liberal-liberista a destra dell’ormai esausto corpaccione democristiano, privato di senso, per le mutate condizioni geopolitiche, nel suo identificarsi con l’universalismo vaticano; poi la creazione di un populismo antipartitocratico più o meno da sinistra, con il sorgere del Movimento cinque stelle; infine, è cosa dei giorni nostri, l’inedita alleanza di un populismo duplice, leghista-grillino, sentito come anti-europeo perché innanzitutto nazionale e anti-economicista, fatto unico nella storia del Vecchio continente.
Niccolò Macchiavelli – 1469-1527.
Anche questi esperimenti aiutano a definire uno «stile italiano» e vanno esaminati con attenzione. Del resto, uno dei nostri drammi come nazione consiste nell’avere un metabolismo da ricchi in un fisico da morti di fame: niente materie prime, nessuna ricchezza sotterranea e però una stupefacente capacità creativa che fatica a trovare l’alveo politico che la incanali e la sfrutti.
È l’eterno riproporsi di antichissime lotte civili fra un’Italia guelfa, municipale e clericale che puntualmente si ritrova a fare i conti con le sue minoranze ghibelline, sognatrici, certo, eppure consapevoli che l’Italia con i piedi per terra è l’Italia peggiore, quella della vacanza dalla storia, quella per la quale la storia è una vacanza.
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