Quintino Sella e la battaglia del Cervino (parte 2)
Le lettere ritrovate con il retroscena politico e con la regia dello statista alpinista
di Pietro Crivellaro e Lodovico Sella
Il testo di questo saggio è corredato dai Documenti. Rimandiamo perciò al testo integrale: i Documenti sono da pag. 40 in poi.
Il testo integrale è stato pubblicato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito degli Scritti (Gli Archivi e la Montagna) in onore di Paolo De Gasperis, a cura di Francesco M. Cardarelli e Maurizio Gentilini (Documentalia 7).
I “congiurati” del Club Alpino
Tornando agli inizi della vicenda, grazie a lettere ora riscoperte, nel “complotto patriottico” delineato dal canonico Carrel e tramandato da Guido Rey entrano in scena e si rivelano meglio i connotati dei “congiurati” più attivi, esponenti di spicco del CAI, reclutati da Sella nell’ambiente del parlamento e dei ministeri.
Il deputato e giornalista novarese Giuseppe Torelli è lo spiritoso ambasciatore che, salito al Breuil per “cinque giorni di cura” sui ghiacciai del Monte Rosa nell’ultima decade del luglio 1864, induce l’ex bersagliere Carrel decorato a Solferino a recarsi a Biella per incontrare Sella che lo ingaggia per l’onore della nuova Italia. Torelli svela che del progetto della prima ascensione del Cervino è al corrente anche il deputato napoletano Giovanni Barracco, il primo alpinista italiano ad avere salito il Monte Bianco e il Monte Rosa. E il barone Barracco, che ha partecipato alla vittoriosa spedizione sul Monviso capitanata da Sella, conferma il piano in una lettera in cui commenta il tragico successo di Whymper (9).
L’ingegnere grignaschese Costantino Perazzi, che sarà sempre tra i più stretti collaboratori di Quintino Sella al ministero delle Finanze e ne seguirà le orme dopo la sua morte diventando ministro dei Lavori Pubblici, è figura ricorrente negli scambi di lettere tra Sella e Giordano, anche lui vivamente interessato all’alpinismo: come si sa, il nome di Perazzi è rimasto a due creste, del Castore e del Lyskamm. Sullo sfondo si intravede anche il professor Bartolomeo Gastaldi, il segretario della Scuola d’applicazione per gli ingegneri fondata da Sella al Castello del Valentino, dove si sono riuniti i “congiurati” e dove non a caso è poi nato il CAI. Gastaldi, il destinatario della famosa lettera del Monviso e docente subentrato a Sella nella cattedra di Mineralogia, nell’autunno 1864 accetta di assumere la presidenza del neonato Club nel momento di sbandamento seguito alla morte improvvisa del giovane presidente, barone Ferdinando Perrone di San Martino e al trasferimento della capitale da Torino a Firenze annunciato dalla Convenzione di settembre, che a Torino scatenò tumulti soffocati nel sangue. Le circostanze della morte prematura del primo presidente sono ora svelate da una lettera a Sella, non priva di intrecci alpinistici, del fratello minore Arturo che l’anno seguente tenterà di rimpiazzare Giordano sul “fronte” del Cervino, venendo però respinto dal maltempo.
Assunta la presidenza del CAI, Bartolomeo Gastaldi si dedica prontamente a fondare il “Bollettino”, periodico ufficiale del Club Alpino che spegne le velleità del letterato napoletano Giorgio Tomaso Cimino, che ha dato una mano a Sella a reclutare soci e per primo ha fondato il periodico “Giornale delle Alpi, Appennini e vulcani” che avrà vita breve. La lettera a Sella in cui Giordano detta le condizioni per concedere alla rivista di Cimino il resoconto della sua salita al Monte Bianco, la prima di un italiano condotto dalle guide di Courmayeur per la nuova via “dei tre monti” (Tacul, Maudit e Bianco vero e proprio), svela la scarsa considerazione della cerchia dei torinesi per il primo periodico alpino fondato dal giornalista napoletano.
Un impedimento inedito
Ma dall’archivio di Quintino Sella sono emerse novità che rivelano come la partita in realtà sia stata persa già nell’estate del 1864, quando Carrel era pronto a condurre in vetta lo statista biellese, ma questi non riuscì a muoversi da casa.
Il documento capitale è la lettera del 7 agosto in cui la guida annuncia al suo cliente di aver compiuto ricognizioni in quota, che «la montagna non potrebbe trovarsi in condizioni migliori», che è meglio affrettarsi per avere speranza di successo e Whymper è già tornato a casa (10).
Sappiamo che il deputato biellese quell’agosto fu assorbito dalla preparazione della carta geologica del Biellese, in vista del convegno dei naturalisti italiani organizzato con l’abate milanese Antonio Stoppani, il futuro autore de Il Bel Paese. Il convegno si terrà ai primi di settembre a Biella, presieduto da Sella. Oltre a queste occupazioni, stava per scoppiare la bomba della Convenzione di settembre, l’accordo italo-francese per lo spostamento della capitale da Torino a Firenze che avrebbe fatto cadere il governo Minghetti e riportato Sella al ministero delle Finanze.
Dalle carte d’archivio salta fuori un impedimento di tutt’altra natura. Il 10 agosto, tre giorni dopo il sollecito di Carrel, Felice Giordano, che ha appena scalato il Monte Bianco e si appresta a spostarsi in zona Cervino, gli scrive da Courmayeur: «Caro Quintino. Non ebbi più notizie del tuo furuncolo e se sei o no in stato di camminare» (11). Forse l’impegno per la carta geologica poteva essere delegato per qualche giorno ai fidi colleghi geologi Gastaldi e Berruti, ma con un foruncolo che impedisce di camminare, il Cervino deve attendere. Fino all’estate seguente e alla sconfitta annunciata dalla miope venalità di Carrel.
La spiacevole constatazione, abitualmente ignorata o elusa dai connazionali per il prevalere delle esigenze patriottiche e celebrative, era stata come sappiamo già additata dal canonico Georges Carrel, grande intenditore della materia e testimone degno di fede. Conferma la responsabilità di Carrel anche il figlio di Quintino Sella, Alfonso, che aggiunge nuove circostanze nel necrologio dedicato alla guida Jean-Joseph Maquignaz pubblicato sul fascicolo del “Bollettino” del CAI all’inizio del 1891. Lo stesso fascicolo (n. 57, vol. XXIV) ospita anche i necrologi di Jean-Antoine Carrel e di Antonio Castagneri, illustri vittime della montagna dell’estate appena trascorsa. Riassumendo la fase decisiva della conquista del Cervino, Alfonso Sella scrive: “Verso il 1865 i migliori alpinisti inglesi, incoraggiati dai loro brillanti successi sopra altre vette, lottavano a gara per la conquista del monte creduto fino allora del tutto inaccessibile. Quintino Sella e Felice Giordano concepirono il grandioso progetto di strappare allo straniero la vittoria e la lotta acquistò quasi il carattere di un’impresa nazionale. Essendo il primo trattenuto alla capitale da gravi cure di stato, solo Giordano poté recarsi sul luogo, dove organizzò tosto una comitiva di guide, affidandone la direzione suprema a Giovanni Antonio Carrel. Questi si era aggregato il Maquignaz per servirsi della sua opera ove occorresse piantare chiodi o fissare corde alla roccia. E Giuseppe doveva salire ogni volta con un carico di attrezzi del peso di ben 25 chilogrammi!”.
Alfonso Sella
Facile immaginare che la testimonianza sia frutto di una confidenza della guida Maquignaz che era stato ingaggiato da Quintino Sella nell’estate 1877 per la sua ascensione al Cervino con i figli, e soprattutto avrebbe condotto al successo i giovani Sella sul Dente del Gigante nel 1882.
“Un giorno, sotto la Grande Torre Giuseppe dichiarò di voler abbandonare il suo sacco per salire più liberamente, visto che si indugiava e che dei suoi ferri non si faceva uso. Ne nacque una discussione vivissima tra lui e il capo, tanto più che Maquignaz, Cesare Carrel e Carlo Gorret volevano salire a ogni costo… Non è il caso di continuare qui la narrazione precisa di quanto avvenne; dinanzi a una morte recente e gloriosissima dopo una vita passata a riscattare nobilmente un istante meno lodevole, è obbligo sacrosanto il tacere!”.
La pietosa reticenza del parce sepulto ci impedisce di conoscere maggiori dettagli sulla confidenza di Maquignaz, il quale nel settembre 1867 si era emancipato dalla sudditanza a Carrel risolvendo brillantemente il problema della via diretta alla vetta italiana del Cervino nel tratto finale. Malgrado ciò il significato è chiaro e il giudizio sulla responsabilità di Carrel per la sconfitta tra gli intenditori è assodato.
L’onore nazionale
Per tirare le somme dell’intera vicenda del Cervino resterebbe la più ampia questione dell’onore nazionale evocata anche da Alfonso Sella. Abbiamo l’opportunità di scoprire come davvero la pensasse Quintino Sella in merito alle relazioni alpinistiche italo-inglesi grazie a una lettera di qualche anno più tardi.
Nel sorprendente documento il fondatore del CAI abbandona per un attimo il consueto tono cordiale e diplomatico e reagisce polemicamente per rivendicare l’autonomia dell’alpinismo italiano nei confronti degli Inglesi. Siamo all’indomani del settimo congresso del Club Alpino Italiano, svoltosi a Torino il 10 agosto 1874. È stato un appuntamento importante che ha coronato idealmente il decennale. Qui lo statista biellese che gode in quegli anni del massimo prestigio politico, pur avendo lasciato il ministero delle Finanze nel giugno 1873, è stato chiamato a presiedere l’assemblea dei rappresentanti delle sezioni del Club, che sono ormai venti, sparse da Aosta fin giù all’Aquila, Roma e Napoli, per un totale di 2100 soci. In veste di presidente del convegno Sella ha pronunciato ben tre discorsi, che ci sono rimasti, nei quali ha tracciato un bilancio più che lusinghiero dei progressi del Club «durante l’undicennio decorso dalla sua fondazione» concludendo che «in fatto di alpinismo l’Italia non fa oggi cattiva figura se paragonata ad altre nazioni … siamo dunque il 4° Club d’Europa per ordine di antichità, ed il secondo per numero di soci. Correremmo il rischio di essere il primo se il Club tedesco-austriaco fosse diviso fra la Germania e l’Austria »… L’ex ministro delle Finanze ha commentato, non senza autoironia: «Possiamo essere soddisfatti. Confesso che non mi occorse mai di esporre numeri con la contentezza che oggi provo. Ma non addormentiamoci sugli allori… » (12). Se si riesaminano i tre discorsi pronunciati da Sella al convegno si noterà che sviluppano e insistono sui valori morali, educativi e scientifici dell’attività alpina. Dalle trascrizioni integrali non emerge alcun accento inopportuno sull’orgoglio nazionale che potesse urtare quello degli stranieri, anche perché al convegno di Torino erano presenti in veste di ospiti invitati «rappresentanti dei club alpini esteri».
La festa viene guastata dai resoconti dei giornali che evidenziano un intervento dell’abate Antonio Stoppani smaccatamente elogiativo verso l’inglese Richard Henry Budden per il suo operato a favore del CAI. Tornato nella quiete di Biella, Quintino Sella, punto sul vivo dai resoconti dei giornali, reagisce con una lettera in crescendo polemico al vicepresidente del CAI, il suo giovane collega geologo Giorgio Spezia (13). Una lettera vivace, che merita di essere riletta quasi per intero perché fa affiorare in modo esplicito la tacita competizione con l’Alpine Club e gli Inglesi e dichiara le motivazioni della riscossa alpinistica italiana guidata da Quintino Sella:
“Biella, 12.8.74 (14)
Pregiatissimo collega in excelsis.
Stoppani nel suo bellissimo ed opportuno brindisi al Budden disse che il Budden fece l’apostolato del Club Alpino in Italia, mentre nessuno in Italia pensava all’alpinismo. Io lasciai correre la frase senza osservazioni: mi parve un’innocua esagerazione di cortesia verso un uomo così benemerito, così amato da tutti. Il Budden non rifletté certamente alla portata della frase.
Ma ho veduto che tutti i giornali di Torino si sono affrettati a riprodurre proprio quella frase lì.
Richard Henry Budden
Tutto ciò può introdurre l’opinione che se il Club Alpino in Italia si è fondato lo si deve all’apostolato del Budden. Se anche ciò si vuol credere non me ne cale molto per la mia persona, ed avrei ben volentieri alzato le spalle su questa come su tante altre false credenze.
Ma qui è in scena un po’ l’onore e molto l’interesse del Club Alpino. L’onore, o se si vuole un po’ di vanagloria nazionale, giacché se abbiamo fatto il Club ad imitazione degli stranieri, non abbiam aspettato che gli stranieri venissero personalmente a stimolarci.
Io conobbi il Budden soltanto dal 1865 o nel 1866 a Firenze o forse anche più tardi. Nel primo elenco dei 200 soci del 1863 che ho sott’occhio il Budden non c’è. Come non è il suo nome nell’elenco dei 40 che offrirono doni per il primo impianto. Il Club era arcifondato quando il Budden cominciò ad occuparsene.
Dei soci fondatori il S. Robert conosceva il Mathews e il Tuckett. Io non li conobbi mai, ma non credo che neppure al S. Robert siano stati stranieri quelli che andarono a suggerirgli la efficacissima cooperazione che diede al Club nell’iniziarlo.
Insomma gli stranieri nella fondazione del Club non ci sono proprio entrati in nulla. … L’interesse del Club può aver danno dall’accreditarsi della voce che l’apostolato straniero abbia creato l’alpinismo in Italia. Non dimentichiamo che il vincolo più forte per legare le varie sezioni del Club è la gratitudine verso Torino come culla e autore del Club. Se invece la gratitudine devesi all’apostolato straniero questo vincolo vien meno. Ed Ella capisce tutto il pericolo dello spezzamento di questo vincolo.
Ora non pare a Lei ed ai colleghi alpini della direzione che sia necessario far conoscere il vero? Il miglior modo sarebbe che il Budden stesso scrivesse una lettera a qualcuno dei giornali di Torino, nella quale dicesse che egli non fece apostolato che per la diffusione del Club, ma dopo che era già stato creato per iniziativa esclusivamente italiana.
Questa lettera converrebbe poi vedere di farla stampare anche negli altri giornali e poscia nel Bollettino e nell’Alpinista. Forse sarà utile ristampare l’elenco dei primi oblatori, che qui unisco con preghiera di restituzione caso mai Ella nol trovasse facilmente.
Corpo di un cane! Han fatto troppo gli stranieri perché si attribuisca loro anche ciò che non hanno fatto.
Sono certo che lo Stoppani in piena buona fede disse la sua frase immaginandosi che dal 1853 al 1863 io facessi dell’alpinismo perché avevo il Budden ai reni, e così fosse di tanti altri che all’enunciato del Club Alpino presero fuoco e che già avevano fatto ascensioni.
Suo devotissimo Q. Sella”.
Il fondatore del CAI è dunque perfettamente consapevole del primato e della superiorità dell’Alpine Club. Nel suo bilancio sulla consistenza dei vari Club alpini nazionali, dichiara non senza fierezza che gli alpinisti italiani dopo il primo decennio di vita ammontano a 2300, «compresi in essi i Trentini» precisa Quintino Sella reclutando idealmente anche i soci della neonata Società Alpinisti Tridentini, che resterà soggetta all’Austria fino alla fine della Prima guerra mondiale. Nella sua enumerazione curiosamente gli Inglesi finiscono in coda perché i soci dell’Alpine Club non sono più di 300, ma egli si affretta a precisare che sono «pochi ma valenti». Infatti se guardiamo al volume dell’attività alpinistica questi numeri non rispecchiano le reali forze in campo, visto che la messe di successi ottenuti dai sudditi della regina Vittoria ancora in quel 1874 rimane schiacciante. I Club alpini del continente, quello italiano, lo svizzero, l’austriaco da oltre un decennio, e ora anche il neonato Club Alpin Français (fondato solo nel 1874), benché più forti sulla carta, cercano di emulare e fare concorrenza all’iniziativa dei maestri inglesi, ma in montagna restano inseguitori e subalterni.
Riguardo alla gara per il Cervino si può osservare tra i due contendenti una vistosa asimmetria, perché dietro al campione Carrel è schierato il Club Alpino, organizzato con notevole potenziale di uomini e mezzi, mentre dietro al caparbio Whymper ci sarebbe solo la sua personale determinazione a non farsi precedere.
Io penso invece che si tratti di un’asimmetria apparente perché i successi dei soci dell’Alpine Club in ogni zona delle Alpi dimostrano che i britannici sono i più intraprendenti e agguerriti sul campo, animati da un agonismo che non teme confronti. Semplicemente agiscono e si battono con una tattica più spontanea, più sistematica e più efficace. Se possono sembrare “cani sciolti” in realtà fanno parte di un gruppo molto selettivo ed elitario, nel quale si entra solo per meriti e cooptazione, sulla base di una cospicua attività, mentre per entrare in tutti gli altri Club alpini basta versare una quota. Proprio nel libro del Cervino compare una delle incisioni più famose ed emblematiche dello stesso Whymper, l’assembramento dei membri più in vista dell’Alpine Club ritratti nel 1864 sulla piazzetta di Zermatt che il disegnatore-alpinista ha intitolata spiritosamente “sala riunioni”. La scena rappresenta idealmente il quartier generale dei colonizzatori delle Alpi pronti all’azione sul “terreno di gioco” per contendersi sempre nuove conquiste. Se per uno dei leader più anticipatori come Leslie Stephen, le Alpi sono già il “playground”, il “campo giochi” per gli Inglesi che praticano un nuovo sport, «come il cricket o il canottaggio» preciserà Stephen (15), si può credere che anche la corsa alla vetta del Cervino sia propriamente una gara, piuttosto che una battaglia.
Il carteggio che segue dimostra invece con evidenza che la conquista di quella vetta contesissima e inespugnabile secondo l’élite politica che fa capo a Quintino Sella ha un notevole valore simbolico per l’onore dell’Italia. L’obiettivo è conquistarla con una cordata italiana per farvi sventolare la bandiera tricolore.
I fatti poi hanno dimostrato che, se l’alpinismo è uno sport, certo non è innocuo «come il cricket o il conottaggio». Perché le quattro vittime della cordata capitanata da Whymper stanno lì a provare che la vittoria inglese è stata pagata a caro prezzo, come in una sanguinosa battaglia vera. Lo conferma una consolidata tradizione che attribuisce alla regina Vittoria, contrariata dal dramma del Cervino, l’intenzione di far regolamentare o anche proibire l’alpinismo. In realtà i documenti provano solo che la sovrana annotò sul suo diario personale che «quattro poveri inglesi [in realtà tre, perché la guida Croz era francese], tra cui un fratello di Lord Queensberry [Lord Francis Douglas] hanno perso la vita in Svizzera affrontando in discesa un passaggio molto pericoloso sul Cervino e precipitando nell’abisso» (16).
La storia dell’alpinismo soprattutto tra le due guerre mondiali e nelle spedizioni nazionali agli ottomila dell’Himalaya ha dimostrato che le conquiste alpinistiche hanno spesso avuto forti moventi e risvolti politici e nazionalisti. Mentre la storia novecentesca dello sport ha svelato l’enorme seguito per l’opinione pubblica di ogni nazione che hanno i campioni e le squadre dei propri colori nei grandi eventi sportivi internazionali. In ogni caso l’iniziativa di Quintino Sella per il Cervino, per quanto non coronata dal pieno successo desiderato, appare quantomeno uno dei primi, più rilevanti esempi di uso politico dell’alpinismo.
Note
(9) Grazie a Guido Rey che cita nella sua opera sul Cervino il libro dei viaggiatori dell’Hotel du Mont Rose di Valtournenche riscopriamo un dettaglio prezioso su Barracco “calabrese” che vi registrò il suo nome nell’estate 1861, precisando che «fece allora la salita del Breithorn con la guida Augustin Pelissier» (G. Rey, Il Monte Cervino, cit., p. 69). Il dettaglio permette di precisare il sodalizio alpinistico tra Barracco e Sella che li legò nella vittoriosa ascensione del Monviso dell’agosto 1863 e che viene qui arricchito sia da questa segnalazione di Torelli, sia dai commenti inediti sul Cervino nella lettera di Barracco a Sella dell’11 agosto 1865 riportata più avanti. Anche Sella era fiero d’aver salito fin dal 1854 la magnifica cima glaciale del Breithorn (4165 m) proprio di fronte al Cervino, evitando con prontezza ed energia un grave incidente alla sua cordata. In proposito, si veda Q. Sella, Una salita al Monviso: lettera a Bartolomeo Gastaldi, segretario della Scuola per gli ingegnieri, a cura di P. Crivellaro, Verbania, Tararà, 1998. In particolare, oltre al cenno di Sella all’episodio del Breithorn, pp. 33-34, vedi nota 9 sul profilo di Barracco, pp. 55-56 e nota 27 sulle sue ascensioni al Monte Rosa e al Breithorn.
(10) Lettera n. 10.
(11) Lettera n. 11.
(12) Discorsi parlamentari di Quintino Sella, vol. I, Roma, Camera dei Deputati, 1887, pp. 597- 601.
(13) Giorgio Spezia (Piedimulera 1842-Torino 1911), garibaldino, che nel 1860 combatté in Sicilia e al Volturno, si laureò nel 1867 in ingegneria alla R. Scuola d’Applicazione, dal 1871 al 1874 si specializzò in Mineralogia a Gottinga e a Berlino e al suo rientro a Torino fu prima assistente di Bartolomeo Gastaldi nella cattedra di Mineralogia e geologia della quale divenne professore ordinario nel 1878. Nel 1874 era vicepresidente del CAI, nel 1875 ne fu presidente. Al suo nome è legata la prima via italiana alla Cima di Jazzi nel gruppo del Rosa, salita nel 1874.
(14) In G. Bustico, Un apostolo dell’alpinismo, Giorgio Spezia, estratto del “Bollettino Storico per la Provincia di Novara”, X, fascicolo unico, Novara, G. Cantone, 1916, pp. 10-12. La lettera è stata ristampata con varie correzioni nei nomi e note in Epistolario di Quintino Sella, vol. IV, 1872- 1874, a cura di G. e M. Quazza, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1995, pp. 660-663.
(15) L. Stephen, The Playground of Europe, London, Longman, 1871 (trad. it. Il terreno di gioco dell’Europa. Scalate di un alpinista vittoriano, Torino, CDA & Vivalda, 1999).
(16) Une note inédite de la Reine Victoria, in C. Gos, Le Cervin, tome II. Faces et grandes arêtes. Neuchatel-Paris Victor Attinger, 1948, pp. 161-164.
Pietro Crivellaro
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Bel lavoro! Pensando alla scenografia, sembra di leggere la sceneggiatura di un film.