Raccolta rifiuti, l’Italia sommersa verso la paralisi totale – 2 (2-2)
di Jacopo Giliberto
(pubblicato su ilsole24ore.com il 15 ottobre 2018
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Impianti intasati, capannoni abbandonati
Dal 2014 Il Sole 24 Ore ha potuto censire 343 casi di incendi a impianti o macchinari di lavorazione dei rifiuti.
• Impianti di trattamento rifiuti andati a fuoco: 136.
• Incendi in discariche: 31.
• Fuoco in isole ecologiche, a compattatori, a piattaforme di selezione: 45.
• Impianti di compostaggio danneggiati dalle fiamme: 6.
• Discariche abusive incendiate: 103.
• Ecoballe date alle fiamme in Campania: 5 casi.
• Inceneritori colpiti da incendi: 14.
• Altri eventi: 3.
In qualche caso si è trattato di malavita, come quella scoperta a Corteolona (Pavia). Nell’autunno 2017 gli abitanti della zona avevano segnalato al sindaco e alle forze dell’ordine un singolare viavai di camion in uno stabilimento abbandonato. Sono state disposte le telecamere e avviate le intercettazioni, è stato possibile perfino filmare il giorno in cui uno dei criminali ha chiuso il cancello della fabbrica abbandonata con il nastro colorato che indicava il via libera, ed è stato intercettato anche il messaggio : «La torta è pronta, ho sparso liquore in diversi punti, soprattutto al centro. Domani puoi andare a ritirarla» (intercettazione telefonica del 3 gennaio 2018). E nella notte il “liquore” ha incendiato la “torta”, disseminando diossina. Gli autori sono stati arrestati.
Parrebbe simile il caso dell’incendio a Quarto Oggiaro (Milano), il cui fumo pungente ha spaventato per giorni i milanesi. Più difficile da valutare l’incendio contemporaneo di un deposito di carta da riciclare a Novate Milanese.
Ma non tutti i casi sono riconducibili alla malavita.
Ogni imprenditore del settore dei rifiuti ha, nella sua storia professionale, la testimonianza diretta dello svilupparsi di un incendio involontario e casuale: lo scintillare di un quadro elettrico, lo sfregamento di un cuscinetto di un nastro trasportatore, il miscelarsi di rifiuti infiammabili e di vapori esplosivi.
Alcuni incendi sono scatenati perfino dalle braci della stufa di cui qualche famiglia si è liberata soffocandole in mezzo all’immondizia normale, che riprendono rossore quando il compattatore rivolta la spazzatura.
In condizioni consuete, un’avaria seguita da un incendio si risolvono con l’estintore.
Il problema di queste settimane è il fatto che gli impianti di selezione e riciclo sono strapieni di materiali infiammabilissimi come plastica e carta; un incidente stupido può trasformarsi in un problema ambientale enorme e in un rischio altissimo per chi lavora nell’impianto.
In alcuni casi c’è chi individua capannoni abbandonati e li riempie a dismisura, oppure trasforma in discariche i terreni incolti. Un esempio: il 20 ottobre militari del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Lecce hanno sequestrato in località Paglione, nell’agro di Manduria (Taranto), un oliveto abbandonato di circa 5mila metri quadri sbancato per una profondità media di circa 1-2 metri e adibito a deposito illecito di rifiuti speciali non pericolosi come calcinacci da demolizione, plastica, ingombranti e sfalci di potatura.
Esportazioni bloccate dalle fideiussioni
C’è chi riesce a esportare verso l’Africa Settentrionale o verso i Paesi dell’Est Europa, ma le fideiussioni chieste dalle norme italiane per i Paesi non-Ocse secondo lo standard K2 sono in media 10 volte più salate rispetto alle normali fideiussioni imposte per chi esporta rifiuti transfrontalieri verso Francia o Portogallo.
Nel caso di una spedizione transfrontaliera di 2.500 tonnellate, il divario tra garanzia finanziaria imposta alle imprese italiane è rilevante:
• Applicando il coefficiente K2, si tratta di garantire per 2.667.588 euro.
• Non applicando il coefficiente K2, la garanzia sarebbe invece solo pari a 85.303 euro.
All’estero è diverso. Gli unici 2 Stati membri che, allo stato, risultano fare spedizioni in Paesi non-Ocse con la procedura di notifica e autorizzazione sono la Spagna e la Francia.
•Spagna: 122.500 euro di garanzie
•Francia: 200.000 euro di garanzie.
«Ciò dimostra l’incoerenza dell’approccio italiano, ma anche lo svantaggio competitivo che tale regola comporta per le aziende italiane», osserva l’avvocato d’ambiente David Röttgen.
L’ecotassa inglese sulla discarica paralizza l’Europa
Sono strapieni anche gli inceneritori tedeschi e olandesi. A causa dei rifiuti inglesi. È successo che l’Inghilterra, per arrivare all’obiettivo di chiudere le discariche, ha fissato un’ecotassa altissima, una multa che sale gradualmente con il passare del tempo per arrivare fino a 120 sterline per ogni tonnellata di spazzatura ficcata in discarica.
Di fronte a questa sanzione, agli inglesi diventa conveniente perfino un inceneritore olandese o tedesco.
Così vengono riempite le stive delle navi e l’immondizia inglese va a riempire le linee di combustione degli inceneritori europei.
Ovviamente i prezzi salgono, e rincara anche lo smaltimento dei rifiuti italiani.
Scarti alimentari come «idrocarburi inquinanti»
Ci sono aziende alimentari che accumulano gli scarti delle lavorazioni.
Sono materiali putrescibili ottimi per diventare compost, ma nessuno li ritira perché gli incendi paralizzano gli impianti, perché il mercato è fermo e perché ci sono le sentenze e le proteste contro l’uso dei fanghi in agricoltura.
Nel caso delle analisi sui “fanghi di depurazione” usati come concime in agricoltura succede che le farine residuali, i composti zuccherini, le melasse dell’industria alimentare, concimi strepitosi per i campi, invece vengono classificate dai nemici dell’ambiente come “idrocarburi” e quindi ci sono fortissimi problemi per quelle aziende alimentari i cui bidoni non trovano destinazione e non vengono svuotati.
Andamenti del mercato
Mentre non si costruiscono nuove discariche, i prezzi dello smaltimento dei rifiuti stanno correndo.
I prezzi di smaltimento in discarica si stanno impennando, ora hanno superato perfino il prezzo del servizio di incenerimento dei rifiuti e in Lombardia arrivano sui 140 euro per tonnellata.
L’allarme dei rigeneratori
Secondo l’associazione delle aziende di riciclo di materiali rigenerabili, l’Unirima, «mentre i dati Ispra evidenziano il costante aumento della produzione di tali rifiuti, le capacità degli impianti di destinazione che devono riceverli si stanno drasticamente riducendo con conseguente esponenziale incremento delle difficoltà da parte delle imprese del nostro settore nell’allocare tali scarti di lavorazione». Il problema sorge anche per carta e cartone provenienti dalle raccolte differenziate dei Comuni, e da altre raccolte differenziate di attività commerciali e industriali, perché «dalle attività di selezione e recupero di questi rifiuti finalizzate alla produzione di materia prima secondaria derivano scarti non riciclabili destinati al recupero energetico (inceneritori) o allo smaltimento in discarica».
Ma non ci sono più spazi nelle discariche o negli inceneritori, i magazzini si riempiono e presto la raccolta si fermerà.
GUARDA LA MAPPA / Tutti gli incendi per tipologia di impianto, località e data censiti dai Verdi
Scrive l’Unirima (un gruppo di ricuperatori che aderisce alla Cisambiente Confindustria) in una nota riservata alle autorità: «Gravissimi problemi logistici, di sicurezza ed ambientali e con la inevitabile conseguenza sul blocco dei conferimenti e quindi delle raccolte differenziate».
Per chi ha bisogno di traduzione, significa che c’è rischio di incendio altissimo, con pericoli per chi vi lavora, e c’è un forte rischio ambientale, e intanto fra un po’ si fermerà la raccolta dei rifiuti, compresa quella differenziata.
Pochi impianti per i rifiuti pericolosi
I rifiuti pericolosi sono in una situazione simile, e spesso devono essere smaltiti nel resto d’Europa. Ci sono quattro inceneritori per distruggere i residui tossici ; il più grande è quello nel polo chimico di Filago (Bergamo), assai più piccoli sono quelli a fianco della Raffineria di Augusta (Siracusa), nel polo industriale di Melfi (Potenza) e nel petrolchimico di Ravenna. Nel Torinese c’è la discarica di Barricalla, la maggiore delle 12 discariche italiane per rifiuti nocivi.
Il malinteso dei piani regionali
La pianificazione nella gestione dei rifiuti spetta alle Regioni, ma come ha dimostrato il caso del Lazio i piani regionali dei rifiuti sono strumenti di propaganda politica e di lubrificazione del consenso. Il classico piano regionale dice che nei cinque anni a venire la raccolta differenziata dei rifiuti farà faville, che ci sarà sempre meno bisogno di impianti. Secondo i piani regionali classici, gli impianti che più disturbano il consenso verranno chiusi o convertiti verso soluzioni innovative di economia circolare e rifiuti zero, il più delle volte inapplicate.
Mercato senza sbocchi: il caso cinese
A inizio 2018 la Cina aveva chiuso le frontiere a carta, plastica e altri materiali riciclabili, riaprendole poi per i soli materiali di qualità migliore e rimandando a casa le navi cariche di rifiuti mal selezionati e pieni di contaminazioni, come quelli che venivano spediti da alcune aziende olandesi.
Non a caso l’Olanda, invasa dai rifiuti inglesi e dai suoi propri materiali che non riescono ad andare in Cina, ormai fatica ad aprire i suoi impianti al materiale italiano.
Nel caso della carta, l’import cinese è crollato da 24 milioni di tonnellate a 18 milioni di tonnellate di carta con standard rigorosi di qualità.
Mercati senza sbocchi: la carta
La carta non trova una collocazione adeguata. La domanda delle cartiere italiane (ed europee) è molto più basso rispetto all’offerta enorme rappresentata dalla carta raccolta con diligenza da noi cittadini.
Le cartiere che usano carta riciclata hanno bisogno di un inceneritore per eliminare la spazzatura che i cittadini disattenti mescolano nei cassonetti della carta (come per esempio le buste di plastica che avvolgono le riviste o come la plastica dei cartoni del latte) e per esempio la cartiera della Pro Gest a Mantova non riesce ad accendersi perché i comitati nimby paralizzano l’inceneritore che le è asservito.
Mercati senza sbocchi: il vetro
Il vetro ormai va in pochissimi impianti e anche in questo caso viene riciclato solamente quello che risponde al fabbisogno, mentre le quantità ingenti di vetro raccolto devono finire in discarica. Veralia e Oi ne consumano, ma le quantità disponibili sono assai inferiori al fabbisogno delle vetrerie.
l consorzio ricupero vetro Coreve, uno dei consorzi del sistema Conai, scrive allarmato a un’azienda: «I lotti rimasti senza aggiudicatario nelle ultime aste ordinarie (n° 26, 27 e 28) e della successiva asta semplificata, che ammontano a 65mila tonnellate su base annua, stanno creando un grava grave situazione di emergenza ambientale». Il consorzio non è più in grado di avviare il vetro al riciclo.
Gli ispettori delle Arpa regionali stanno imponendo la chiusura d’autorità dei raccoglitori di vetro per eccesso di accumulo di rifiuti di bottiglie e si segnalano accumuli lungo le strade.
GUARDA IL VIDEO/Ciotti (Corepla): «Possibile il riciclo di stoviglie in plastica»
https://youtu.be/iQLDrx0oUmI
Mercati senza sbocchi: la plastica
La plastica è uno dei materiali più esposti alla paralisi del mercato, i consumatori non esigono prodotti di plastica riciclata; veniva scambiata anche per 200 euro la tonnellata e oggi nessuno è più interessato perché non trova più la destinazione del mercato.
Le aziende di selezione e riciclo si riempiono di plastica pulita che non riescono a vendere, ma si trovano pieni anche di tutti i rifiuti che erano mescolati con la plastica nei bidoni della raccolta differenziata, e non trovano inceneritori o discariche disponibili ad accettare quel materiale.
Perfino le imprese aderenti all’, l’associazione confindustriale dei riciclatori, hanno dovuto lanciare un allarme per il «mancato ritiro degli imballaggi in plastica pressati dai Centri Comprensoriali»: le aziende selezionano la plastica per darle nuova vita ma nessuno viene a ritirare il materiale.
La plastica che non riesce a finire negli inceneritori viene accumulata dai riciclatori che non trovano acquirenti del prodotto finito, con un rischio grande di incidenti.
Oppure finisce in mano alla malavita, che riempie di plastica di capannoni che bruciano.
È una situazione temporanea perché l’Europa sta spingendo per riuscire a creare un mercato secondario della plastica rigenerata. Ma gli effetti si sentiranno fra anni.
Le aziende di servizi pubblici locali
Per Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia «non si tratta più di emergenze locali e regionali sui rifiuti indifferenziati, siamo di fronte ad una crisi generalizzata che riguarda sia i gestori dei rifiuti che il tessuto produttivo fino agli scarti dei materiali riciclati. Il recepimento delle direttive europee sul pacchetto per l’economia circolare, dovrà essere per l’Italia l’occasione per una strategia nazionale sulla gestione dei rifiuti, che individui azioni e strumenti».
Ma ecco Andrea Ramonda, amministratore delegato di Herambiente: «Gli impianti del mercato del riciclo sono strapieni: cartiere, impianti di trattamento e selezione della materia prima seconda, la plastica».
Ha detto Alessandro Bratti, direttore generale dell’Ispra: «È tutto tremendamente semplice. Quando non si riescono trattare e smaltire i rifiuti si bruciano. Prima o poi si capirà?»
Il parere di Claudio Andrea Gemme
Claudio Gemme è presidente del gruppo tecnico industria e ambiente di Confindustria. Ecco il suo parere.
«Le aziende manifatturiere stanno affrontando una crisi senza precedenti. Parliamo di imprese che fanno economia circolare, ma che sono in crisi perché non riescono a collocare lo scarto non riciclabile originato dalle loro attività. I costi per lo smaltimento dei rifiuti stanno diventando insostenibili (in alcune realtà sono più che raddoppiati negli ultimi 2 anni) e gli spazi si stanno esaurendo. Il Paese ha bisogno di impianti e infrastrutture, dobbiamo affrontare con le tecnologie più innovative e con l’informazione la sindrome nimby. Industria, ambiente e salute possono viaggiare nella stessa direzione. A Copenaghen è presente nel centro cittadino un termovalorizzatore che, oltre a non inquinare e produrre energia dai rifiuti a favore della città, dando corrente a 62.500 abitazioni e acqua calda ad altre 160mila, è dotato sul tetto anche di una pista da sci».
Le imprese aderenti a Cisambiente
Dice Enzo Scalia, direttore del gruppo Benfante: «La gestione dello smaltimento assicura canali privilegiati agli “urbani” (che peraltro soffrono di regimi emergenziali e costi insostenibili in diverse aree del paese), finendo per trascurare la questione degli “speciali”. Se a questa miopia strategica si aggiunge una rappresentazione mediatica presbite, otteniamo l’effetto attuale». Nel frattempo, avverte Scalia, «gli stoccaggi di rifiuti crescono, e i rischi di incendio aumentano, sia per le imprese private sia per le imprese pubbliche».
Parola a Roberto Romiti, Lamacart: «Una soluzione temporanea che si potrebbe disporre, sarebbe quella di trovare ulteriori mercati di sbocco rispetto a quelli esistenti, ed in particolare le aziende dei Paesi dell’Est Europeo». Testimonianza raccolta da Cisambiente fra le imprese del Mezzogiorno: «Una possibile soluzione di emergenza per evitare questo? Creare con urgenza, a valle della filiera di trattamento, una serie di grossi centri di stoccaggio temporaneo da parte dei consorzi nazionali di concerto con il ministero dell’Ambiente, per sbloccare gli impianti di selezione ed evitare il crearsi di una nuova, diffusa, terribile emergenza ambientale nelle nostre città, in attesa di trovare la giusta collocazione sul mercato dei suddetti materiali».
Lucia Leonessi, direttrice generale della Cisambiente Confindustria: «Quanto accaduto nell’ultimo anno, con la raccolta di quantità inaspettate di rifiuti, soprattutto da superfici urbane grazie al comportamento virtuoso dei cittadini che hanno scelto la raccolta differenziata come vero e proprio stile di vita, è dovuto a un fermo imprevisto di alcuni canali di smaltimento tale da creare la paralisi e costi immensi per il gestore degli impianti di trattamento dei rifiuti. Gli stessi roghi di rifiuti evidenziano ovviamente il problema, e pongono l’attenzione sulla ricerca di una reale soluzione: impianti di smaltimento che sarebbero anche centro di produzione di energia sana e pulita, contrariamente al rogo».
Verso le soluzioni: usare materiali di riciclo
Oltre agli interessanti materiali biodegradabili come il Mater Bi dell’italiana Novamont, che oggi non sono ancora riciclabili, la tecnologia comincia a individuare le soluzioni per creare la domanda di materiali rigenerati. Per esempio il produttore di plastica Equipolymers, che produce Pet per le bottiglie e per altre applicazioni, ha messo a punto una nuova tipologia di plastica che si presta al contatto con gli alimenti. La formulazione di Pet si chiama Viridis 25, contiene fino al 25% di materia rigenerata e anticipa le raccomandazioni contenute nella Plastic strategy Ue sull’utilizzo di materiali riciclati in nuovi prodotti. A regime la produzione del nuovo grado assorbirà un volume pari a 30mila tonnellate di Pet rigenerato, equivalente al 3% di quello oggi disponibile in Europa.
Gli pneumatici saranno bruciati all’estero
La paralisi ha fatto sì che moltissimi fra gommisti, stazioni di servizio e autofficine abbiano accumulato giacenze di pneumatici fuori uso in eccesso.
Il riciclo di materiale in questo momento ha infatti subìto un rallentamento a causa della sentenza del Consiglio di Stato sull’End of Waste, che ha portato incertezza nella filiera industriale, per il rischio reale che non venga più riconosciuto neppure lo status di prodotti ai granuli e polverini di gomma riciclata, che verrebbero al contrario riportati allo status di rifiuto, con conseguenti indubbie difficoltà di collocazione sul mercato.
«In più, i ritardi e le incertezze circa l’uscita del decreto End of Waste non consentono lo sblocco di molti settori applicativi a oggi fermi in attesa di questo provvedimento», avverte il consorzio di raccolta e riciclo Ecopneus. «Gli pneumatici fuori uso raccolti con questo intervento straordinario saranno dunque avviati in larga parte al recupero energetico all’estero».
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