Che ci consegna un Insubordinato? Parte 2 (2-2)
La letteratura alpinistica ci racconta di molti casi in cui individui allo stremo delle forze e stressati al massimo hanno subìto lunghi dialoghi con presenze esterne, come se un compagno invisibile gli arrampicasse accanto. Il fenomeno è capitato più spesso a un solitario, ma anche cordate ne hanno riferito. Episodi simili sono stati riportati anche in caso di lunghe avventure ai poli, nei deserti, nelle traversate oceaniche. Il dialogo è interiore, ma a tutti gli effetti sembra un dialogo normale, tranne che non ci si capacita di non riuscire a vedere l’interlocutore. Sembra così vero… E’ un’allucinazione? Direi più una visione, molto più reale di un sogno. Il sogno può essere molto forte, mai però come una visione.
Quando sopraggiunge questo genere di visione è perché siamo molto stanchi, o molto impauriti… o quasi sopraffatti dall’ambiente che ci circonda. Non abbiamo più l’energia che ci sorreggeva all’inizio.
Renato e Goretta Casarotto
Renato Casarotto racconta nel suo libro Oltre i venti del Nord la sua visionaria esperienza al Denali (McKinley). Era il 9 maggio 1984: da ormai undici giorni aveva lasciato il campo base e da dieci lottava da solo sulla sua Ridge of No Return, in mezzo a un ambiente spaventoso, pieno d’insidie e d’incognite.
“Già molte altre volte m’era capitato di ritrovarmi solo, stanco e in situazioni limite, e so bene che in certi casi i sensi rivelano una facoltà nuova, assai diversa da quella addormentata dal noioso trantran della vita quotidiana. Questo fatto l’ho sperimentato nei diciassette giorni trascorsi sulla Nord dell’Huascaran, sul pilastro nord-est del Fitz Roy e anche al Monte Bianco d’inverno, ma stavolta la sensazione che vivo, e che si fa quasi immagine davanti ai miei occhi, mi apre orizzonti vastissimi che spaziano dagli elementi della natura fino ai confini inesplorati del mio inconscio.
D’ora in poi, e fino al mio arrivo in vetta, di notte ciò che sento è contenuto nelle dimensioni solite e usuali; di giorno invece, d’improvviso, m’inserisco, senza che io lo voglia, in un ambito dilatato, popolato di eventi e contenuti insoliti e fors’anche irripetibili.
E per molte ore, in quei giorni, mi muovo sull’esile frontiera di due mondi diversi, in mezzo a grandi difficoltà che non sono più solo quelle offerte dalla salita…”.
E’ il dialogo tra il proprio io cosciente e quella parte di noi stessi di solito sprofondata ben al di sotto del livello di coscienza, quella parte che riassume tutto ciò che la nostra coscienza, per esistere, ha dovuto relegare nelle profondità, a volte con amore a volte con disprezzo e odio. Chi decide di intraprendere un’avventura è il nostro io, ma chi fornisce l’energia necessaria è l’accordo con il nostro inconscio, un accordo a volte troppo faticoso, al limite della nostra sopportazione. Un accordo che Renato, ormai allo stremo, ha deciso deliberatamente di rompere: “Nel tardo pomeriggio di questo 9 maggio, mi rendo conto che se voglio proseguire devo liberarmi di una zavorra, di qualche parte di me stesso, di una parte per la quale non mi è permesso provare pietà…”.
La rottura di questo accordo gli permette di raggiungere la vetta la sera dell’11 maggio e di scendere, ma è insanabile. Dopo l’avventurosa discesa, ormai sul ghiacciaio, si sente mancare il terreno sotto i piedi, rimane in un’incredibile posizione corporea per non cadere nella voragine del crepaccio e riesce a liberarsi con la forza della disperazione: un pazzesco anticipo di quanto invece purtroppo succederà al ritorno dalla Magic Line due anni dopo.
Quasi all’uscita del Canalone dell’Insubordinato, Monte Disgrazia. (1a asc. – 7 settembre 1979)
Goretta e Renato Casarotto
Al campo base, raggiunto il 13 maggio, Renato è quasi incapace di riconnettersi. Per spingersi così lontano, e per lontano intendo anche la profondità di noi stessi, ci vuole una volontà enorme. L’io cosciente vuole fermamente quel viaggio. E l’accordo più segreto di tutti, quello che noi facciamo con noi stessi, in lui funzionava in modo egregio. L’energia necessaria era assicurata dalle smisurate forze che si agitano all’interno di ciascuno di noi. Perché queste forze in qualche modo erano da lui state incanalate con l’accordo. Un accordo che regge fino a che le due parti si rispettano reciprocamente, e non più quando s’innesta un processo d’inflazione del proprio io che tende al dominio di quest’ultimo sulle forze inconsce. Nella fatica e nella paura si manifestano le crepe dell’accordo, nasce un dialogo pauroso, per la prima volta sentiamo “parlare” ciò che dentro di noi non ha mai parlato. Quella voce che ti avverte che hai superato il limite, che il tuo io deve moderarsi. Quella voce che ti avverte che la spesa è ormai fuori controllo, che il tuo disavanzo non può più essere sorretto dal capitale. Una voce che non può e non deve essere vissuta come nemica. Renato la vive come un qualcosa di cui lui non deve avere pietà. Come fai ad avere pietà per la tua seppellita parte femminile? Qui non è questione di pietà, ma di rispetto e di Amore. Renato sentiva che se non avesse deciso di uccidere la sua voce interiore, questa sarebbe diventata distruttiva, lo avrebbe fatto soccombere. E quel delitto, come tutti i delitti, era irreversibile. E questo passaggio psicologico, questa delittuosa uccisione che Renato fa di se stesso dove avviene? Sulla “cresta del Non Ritorno”. Renato non poteva sapere che la sua “vittoria” sulla voce non poteva, e mai avrebbe potuto essere, definitiva. Le forze inconsce si ripresentano con le stesse domande alla prossima occasione. E ti presentano il conto.
Dopo quell’esperienza, Renato avrebbe dovuto non accontentarsi del semplice ricordo, ma avventurarsi in una rielaborazione interiore: non sono certo qui a dire che non l’ha fatto, non sappiamo se e come lui affrontò questa fondamentale tematica interiore. Ma i risultati di quest’eventuale travaglio purtroppo parlano chiaro: non rielaborò a sufficienza, non riuscì a veder chiaro l’avvertimento che gli era stato dato.
In tenda assieme abbiamo spesso parlato delle motivazioni che ci spingevano alla montagna e all’avventura. Come sempre, anche in queste chiacchierate Renato non si accontentava della superficie. In seguito lo dimostrò: affrontare imprese sempre più “impossibili” per progredire in questa sua ricerca di conoscenza. Era evidentemente convinto che più impegno, difficoltà e isolamento c’erano, più l’esperienza sarebbe stata rivelante. Ma fino a quel momento le sue grandissime imprese non avevano ancora il taglio “eccezionale” che invece avrebbero avuto dopo la nostra estate 1979 al K2. Quel che voglio dire è che la sua salita con Piero Radin al grande diedro dello Spiz di Lagunàz, o altre sue solitarie e invernali fatte fino ad allora erano sì grandissime salite, che entravano prepotenti nella storia: ma ancora non si era visto il Casarotto che invece si vide dopo! Le nostre chiacchierate dunque hanno avuto un limite, quello derivante dal fatto che il futuro nessuno poteva prevederlo. Non andammo oltre un certo livello. Posso dire che non bestemmiava (come invece fa una buona parte di veneti!), non imprecava, il suo linguaggio era sempre corretto. Un “porco boia” non faceva parte della sua cultura. C’erano pochi momenti in cui potevi affacciarti timidamente alla ricerca del Renato interiore. Che lui fosse in ricerca era chiaro, ma non si andava tanto oltre. Anche l’assenza di Goretta (e il non essere mai stato con loro per più che il tempo di una cena) non favorisce la mia esplorazione all’interno di Renato. Non so per esempio dire se la funzione di Goretta fosse più calmante o agitante, se soffiasse sul fuoco o lo moderasse. Di certo Renato l’amava, ma non so andare oltre. Il fatto che Renato non abbia mai avuto distrazioni non è sufficiente a tratteggiare che genere di amore fosse. E dai suoi scritti non si comprende molto di più.
Dovendo rispondere alla consueta domanda “quale impresa di Renato è stata la più grande” sarei tentato di rispondere “quella che non ha compiuto, quella sul K2”. Ma non lo faccio, solo perché sulla Magic Line lui non era da solo. La squadra dei polacchi (che poi completò l’itinerario e giunse alla cima) era lì presente, e anche se mai si unirono, il loro lavoro non era mai del tutto indipendente.
La Ridge of No Return e la Nord dell’Huascaran si contendono questo primato, anche se ha poco senso paragonare 1000 a 999. Non ci sono unità di misura così precise. Per le Alpi, direi che la sua cavalcata solitaria e invernale al Monte Bianco, senza alcun deposito intermedio, su Ovest della Noire, Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina e Pilone del Frêney sia al top. Però anche tante altre… francamente non mi va di fare classifiche!
Quando noi pensiamo a Renato oggi, in realtà siamo ancora ben lontani dal pensare tutto quel che dovremmo. Il quantitativo di vissuto d’esperienza e consegnato a noi non è stato ancora metabolizzato. Il pensiero che dedichiamo a lui è ridotto. Ho l’impressione che ci vorrà ancora un po’ di tempo, però magari non troppo, per sapere chi fosse quell’uomo. Un uomo che ha saputo pescare nel caos della nostra creatività in modo così geniale ed efficace, in anticipo sui tempi.
Io considero Renato Casarotto coma una specie di Michelangelo Buonarroti, un pittore e scultore dalla personalità e genialità così complesse da non poterle misurare solo attraverso le opere d’arte che ci ha lasciato. Le imprese di Casarotto le vediamo ma non del tutto. L’uomo purtroppo non c’è più, il libro che ci ha lasciato è bello, ma non era il suo mestiere dirci di più. Siamo noi che dobbiamo arrivare a lui e non viceversa. Come giustamente asserisce Peruffo, la scrittura primaria (e cioè l’agire in montagna e in ambiente) supera e comprende la scrittura secondaria (quella a tavolino). La scrittura primaria si rivela con lentezza. Un po’ come la creazione che ha impiegato milioni di anni e non ha finito neppure ora…
Non ci rimane che sperare in una replica: magari oggi, domani, qualcuno agisce come Renato. Chissà. Mi vengono dei nomi che lo ricordano, pochi ma ci sono. Certamente c’è qualcuno che non conosciamo. E se davvero questi, conosciuti o sconosciuti, lo ricordano, allora è giusto che siano un po’ sconosciuti… perché anche loro sono in anticipo sui tempi. Un nome? Uno come Denis Urubko ricorda Renato: noi siamo affascinati dalle sue imprese sugli Ottomila, ma non sappiamo nulla o quasi di ciò che ha saputo fare sulle montagne di casa sua, terreni a noi del tutto ignoti e per i quali non abbiamo termine di paragone. I suoi racconti ci parlano di avventure pazzesche… e noi siamo fermi a ciò che conosciamo o che crediamo di conoscere.
Casarotto apre con Gian Carlo Grassi la via sulla parete sud del Pic Tyndall (Cervino), 1983
Il paragone con il free solo odierno è un confronto impossibile. Renato non avrebbe mai potuto fare le solitarie che ha fatto senza l’uso regolare dei sistemi di auto-assicurazione. La sua “lentezza” era dovuta a questa ragione. Non faceva mai lunghezze di corda superiori a una certa difficoltà (in genere il V grado) senza doverosa auto-assicurazione. Non concedeva nulla in questo campo. Era il suo metodo. Non dimentichiamoci che lui ha sempre arrampicato con gli scarponi più o meno rigidi, le scarpette di arrampicata le ha limitate alla falesia e alle Dolomiti e solo dopo il 1977. Con gli scarponi pesanti è d’obbligo l’auto-assicurazione. Il free-solo richiede una grande fiducia nel proprio equilibrio psico-fisico. Soprattutto nel proprio equilibrio interiore. Se solo c’è qualcosa che si rompe dentro, o si ammala, si fa bene a stare a casa. Dunque il discorso è lo stesso, anche le solitarie di Renato richiedevano questo equilibrio interiore. Anche le mie poche solitarie lo hanno richiesto: che mi auto-assicurassi o meno, ero convinto che non mi sarebbe successo niente! Lo sentivo, ne ero certo. Solo in qualche momento l’equilibrio era turbato, ma presto si ristabiliva. Il problema è che l’equilibrio oggi c’è, domani non si sa… A un certo punto, prima o poi, bisogna smettere. Il dialogo interiore sotto alla vetta del McKinley, il successivo piccolo incidente nel crepaccio, hanno dato il tempo a Renato di tornare e meditare. Tempo che è stato speso forse come era purtroppo destino: ma c’è sempre il momento in cui passa il treno del cambio di destino. O lo si prende o non lo si prende. A oggi sembra che Auer il treno non l’abbia perso, vedremo cosa farà Alex Honnold… e così le centinaia di grandi che in questo momento affollano le cronache alpinistiche. Dobbiamo solo trovare il punto in cui il nostro io possa definirsi appagato e non andare oltre. O meglio, trovare altre strade. Evolversi, dimostrare altro.
Renato Casarotto parte per il suo ultimo tentativo alla Magic Line del K2
Ogni occasione di nuovo progetto deve essere valida per rimettere in discussione il nostro equilibrio. Le solitarie in free-solo sono agghiaccianti perché coinvolgono direttamente lo spettatore, che è chiamato, proprio per non soffrire di fronte allo spettacolo, a dare la sua fiducia incondizionata allo scalatore solitario. La nostra fiducia, quella vera, la diamo raramente. La diamo quando c’innamoriamo, qualche volta nel lavoro… ma in genere non siamo così disponibili a “fiduciare” il prossimo. Ecco il perché di tante critiche all’alpinismo solitario. Siamo avari di fiducia e la cosa, a ben vedere, ci danneggia. Ci immiserisce.
Il corpo di Renato non riposò in pace. Riapparve alla luce e nel 2004 fu necessaria una seconda triste funzione
Il ritorno dalla Magic Line per Renato era definitivo. Il 15 luglio 1986, ormai al terzo tentativo e raggiunta quota 8300 m, Renato si arrese e decise di scendere. Era un crollo dal quale lui sentiva difficilmente avrebbe potuto rialzarsi. Quella che qualcuno definisce l’“accidentale” caduta del 16 luglio nel crepaccio fatale è la malaugurata e ineluttabile conclusione di un processo iniziato sul McKinley due anni prima. La salita della Magic Line, a mio modo di vedere, per Renato non era più solo una sfida alla Natura e a se stesso. C’era anche il confronto con gli altri. C’erano i polacchi (Wojciech Wróz, Przemyslaw Piasecki e lo slovacco Petr Božik avrebbero raggiunto la cima il 3 agosto), la sua mente era ingombra delle esigenze dello sponsor (anche se difficilmente possiamo dare colpe a quest’ultimo)… poi c’era l’ombra di Reinhold Messner! C’era tutto un complesso di ragioni che potevano solo far peggiorare la malattia di cui ormai Renato soffriva: l’allontanamento dalle profondità di se stesso, il deterioramento di un rapporto così a lungo proficuo. Per questo parlo di crollo quando vedo Renato riconoscere il proprio fallimento sulla Magic Line della sua vita. E’ facile per noi dire che non dovrebbe esserci mai alcun fallimento in grado di far fallire la nostra vita, o in grado di costruire una serie di eventi che portano quasi il soggetto a sentirsi libero solo di fronte alla sua stessa morte.
E’ facile, troppo facile, dimenticare la dimensione-gioco dell’alpinismo. Anche il rugby è un gioco. Magari violento, rude e faticoso. Però è un gioco. L’alpinismo è ancora più violento, ma non possiamo accettare che sia un gioco che ti fa dismettere la vita, soprattutto se lo fa quando si è capito di aver perso la partita.
E soprattutto quando ciò succede dopo quattordici anni di continui successi. Come si fa a dichiararsi falliti dopo una vita di lotte, qualche sconfitta ma decine e decine di vittorie? Ecco perché fa così male, perché noi non accettiamo che lui possa aver fallito. Lui sì, noi no.
Su Wikipedia, biografia e salite di Renato Casarotto.
https://gognablog.sherpa-gate.com/renato-casarotto-linsubordinato-parte-1
Marco Anghileri e Goretta Casarotto
Alessandro, Giando, provo a fare le mie ultime considerazioni qui. Un giorno ci ritorneremo. In altri luoghi.
//
Sulla premonizione, presa nella sua accezione consueta (di percezione su eventi futuri prima che accadano), sono d’accordo e immaginavo che qualcuno mi riprendesse. Lo fa Alessandro quando specifica che lui non ha mai detto ciò. Confermo.
//
Tuttavia proprio scrivendo “… ricevere una premonizione, assoldarsi alla voce della coscienza… ” intendevo usare premonizione nel suo originale significato di “pre-monito”, di avvertimento anticipato, senza caricarla di preveggenza. Alessandro stesso scrive di “pazzesco anticipo”.
//
Per me, dunque, assoldarsi alla voce della coscienza “che vigila sui nostri limiti”, la cosiddetta spia rossa sul cruscotto, significa rinunciare a qualcosa, forse anche a se stessi, nonostante i limiti che quella spia annuncia e che potrebbero portarci alla morte. E’ difficile sapere cosa indichi quella spia, magari solo una riserva che nondimeno si può recuperare, reintegrare, rimodulare, specie se dotati di grande volontà. Usando la stessa metafora, si potrebbe pensare che sul K2 Renato abbia ritrovato la spia accesa. Ma non possiamo noi sapere cosa avrebbe fatto Renato del suo futuro se non fosse morto sul K2, a spia ristabilita. Parlando di spie accese, sarebbe curioso chiedere a Messner quante spie rosse ha trovato accese nella sua vita per arrivare a scrivere uno dei suoi migliori libri, Sopravvissuto (De Agostini, 1986).
//
Per questo non mi ritrovo con la conclusione “lui non ha compreso che il contratto con se stesso non era più valido”, ancora dal McKinley… specie se consideriamo gli ultimi due anni di alpinismo e il difficile sali e scendi del K2, la sua ultima salita. Difficilmente un uomo che non ha un “contratto con se stesso” trova – credo – la forza per imbarcarsi in avventure del genere. Uno sfiduciato non può farlo. Un disperato (alla vita) ancora meno. Quest’uomo deve avere una grande fiducia in se stesso per affrontare sfide del genere. O se anche non l’avesse, fiducia in qualcos’altro, la moglie, la vita, la ricerca, altre cose che non sta a noi dire. Un uomo sfiduciato non partirebbe mai da solo per affrontare la Magic Line del K2. Salendo e scendendo con diligenza e competenza per tre volte. Rinunciando, dopo aver lottato sul campo fino allo stremo. In tal senso, parlare di fallimento, col pericolo di trasferire il significato (la parola così usata purtroppo ha un valore transitivo devastante) all’intero percorso di un uomo, è fuorviante, quanto la strada che dal McKinley porta al K2.
//
Un altro passo per evitare letture equivoche. Il termine fallimento, come dice Alessandro, certo, qui non nasconde colpe. Chi mai le ha ipotizzate? Nessuno. Solo le chiese lo fanno a priori e le negligenze accertate a posteriori. Tuttavia quella parola “giudica” a prescindere dalla colpa, dà un valore, si declina ad un fatto (che può essere il K2) o a un’intera vita (il percorso di un uomo). Qui nasce l’equivoco senza chiamare in causa la colpa.
//
Io, per mio conto, non ho mai voluto esprimere un giudizio, un’opinione, un valore, sulla morte di una persona in montagna caduta per cause a noi ignote, imponderabili, imprevedibili. Sia essa il più forte o il più scarso alpinista del mondo. E da questo fatto – che etimologicamente può essere un “fallimento”, un cadere in fallo – correre il rischio di trasferire il significato della parola all’intero percorso di colui che tragicamente è caduto. Diverso invece è esprimere un opinione su chi va incontro alla morte perché la vita gli è diventato un peso e dà elementi agli altri per farsene un’idea, sempre opinabile. Giampietro Motti su tutti. Un illuminato caduto sotto il peso della sua intelligenza e sensibilità. Suicida. Lui scrisse con disarmante anticipo “I falliti”. Azzardo io una deviazione che farebbe gola ai sociologi e agli antropologi: sembra che una delle ombre di quell’epoca si voglia far ricadere a tutta una generazione, a cui anche Renato apparteneva e che ha visto parecchi “caduti”. Il fallimento sarebbe allora dell’alpinismo come pratica di conoscenza e di libertà.
//
Infine, la parola “contratto” stessa nasconde una catena di cui non ci rendiamo conto: la delega della relazione tra due parti a un segno terzo. La carta, il segno, un patto non più spontaneo. La morte della relazione di fiducia. Renato, da quello che posso capire, non aveva nessun contratto con se stesso e neppure col destino. Nessuno di noi firma un contratto con quella parte di sé o degli altri che annuncia quel luogo da cui non si ritorna, che ha come ultima clausola la morte. Solo il suicida. Il suicida non torna indietro. Va sempre avanti. Questo è il mio punto di vista. Renato tornava. Non confondiamo la “Cresta del non ritorno”, luogo fisico, con la suggestione incontrollabile che essa genera. Non si ritorna da dove? Dalla montagna che porta prima o poi alla morte? O non si ritorna forse solo dalla propria “passione”, indubbiamente pericolosa? In realtà quella cresta sul McKinley si poteva fare solo in un senso geografico e che quel nome poi richiami la morte o la passione non è affare nostro.
//
In sintesi, Renato, con un contratto non più valido (per usare le parole di Alessandro) o senza piena fiducia in sé (per usare le mie), non avrebbe potuto fare le grandi cose che molti di noi non pensano di fare neppure in sogno. Non avrebbe potuto costruire la sua esemplare carriera, fatta come tutte di successi e fallimenti, l’ultimo fatale. Non avrebbe potuto fare quello che ha fatto sul K2 prima di morire. Per questo il fallimento sul K2 non è il fallimento di una vita. Parole non dette, ma che potrebbero generarsi.
//
Non solo. Non è questione di accettare o non accettare qualcosa, il fallimento in questo caso. Ma di raccontare i fatti che poi diventeranno storia e immaginario. Solo i vivi accettano o non accettano, mentre i morti spariscono. Cosa avrebbe accettato Casarotto? Non possiamo prendere la parola di Renato quando non è uscita dalla sua bocca, documentata. Non dobbiamo. Compito dei vivi è consegnare corrispondenze. L’immaginario, quando saremo morti, elaborerà successi e fallimenti. Una realtà che non è più la nostra. Non possiamo essere storici dei nostri contemporanei. Possiamo solo offrire indizi e cronache. Esserne al massimo storiografi. O cauti interpreti.
//
Chiudo con una curiosa citazione tratta dall’ultimo libro di Aste – che avrò il piacere di presentare a Trento il 7 maggio a Montagna Libri (fatto altrettanto curioso per un anima non certo ecclesiale come la mia) – dove spende fiumi di parole per molti alpinisti incontrati o conosciuti in vita sua. Solo per Casarotto spende meno di una riga di numero, che qui riporto. Meno di una riga. Aste scrive su RENATO CASAROTTO:
“Forse il più grande di tutti, da meritarsi il superlativo assoluto”. Maybe. L’immaginario cresce.
Amen.
Cari Alessandro e Alberto, è veramente molto bello leggere le vostre riflessioni che ritengo estremamente utili non solo per l’alpinismo ma più in generale per tutte quelle attività umane in cui ci si confronta ai massimi livelli con l’ambiente naturale e, non ultimo, anche con la parte più intima di sè stessi. In tutta quest’appassionante storia c’è però un particolare ricorrente, sebbene stemperato dal racconto di Alessandro, costituito dall’invadente presenza di R. Messner. Ad un certo punto anche te Alessandro ti lasci scappare le seguenti parole “…poi c’era l’ombra di Reinhold Messner!”. Nel precedente articolo mi pare che tu Alberto volessi vederci un po’ più chiaro su quest’aspetto e anche adesso, sebbene la matassa sia stata in gran parte dipanata, non perdi occasione per riportare le arroganti parole dell’alpinista più mediatico della storia.
Ora, alla luce del racconto di Alessandro mi pare si possa concludere che, nella tragedia di Casarotto, Messner c’entri molto poco. Dal tratteggio che è stato fatto di Renato da parte di un amico emerge una figura difficilmente condizionabile dagli altri (almeno apparentemente), anzi, delle due emerge una figura che riusciva ad imporsi laddove altri non avrebbero osato (vedi l’episodio del corso guide riportato nella prima parte dell’articolo). Quel “saldare un conto” citato da Messner suona secondo me molto male, se lo si legge alla luce del litigio fra i due, ma potrebbe anche avere un suo significato profondo, molto più nascosto, di cui non credo lo stesso Reinhold avesse sentore. Io sono portato a credere che Renato non ambisse in cuor suo a dimostrare nulla a nessuno se non a sè stesso e il non aver saputo interpretare la spia luminosa accesasi sul Mc Kinley probabilmente derivava proprio da questo.
L’alpinista estremo vive spesso a cavallo di due mondi, quello esteriore e quello interiore (per carità, tutti viviamo a cavallo di due mondi ma è l’intensità che fa la differenza), e non sempre risulta chiara la scelta di campo. Nel caso di Renato mi pare che, tutto sommato, una scelta sia stata fatta estremizzando il lato interiore. Mi pare di capire che a lui non interessasse scalare le montagne bensì “scalare quella montagna”. Se poprio si dovesse fare un paragone con un altro personaggio molto più famoso, rimasto nel cuore di molti di noi, assocerei, pur con tutte le differenze del caso, la figura di Casarotto a quella di Ayrton Senna, il quale ci mise anni a comprendere che la vittoria in un Gran Premio costituiva semplicemente un tassello per arrivare al titolo mondiale. Per Senna ogni Gran Premio era una questione di vita o di morte. Sarebbe interessante intavolare un dialogo su un determinato aspetto e cioè sul perché le persone che lottano allo stremo delle proprie forze per raggiungere un obiettivo, pur sapendo che quest’ultimo costituisce solo una parte di un obiettivo più grande, siano molto più amate dei freddi calcolatori che però portano a casa il risultato (vedi appunto Messner, collezionista di cime come pochi al mondo) anche se in parte la risposta sta’ nelle maggiori emozioni che le prime sono in grado di suscitare o, per meglio dire, nella consegna di immaginario nei confronti dei posteri.
Nessuno può dire cosa avrebbe fatto Renato se non fosse deceduto sul K2 però, dando per scontata la veridicità del racconto di Alessandro, si potrebbe anche ipotizzare che Casarotto avrebbe potuto non essere proprio in grado di elaborare alcunché di diverso da quanto fino a quel momento aveva posto in essere. Probabilmente un ulteriore contributo in tal senso potrebbe darlo Goretta però si potrebbe ipotizzare che perfino un ritorno vittorioso dal K2 non avrebbe contribuito a migliorare le cose in quanto, prima o poi, Renato avrebbe dovuto fare i conti col trascorrere del tempo. E a quel punto come avrebbe reagito? Forse non sarebbe morto nel vero senso del termine ma sarebbe, comunque, morto dentro di sè.
E’ evidente che non si potrà mai sapere cosa sia successo in quei fatali momenti, quando si è rotto il ponte di ghiaccio e Casarotto è stato risucchiato nell’abisso, ma quand’anche riuscissimo a comprendere cosa passava nella mente di Renato in quegli attimi, se anche riuscissimo a conoscere tutto l’eventuale travaglio interiore non avremmo, comunque, scoperto granché. Troppo spesso siamo portati a pensare che il destino ce lo confezionimao da soli e ciò è in parte è sicuramente vero però non dimentichiamo che vi sono dei disegni di cui non abbiamo nemmeno lontanamente idea.
Hai ragione Alessandro a dire che noi non abbiamo accettato il suo fallimento, tu probabilmente per primo in quanto gli sei stato amico, e a dire che lui l’ha accettato. E forse l’ha accettato perché non poteva fare altrimenti in quanto la grandissima forza di volontà che l’aveva sorretto fino a quel momento si sarebbe dovuta riconventire in un’altrettanto enorme forza di volontà tesa a smettere di fare quello che stava facendo o quanto meno a farlo in maniera diversa.
Al tempo stesso hai ragione Alberto quanso dici che non può esserci un collegamento diretto fra il Mc Kinley ed il K2. Dciamola tutta, esistono anche la fortuna e la sfortuna. Per me la persona sfortunata non è quella a cui le cose vanno male a prescindere bensì quella a cui le cose vanno storte semplicemente perché non si può calcolare tutto e vi sono dei limiti oggettici e soggettivi con i quali si devono fare i conti. Può darsi che un Renato lucidissimo e senza presunti travagli interiori, senza spie rosse che si accendevano e spegnevano, sarebbe finito, comunque, nel crepaccio come può darsi che se non fosse andato sul K2 sarebbe morto su qualche altra montagna, magari anche solo facendo una banalissima escursione.
Forse l’arroganza di Messner (manifestata peraltro in varie circostanze e non solo nei confronti di Renato) deriva anche da questo, dal fatto cioè di avere rielaborato, seppur a modo suo, l’esperienza sul Nanga Parbat. Il fatto di essere ritornato sano e salvo, pur con delle mutilazioni, gli ha conferito una sorta di delirio d’onnipotenza che si manifesta nel sentirsi un gradino sopra a tutti quando invece dovrebbe avere una maggiore umiltà nell’accettare il dono della fortuna.
Non so se a conoscere le risposte per ogni cosa si vivrebbe in un mondo migliore o peggiore. Sicuramente la fantasia ne risentirebbe e di conseguenza le emozioni. Se solo sapessimo cosa c’è dopo la morte non staremmo probabilmente qui a porci tutte queste domande.
Mi pare, in ogni caso, di capire che, a prescindere da come sarebbero potute andare le cose, Renato sarebbe morto comunque o, al limite, avrebbe rischiato di morire, se non in senso fisico quantomeno a sè stesso, cioè interiormente e se le cose stessero effettivamente così allora è molto meglio, a mio avviso, che sia andata come è andata perché continuare a vivere da morti, cioè nel ricordo delle persone care, credo sia sempre meglio che morire da vivi.
Caro Alberto, anzitutto devo ringraziarti delle belle parole che usi nei miei riguardi, parole che di certo provano che il mio scritto su Renato sta facendo il lavoro per cui è stato concepito. La tua primissima rielaborazione merita attenta lettura plurima.
In questa tua rielaborazione che s’incrocia con la mia che a sua volta s’incrociava con la tua, eccetera, parli di premonizione, di predestinazione. Ma queste parole io non le uso!
La premonizione in termini generali (Wikipedia) indica una sensazione nella quale l’individuo sembra percepire informazioni su eventi futuri prima che accadano. Ho parlato di questo? No! Ho solo parlato di “avvertimento” riferendomi al preciso incidente del crepaccio alla base del McKinley. Un incidente che, in effetti, ha una tale somiglianza con quello fatale del K2 da far rabbrividire. L’avvertimento è da intendere non come una premonizione, cioè interpretarlo come qualcosa che succederà in futuro: è da intendere solo per quello che è, una spia rossa che si accende sul cruscotto. Una denuncia di un travaglio interno che si è appena consumato ma che la coscienza fa fatica a percepire. Nell’attimo di gioia in cui si sta per rientrare al campo base, a odissea finita, forse il sussulto di paura dello stare in bilico su una voragine può essere un avvertimento “forte” di ciò che si è appena consumato dentro di te. L’avvertimento riguarda il passato prossimo, non il futuro.
Renato dunque non era, né mai avrebbe potuto essere, un predestinato, né un sub-ordinato, né un visionario per ragione prevista, né un profeta. La rielaborazione dell’accaduto in lui ha avuto lo sbocco che ha avuto perché in qualche modo lui non ha compreso che il contratto con se stesso non era più valido (e non lo era più dai pendii sommitali del McKinley, non dal crepaccio alla base).
E’ duro dirlo, forse impietoso. A contratto non più valido, e per usare parole tue, “il progetto di vita diventerà davvero un fallimento perché ci si chiude in se stessi, nelle proprie ossessioni, nei propri percorsi, nelle proprie paure o volontà di essere superiori a tutti e a tutto. Anche alla propria fragilità”.
Dove alla parola “fallimento” non si dà alcuna accezione negativa, nessuna colpa.
Ripeto, siamo noi a non accettare il suo fallimento. Lui, alla fine, lo ha fatto.
Innanzi tutto voglio ringraziare Alessandro per questo suo contributo. Sono certo che aiuterà molti di noi a capire, o meglio ad avvicinarsi al percorso di un uomo, al di là del mito e della storia.
/
Ci sono molti passaggi di grande rilevanza, sia storica, sia di pensiero. Bisogna dare atto ad Alessandro – cosa che già si intuiva nei suoi scritti giovanili – di avere dato un impulso decisivo alla riflessione critica sulla pratica di ciò che chiamiamo alpinismo, pratica che nasconde un potenziale di universalità che travalica la semplice disciplina di salire le montagne e che si potrà un giorno rileggere con un’ottica diversa, magari come ho tentato di fare io con le suggestioni della scrittura geografica, ripescate con mia sorpresa recentemente su questo blog.
/
Un giorno forse potremmo ritornarci, al di là di questo primo commento. Oggi mi limito a sottolineare alcuni passaggi fondamentali di questo ultimo scritto di Alessandro, che ci “consegna” un insubordinato alle “classi” e alle categorie che siamo soliti usare e che in parte avvalora l’ipotesi della mia “consegna di immaginario”, origine probabile di questa memorabile insubordinazione. Specie tra gli scriventi.
/
Devo dire che finalmente le domande sospese, per anni, di Alessandro su Renato, trovano qui risposta. Anche se non facile. Ora capisco perché Alessandro affermava di Renato “che non si può essere visionari per sempre”. E pure interpreto sotto luce diversa la “doppia volontà” sempre addebitata a Renato.
/
Tutto ciò rende onore all’intelligenza e alla sincerità di Alessandro, che confida senza mezzi termini la sua stessa difficoltà nel metabolizzare il “carico di immaginario” consegnatogli non da una terza persona qualunque, ma da un amico con cui hai condiviso tenda, giorni e pensieri. Non possiamo che essere grati ad Alessandro per renderci partecipi, tutti, di cose e fatti in parte sconosciuti. Dovrò rileggere ancora molte volte questo scritto per poter esprimere qualcosa di migliore di quanto sto per scrivere velocemente.
/
Ci sono due punti che mi hanno creato una forte impasse di senso. Sembra che Renato dopo la “Cresta del non ritorno”, di fronte alle visioni avute, al suo affacciarsi sul limite dove fisico e mentale spariscono (vedi link in calce), subisca una rottura insanabile con una parte di sé che porterà alla tragica fine del K2. Quasi una premonizione. Un monito. Un “pazzesco anticipo”, lo chiama Alessandro. Trovo interessante la lettura di Alessandro sullo scontro tra piani differenti, che lui delinea nella classica lotta tra conscio e inconscio. Trovo invece fuorviante il passaggio dal McKinley alla morte sul K2. Non che la pratica estrema di una disciplina non possa portare alla morte. L’alpinismo lo può meglio di altre discipline. Trovo fuorviante il concatenamento tra i due fatti. Sembra che non aver ascoltato e quindi ucciso la voce inconscia che vigila sui nostri limiti, abbia portato a una morte che non poteva non arrivare che in quel modo, tanto da scrivere che la caduta non fu “accidentale”, ma dovuta al crollo di qualcosa dentro a Renato. Scrive Alessandro: “non riuscì a veder chiaro l’avvertimento che gli era stato dato di scendere. Era un crollo dal quale lui sentiva difficilmente avrebbe potuto rialzarsi. Quella che qualcuno definisce l’“accidentale” caduta del 16 luglio nel crepaccio fatale è la malaugurata e ineluttabile conclusione di un processo iniziato sul McKinley due anni prima”. Poi parla in modo molto significativo di un “allontanamento dalle profondità di se stesso, il deterioramento di un rapporto così a lungo proficuo”. Questo è forse il punto più alto della riflessione di Alessandro.
/
Ecco, è possibile e legittimo pensare che Renato avesse cominciato a scontrarsi non solo con i suoi limiti di uomo e con l’insanabile distanza che lo separa dalla natura che tutto divora, anche la più grande volontà e spiritualità, ma pure che lo scontro avesse cominciato ad inoltrarsi sul limite che le relazioni tra gli uomini – la storia – impone alle loro pratiche, con i polacchi, i Messner, gli sponsor del momento. Forse la sua ricerca di uomo solitario si stava scontrando con i limiti della storia, con quello che anche altri uomini facevano sulla stessa montagna e non ultima, con la sua possente natura. Renato rientrò. Io, circa vent’anni fa, ancora giovane nella conoscenza della storia dell’alpinismo, ma reduce dalle vie di Casarotto al Soglio Rosso e pronto a una delle prime ripetizioni documentate del Diedro allo Spitz di Lagunaz, scrissi nella Rivista del CAI:
/
«Non fu una sconfitta, ma il riconoscimento della propria limitatezza attraverso un confronto leale, senza artifici. Forse non era il momento giusto, forse l’eccezionale tempra di Renato non era ancora pronta per affrontare le tempeste di un ottomila, in solitaria, in stile alpino. Tuttavia quel momento fu l’apoteosi dell’alpinismo classico, dell’alpinismo inteso come avventura pulita, libera da ogni condizionamento che non siano i limiti stessi dell’alpinista e l’intrinseca natura di ciò che lo circonda, l’ambiente».
/
Era una scrittura immatura la mia. Questo vedevo allora. Ora, dopo questa lettura, potrei aggiungere che Renato non solo, forse, avesse conosciuto i suoi limiti di fronte alla grande natura della montagna, ma pure fosse venuto a contatto con pressioni che lo allontanavano dal suo ideale di alpinismo, come delinea la riflessione di Alessandro. Ma arrivare a pensare che il McKinley fosse un avvertimento non apre la strada alla mia comprensione. Ogni giorno uomini coraggiosi trovano ammonimenti sul loro operare. Quante volte accade in montagna! Ma continuano a farlo. Non mi sono mai piaciuti i predestinati. I sub-ordinati. I visionari per ragione prevista. I profeti. RENATO ERA UN INSUBORDINATO ANCHE AL DESTINO perché sapeva che non c’erano scorciatoie alla propria ricerca e che ad ogni suo passo senza assicurazioni poteva aprirsi il caos, l’abisso. Ma lui aveva continuato a creare, anche se avvertiva il fiato degli altri sul collo. Aveva continuato a creare contro “l’accidentalità” (qui affonda la mia critica) perché è proprio questa la grandezza di un uomo, continuare nonostante le cadute e gli accidenti che sono fuori dal suo controllo. In cerca di qualcosa che non è mio compito dire. Ognuno, il suo.
/
Ricevere una premonizione, assoldarsi alla voce della coscienza, significa rinunciare al coraggio di “andare dove non conosco”, rifugiarsi in una vita sicura e senza spinte, che, per carità, possono portare alla morte se qualcosa va storto, un ponte di neve dove gli altri sono passati… crolla (non sotto al peso del fallimento!), spinte che tuttavia non consegnano l’esistenza a un progetto di vita che diventerà davvero un fallimento perché ci si chiude in se stessi, nelle proprie ossessioni, nei propri percorsi, nelle proprie paure o volontà di essere superiori a tutti e a tutto. Anche alla propria fragilità.
/
Se il suo andare in montagna, ricercare questa forma di libertà estrema sulle grandi pareti era diventata un’ossessione, allora Alessandro ha ragione a parlare di metabolizzazione non avvenuta, non certo di premonizione o di incapacità perché spintosi troppo in là (ricordo che Renato rinunciò dopo aver passato grandi difficoltà tecniche nell’ultima parte della Magic Line e morì alla base della montagna, fatto molto importante per togliere dalla morte ogni ombra di temerarietà gettata dall’ipotesi della “premonizione”, dell’avvertimento). Ma se per Renato la montagna era ancora ricerca e relazione (mi sembra che la salita al Gasherbrum 2 con la moglie nel luglio del 1985 dimostri il contrario), allora no. E’ difficile che questo accada per un uomo che ha fatto una scelta radicale di vivere continuamente fuori, esposto all’annientamento non costruito a proprio uso e misura nelle stanze calde della coscienza, ma in agguato in ogni momento nel regno di ciò che è fuori controllo, la grande natura, i nostri indissolubili limiti.
/
Nessuno può dirci che cosa Renato avrebbe fatto della sua vita se quel ponte non fosse crollato. Magari avrebbe accettato la sua “sconfitta” sul K2 e resosi conto dei ciarlatani che ammorbano il mondo della montagna facendo passare le loro ascensioni per opere superlative invece di vere e proprio performance fine a se stesse o a qualcos’altro lontano dalla loro passione per l’ignoto, forse si sarebbe ritirato verso altri fronti di cui noi non possiamo certamente dire e sui quali dobbiamo solo stare in silenzio e che ci fa oggi concludere che chi anni fa pronunciò – «nel 1986 Casarotto tornò al pilastro sud del K2. Non so dire se intendesse “saldare un conto” o se per lui, come la prima volta, la Magic Line fosse molto importante. So soltanto che era destinato a fallire. Renato Casarotto, per cui provavo del rispetto, precipitò e morì in discesa in un crepaccio» – ci fa tristezza per la sua arroganza e chi invece parla di premonizione è un amico che aveva capito la grandezza di un compagno del quale ancora oggi fatica a metabolizzarne la morte per la vicinanza che con lui aveva vissuto. La morte gli ha portato via un amico. Un grande alpinista e un grande uomo. Insubordinato. Anche al suo memorabile scritto.
/
Grazie Alessandro.
/
AMO ANDARE DOVE NON CONOSCO >>https://casacibernetica.wordpress.com/2013/11/26/due-amori-auditorium-di-albino-bg-storia-di-renato-casarotto/
Finito di leggere le due puntate: grazie Alessandro (e grazie anche Sandro).
Contributo che va al cuore.
Quando, a 42 anni, dopo le mie migliori salite, sono caduto da principiante su un IV grado schiacciandomi una vertebra, “vedevo” gli dei sghignazzare sugli alti bordi giallasatri delle linee di cresta.
Quando la linea della vita è declinante, o si muore o si muore…
Si DEVE scendere.
Leggendoti, mi è venuto in mente la visione del serpente nello Zarathustra di Nietzsche.
“E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
“Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo.
“La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava – invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.
[…]
“Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente: e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva ! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!”
Andare oltre a noi non è consentito. Lo spirito di gravità torna e ritorna, finché non ha portato a termine il suo compito.
Esistono molte verità, forse infinite. Quella che condividiamo è frutto di una convenzione, peraltro estremamente variabile a seconda delle culture e dei momenti storici. La verità ultima è troppo intima e personale per poter essere condivisa. Può darsi che noi non accettiamo il fallimento di Renato però può anche darsi che molti di noi fatichino ad accettare i limiti da lui raggiunti, e non mi riferisco ai limiti tecnici.
Tecnicamente parlando ci sarà sempre o quasi qualcuno in grado di fare ciò che le precedenti generazioni non sono state in grado di portare a termine ma da un punto di vista interiore il discorso cambia, e di molto. Spesso e volentieri sostengo che l’alpinista estremo, ma non solo, non differisce, se non nell’approccio, dal mistico orientale. Quest’ultimo, con modalità diverse e controllate, cerca di oltrepassare lo stato di coscienza ordinario per comprendere chi siamo realmente. Da secoli l’oriente ci insegna che la chiave di tutto sta’ nella coscienza e che, pertanto, si debba lavorare su questa se si vogliono conoscere le verità ultime.
Ciascuno di noi si pone, o quantomeno si presume si ponga, le tre classiche domande “chi sono, da dove vengo, dove sto’ andando?” ed ognuno, alla propria maniera, cerca di dare una risposta. Quando non la trova cerca di stordirsi resettando il tutto e conducendo una vita tutto sommato ordinaria, tesa alla mera sopravvivenza a scapito della conoscenza. Per conoscere con la C maiuscola spesso ci si ritrova soli e la stragrande maggioranza di noi non è in grado di sopportare questa condizione. Ecco perché chi riesce ad affrontare prove molto difficili viene visto come un eroe dai veri ricercatori mentre viene denigrato da coloro che hanno gettato la spugna.
La vita di Renato può essere sicuramente messa in discussione sia dal punto di vista alpinistico sia dal punto di vista umano perché è sicuramente lecito porsi alcune domande e tentare di dare delle risposte. Queste ultime però potranno servire solamente a rafforzare le proprie posizioni, difficilmente a spiegare cosa questo grande alpinista abbia realmente provato. Lui stesso, nel libro Oltre i venti del nord, ha cercato di usare il linguaggio al fine di condividere esperienze di per sé incondivisibili, allo stesso modo con cui un asceta cerca di tradurre in termini più o meno comprensibili ciò che ha realizzato in stati di coscienza cosiddetti alterati (definizione che mi piace poco in quanto parte dal presupposto che solo le coscienze ordinarie della veglia, del sonno e del sogno abbiano una reale consistenza).
E’ sicuramente legittimo chiedersi perchè Renato non abbia sufficientemente metabolizzato l’esperienza sulla Ridge of no return, non abbia cioè compreso che era ora di rallentare. Difficile dirlo anche perché dalle parole di Gogna non emerge chiaramente quanto grande fosse il desiderio di ricerca di stati interiori e quanto invece fosse grande, e semprechè vi fosse, il desiderio di qualcosa d’altro. L’essere umano è estremamente complesso. A volte crede di avere un obiettivo ben preciso e non si rende conto, o forse non vuole rendersi conto, che vi sono ulteriori forze in azione, pronte a spingerlo magari sempre nella stessa direzione ma con motivazioni molto diverse.
Come altri personaggi storici, peraltro di gran lunga più conosciuti, Renato rimarrà nella memoria per aver fatto cose straordinarie ma soprattutto credo rimarrà nella memoria per aver intrapreso una strada estremamente al limite, dove cioè il limite non viene solamente toccato ma quasi se non addirittura oltrepassato.
Sicuramente è lecito domandarsi se sia giusto o meno morire per tutto questo. Posto che ragionare in tali termini (giusto, sbagliato, buono, cattivo, ecc..) lascia un po’ il tempo che trova, soprattutto in un’ottica universale, e posto che nessun alpinista va in montagna per morire, credo che a tale domanda non si possa dare una risposta se non basandosi su pregiudizi perlopiù condivisi. Noi siamo programmati per vivere questa vita per un certo periodo di tempo ma cosa realmente siamo non lo sappiamo e, pertanto, qualunque spiegazione risente inevitabilmente dei confini in cui siamo relegati. Vi sono però persone che questi confini non li accettano o, comunque, pur dovendoli in una certa misura accettare, appena possono cercano di divincolarsi.
Forse la vera insubordinazione di Renato consisteva in questo, nel non accettare cioè di essere subordinato a forze in grado di annientare chiunque, forze che stanno in noi e fuori di noi ma che non è detto si debbano necessariamente contrastare. E’ necessaria tanta diplomazia anche con noi stessi, servono dei continui compromessi col nostro io interiore, ma non tutti siamo disposti a farli, forse perchè intravvediamo in ciò una forma di debolezza o forse perchè alcuni di noi sono semplicemente programmati a non poter fare altrimenti. Anche in questo senso la sconfitta, il fallimento, assumono una rilevanza assolutamente personali. L’accettazione o meno di una sconfitta deriva da quanto e da cosa riponi nell’ottenimento del successo, dalla misura in cui il successo assume un significato di natura esistenziale.
Concludo con una domanda che mi ha sempre incuriosito e che riguarda Goretta. Cosa può spingere una donna a vivere a fianco di un uomo come Renato? Che tipo di condivisione ci può essere? Possiamo liquidare il tutto con la parola “Amore”? Mi pongo queste domande perché ci sono donne le quali, a torto o a ragione, lasciano il proprio uomo per molto ma molto meno. Io, per es., non potrei mai permettermi di passare 17 giorni in parete mettendo a repentaglio la mia vita perché la mia donna forse me lo consentirebbe una volta ma la seconda mi manderebbe a quel paese. Forse che pure Goretta sia fondamentalmente un’insubordinata?
Alessandro la tua scrittura mi emozionar va dritta al cuore ,leggo piano e ogni tanto chiudo gli occhi. Credo che pochi sappiano quanto valeva questo uomo. Grazie per queste emozioni.