Renato Casarotto, una storia di storie

Renato Casarotto, una storia di storie
di Alberto Peruffo
(per gentile concessione di Alpi Venete, Rassegna Triveneta del CAI, Autunno-Inverno 2016-17)

Lettura: spessore-weight****, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***

Un sera d’agosto del 2016. Passo di Costalunga. Arrivo al parcheggio molto tardi. Sistemo il camper. Mio figlio e mia moglie stanno già dormendo. Scendo. È quasi la mezzanotte e fuori, nell’oscurità, scorgo due figure. Sono loro. I miei vecchi compagni. Silenziosi, fantasmagorici. Dietro ai corpi intuisco, nel chiarore della notte stellata, le crode del Catinaccio. Davanti il Latemar.

Primo tiro della via Casarotto, sulla parete sud-ovest della Roda di Vael

A voce alternata, i compagni, mi dicono, quasi sottovoce – domani andiamo a fare la Casarotto alla Roda di Vael, cosa ne pensi? 

Mmm… La Casarotto? Alla Roda di Vael?!

Vecchi – si fa per dire – perché sono i miei primi compagni di cordata. Io ho 49 anni. Loro qualche anno di meno. Legato alla stessa corda ho passato alcuni dei più bei momenti della mia vita. Lo penso sul serio. Alla fine dei conti, se proprio bisogna farli, l’alpinismo è vita. Vita al massimo grado. Anche se a volte la morte ti sfiora e nessuno di noi dorme sonni tranquilli quando sta per partire per qualcosa che non conosce.

Tutti noi conosciamo questo stato d’animo. Questa inquietudine può essere un sentimento sereno. Può portare a cose straordinarie. Se si controlla. Molti alpinisti la vivono. E la controllano. Amo andare dove non conosco, diceva Renato.

Scruto i miei compagni. È da molto che non arrampichiamo insieme. Tempo fa le strade si sono divise. Ora siamo di nuovo qua. Al Passo. La via sulla parete ovest della Roda di Vael è del 1978. Aperta senza usare chiodi. Solo nut. Ci scambiamo due parole su quel poco che sappiamo e si decide per l’ok. Domani, con calma, si parte e si va all’attacco della Casarotto. Due cordate. Il quarto, Bruno, arriverà la mattina. Tutti vicentini.

Roda di Vael, parete sud-ovest: sulla variante della via Casarotto

Renato Casarotto era nato a Vicenza il 15 maggio del 1948. Quartiere popolare dei Ferrovieri. So che era un infermiere tranquillo e che faceva bene il suo servizio in Stazione a Vicenza, e che, appena poteva, saliva in montagna per fare esercizio, chiamiamolo così, di libertà. Di lui, posso dirlo senza timore, so molte cose. Non perché ami ostentarle. O saperle senza una ragione. Ma perché la vita è fatta così. Certe cose di certe persone si devono sapere e la mia vita ha voluto che fosse così. Una storia che interseca altre storie, a volte straordinarie, altre ordinarie, ma che nel loro intreccio si rivelano uniche. Proverò a raccontarle, per sommi capi, tenendo sempre sott’occhio la connessione con Renato. E con i miei e suoi compagni.

Accadde tutto un giorno di una primavera del 1993. Una gita del CAI, sezione di Montecchio Maggiore. Destinazione, Dolomiti. Forse Sorapis. Da qualche anno avevo iniziato a frequentare la sezione locale perché c’era bella gente, di paese, concreta e creativa. C’erano poi tre miti, in ordine d’età: Giacomo Albiero, Gino Broca, Franco Brunello. Tre alpinisti. Tre pilastri del CAI sezionale. Vederli in azione era una gioia per il cuore e per la mente. Io, giovane alpinista, ero stato costretto a forza di consigli di iscrivermi al CAI per frequentare i Corsi: i soci della Sezione avevano saputo quali follie di norma io e la mia morosa facevamo, senza imbrago, sicure, cordini. Lei era nata sulle rocce ruvide, vulcaniche, del Monte Nero, dietro casa mia. Io, ai suoi piedi. Camminare sul ripido, terreno insicuro, era per noi un fatto naturale. Non avevano tutti i torti, i soci del CAI: sotto le nostre gambe erano passate nel giro di pochi anni tutte le Piccole Dolomiti e il Pasubio, tutto il camminabile, per quindi poi “progredire” fuori sentiero, su e giù per scarubbi, scoscesi, vaji, ferrate, dotati di due soli strumenti: uno zaino (con in media 4 panini a testa) e gli scarponi. Il casco? Sì, l’avevamo notato in testa agli altri. Ma pensavamo fosse un optional, o, a volte, un tratto distintivo. Una patacca impressa sul capo.

Alessio Gualdo ed Enrico Peruffo, sulle tracce di Renato Casarotto (Roda di Vael, parete sud-ovest)

Quel giorno, durante la gita citata, capitò una coincidenza che fu determinante per il mio futuro. Una coincidenza è l’accadere simultaneo di due o più fatti. Li riassumo. Il primo: salirò nella vecchia corriera da solo (la morosa, non ricordo come mai, era assente) lasciando per qualche minuto il posto al mio fianco, libero. Secondo: appassionato com’ero di libri e di storie, venuto a conoscenza della piccola ma preziosa biblioteca del CAI, avevo preso in prestito un libro che ancora oggi giudico “formidabile”, creatore di forme e di sogni: Ascensioni con Gino Soldà, a cura di Franco Bertoldi, grande formato, illustrato, con presentazione e introduzione di Reinhold Messner, Tamari 1980. Me lo porterò appresso. Il terzo: nel mentre lo sto sfogliando, arrivato alla pagina con la foto a piena pagina del K2, sento una voce sospirare alle mie spalle: – Na gran bela montagna. Poso sentarme? – Alzo la testa, e quasi imbarazzato, dico – Certo, certo. Prego. – L’uomo che si siederà al mio fianco è Giacomo Albiero. Ormai sulla soglia dei settanta.

Già qui, a questo punto, scrivendo il suo nome, nel mio cuore si apre una breccia. Non ho conosciuto uomo e alpinista più affascinante di Giacomo Albiero. Egli – che già conoscevo di fama e perché siamo nati sotto lo stesso monte – mi dice, con voce triste, colma di nostalgia: – … Lì xé morto Renato, un me amico. Un me caro amico. – Parole che non ho più dimenticato. Come tutto quello che da quel giorno Giacomo cominciò a raccontarmi. Iniziò a puntare il dito sullo Sperone Sud-Sud Ovest, vicino alla Magic Line, dove Casarotto stava tracciando una nuova via. Al terzo tentativo, dopo essere giunto a circa 8300 metri, respinto dal brutto tempo, durante la discesa, a pochi minuti dal Campo Base e dalla moglie Goretta, Renato trovò la morte. Cadendo in un crepaccio. Era un venerdì di mezza estate, il 18 luglio dell’anno 1986. Mi raccontò i dettagli. La telefonata che ricevette pochi giorni dopo. E poi altre cose sue personali, chiudendo con: – Renato, prima de partire, el vegneva sempre a casa mia a saludarme.

Roda di Vael, via Casarotto: Alberto Peruffo sul traverso alto della variante

Da quel giorno camminai molte volte al fianco di Giacomo. In ascolto. Intra montes. Mi promise, alla fine di uno dei nostri numerosi giri insieme, che, presto, mi avrebbe portato a fare la Carlesso. Una via di V+ sul Baffelàn. Avevo appena concluso il primo corso di avvicinamento e lui aveva visto quanto fosse forte la mia passione – e forse predisposizione – per l’alpinismo. Ricordo che studiai per due settimane la relazione delle vecchie schede del CAI Schio – bellissime –  di cui non capivo le parole, tipo diedro, camino, fessura… e che con il mio allora primo compagno di corso, Alessio, cominciai a frequentare “in incognito” San Daniele, una vecchia cava frequentata da alpinisti “veri” e dove si faceva ciò che oggi chiamiamo boulder. Noi consumammo, nel giro di un anno, le nostre pedule! Passarono le due settimane. Puntuale, ero pronto sull’uscio di casa, in corso Matteotti a Montecchio, dove ancora non c’era la mia libreria. La Casa di mio nonno Giovanni. Ciao mamma, vado a fare la Carlesso al Baffelàn con Giacomo. In paese tutti lo conoscevano. Una via in montagna… Pensate! Mai messo mano su una via. Fu il mio battesimo. Durante la giornata Giacomo mi raccontò quanto le vie di Carlesso furono importanti per Casarotto. Renato aveva scelto come via di allenamento standard la Carlesso alla Sisilla, non al Baffelàn. Durissima. Provatela! E scelse la Carlesso al Soglio Rosso, altra via molto temuta, come prima solitaria della sua luminosa carriera di grande alpinista solitario. La percorse nel 1971.

Roda di Vael, via Casarotto: ultimi tiri (Bruno Castegnaro e Alberto Peruffo)

Non passò molto che un giorno di settembre – nel frattempo avevo portato a termine diverse vie classiche sulle Piccole – passando sotto ai Sogli del Pasubio, durante una delle nostre camminate, Giacomo mi indicasse, passandoci a piombo sotto – e vi assicuro che gli scogli su cui sto per piantare lo sguardo fanno paura, per un giovane – il Camin Carlesso e la Boschetti-Zaltron, al Soglio d’Uderle, aggiungendo: quando passerete per quelle vie, sarete pronti per le grandi Dolomiti. Io e Alessio, con l’aggiunta a volte di Enrico, non esitammo e le prime vie della stagione furono la Boschetti, poi, poco dopo, il Camin Carlesso. Chiudemmo con la via più temuta, la Carlesso al Soglio Rosso, gettando un occhio sulla temutissima Casarotto-Campi, di cui non c’era relazione attendibile. Non solo: non conoscevamo nessuno tra i nostri che l’avesse fatta. Neppure Giacomo. Passò l’inverno. L’anno seguente, a maggio, ricordo che diedi appuntamento ad Alessio in sede CAI, dicendogli al telefono: – cosa dici se domani andiamo a fare la Casarotto al Soglio Rosso? Ne parliamo in sede. – Come prima via della stagione? – chiese lui, serafico. Sì – argomentai io – visto che l’ultima via che abbiamo fatto l’anno scorso è la Carlesso, siamo in continuità logica… Perciò – mentalmente – in forma. Il mattino seguente partimmo, passammo sotto la parete sud senza alzare lo sguardo per non prendere paura di dove passava il traverso che avevo studiato l’anno prima, e filammo via fino alla vetta. Una grande via. Ripetuta d’un fiato! All’attacco, per riprendere lo zaino, alzammo la testa. Se avessimo osservato con cura dove eravamo passati qualche ora prima, confermerà il mio compagno, neppure si partiva. Correva l’anno 1997.

Renato Casarotto. Il suo stile e la sua coerenza ci stava aprendo la strada verso le grandi vie delle Dolomiti. Non solo a noi, ma a una moltitudine di alpinisti. Io diventai un segugio della sua storia. Cercai di entrare nella sua ricerca personale e di contestualizzarla nella storia dell’alpinismo, di cui ormai mi nutrivo quotidianamente. Sentivo tuttavia l’esigenza di metterci le mani, non solo la testa. Di lì a poco, spinti dalle sue vie e da quelle dei suoi compagni, che divennero i nostri maestri, ci incamminammo verso il grande alpinismo, senza accorgerci. Nel 96 passammo indenni e veloci per la Solleder, pietra miliare passata di moda. Giacomo e Pierino Radin, l’altro grande compagno di Renato, la ripeterono pochi giorni prima per i 70 anni di Giacomo (71), che a 50 la fece in solitaria. Dal 1993 al 2000, a parte una corsa di Manrico Dell’Agnola arrivando dal Pelmo, non ci furono altre ripetizioni. La Nordovest – dimenticata dai più – era diventata la “nostra” parete. La Parete di Giacomo. E di Renato. Con Casarotto, Giacomo aveva aperto una via nel 1979. Attraversato tutte le cime nel 1972. E qui Renato aveva fatto la prima grande solitaria invernale. La Andrich-Faè. Infine, nel Gruppo del Civetta c’era l’altra grande firma sulla Busazza ad opera dei due, con l’aggiunta di Giuseppe Cogato. Settimo grado! Pierino partecipò al primo tentativo. Poi, per impegni di lavoro, non poté ritornare. Siamo nel 1976. Con Casarotto e Campi aveva già fatto l’invernale alla Strobel sul Bosconero e firmato l’anno precedente il capolavoro sulle Pale di San Lucano, il Diedro Ovest allo Spitz di Lagunaz. La via che diventerà un mito.

Giacomo Albiero, l’attore Massimo Nicoli e Goretta Traverso al Rifugio di Campogrosso, in occasione della rappresentazione teatrale Due amori. Storia di Renato Casarotto (18 luglio 2015)

Nel giro di pochi anni entrai in confidenza con la storia dell’alpinismo. Provai a capire concetti e stili. Cosa valeva e cosa non andava, secondo la mia personale analisi. Iniziai, pure, sempre in prospettiva storica, a intuire le grandi imprese da fare, sullo stile di Casarotto, sulle Alpi. Come ad esempio la Solleder in solitaria d’inverno. Così, sempre con Alessio, nel 1997 “provai a provarmi” per un eventuale tentativo facendo l’invernale alla Aste-Susatti. Fu molto dura. Nei due bivacchi gelidi che affrontammo pensavo spesso a Renato, solo, sulla Andrich, lì a fianco, 22 anni prima. La tirammo fuori bene. Nessuno dei due conosceva la via e neppure il difficile rientro per la ferrata. Forse io alzai troppo l’asticella del rischio senza mettere dei buoni materassi, troppo sicuro delle mie forze e poco propenso nel piazzare chiodi a prova, diciamo, di bomba. Pure il tempo non fu dei migliori. Insomma, era un alpinismo rischioso, duro e di sofferenza. Ricordo i dolori del ritorno. Tornammo a casa con le mani “sbranate” dal freddo e dalla roccia, i piedi gelati, il corpo azzimo. A Longarone, ci fermammo a un distributore. Il tipo della cassa ci squadrò come se avesse visto due bonzi usciti da una parrucchiera notturna. Inoltre, mi fissava i piedi, insistentemente. I piedi!? Io lo guardai, come quando vuoi dire, che c…o vuoi? Lui mi indicò, alzandosi dalla cassa per meglio osservarmi… le scarpe. Le mie scarpe? Da ginnastica. Asimmetriche? Caspita! La destra andava a destra e la sinistra a sinistra. Rovesce! In effetti i piedi erano un po’ insensibili e per noi andava bene così, conclusi. Per non raccontare di come ci accolsero mogli e affini…

Anzi, ve lo racconto. Come? Incazzate! Almeno la mia. Per i tre/quattro giorni della nostra temibile avventura invernale, non comunicammo. Tuttavia Giacomo ed Enrico vennero sotto alla parete a tenerci d’occhio, fino dove poterono (questo mi emozionò – non era previsto – e mi caricò). Tardammo di un giorno rispetto alle loro previsioni. Il secondo giorno ci avevano visti molto in alto. Ma i camini terminali ci costrinsero a ulteriore bivacco. Al rientro gli amici alpinisti del paese ci organizzarono una piccola festicciola a base di vino rosso e dolcetti salati, a casa mia. Dopo le prime bottiglie, Giacomo Albiero ebbe l’ardire di formulare, provocando mia moglie – Martina, donna esuberante, a tratti rupestre – la seguente conclusione: – bisogna che te-te la meti via, Alberto, la montagna, la gà nel sangue… Ci fu un attimo di silenzio sospeso sullo sguardo glaciale, fulmineo, di mia moglie. – Nel sangue? Perdiana! che fasso na trasfusionn a sto ramengo qua! – disse lei, convinta e convincente. Giacomo intimorito, sorrise, di fronte a una tale stoccata. Non aveva tutti i torti. Avevo a casa un figlio di un anno. Con Alessio non arrampicai più, in montagna, fino all’inizio di questa storia. Sarò sincero – un omaggio sincero – Alessio Gualdo, divenuto poi Istruttore Nazionale del CAI e direttore della Scuola di Montecchio, è stato ed è il più elegante (la parola “forte” non si addice al nostro alpinismo) rocciatore con cui abbia mai arrampicato. L’ho rivisto filare, legato alla stessa corda, leggero e sicuro anche sulla Roda di Vael, dove non abbiamo aggiunto un chiodo. Solo friend. Abbiamo trovato pochissimi chiodi, alcuni sulle soste e uno sulla variante. E ve lo scrive uno che ha avuto come come compagni Lorenzo Massarotto e Ivo Ferrari.

Incanto sotto la Sisilla, durante lo spettacolo teatrale Due Amori

Io e Alessio fummo una cordata memorabile per cinque anni. Lui alto e silenzioso, preciso. Sembrava Ettore Castiglioni. Io, statura media, piuttosto fumante e forse esageratamente sicuro, esplosivo, dove normalmente si tribola. Così è. Scuola e roccia vicentina d’antan. Io avrei voluto essere un Bruno Detassis. Vi ricordate Castiglioni-Detassis? Era la nostra cordata di riferimento. Vai Ettore, vai Bruno, si sentiva in parete quando passavamo noi, tra lo sguardo incredulo degli alpinisti.

Nel 1999 provai ad andare all’attacco della Solleder, in febbraio. Stracarico e con strategia atleticamente suicida, senza portare carichi prima. Rinunciai, appena fui sotto la parete: capii che non era il modo, ma neppure il momento per me. Non l’ho mai detto a nessuno. Ma ora posso: sono passati 20 anni da quel tipo di alpinismo. Per fortuna ci pensò Marco Anghileri, di cui divenni amico, e con il cui racconto inaugurai Intraisass.it. Provai pure, un tentativo sul Diedro Casarotto, d’inverno, sempre da solo. Nel senso che stavolta portai una corda in perlustrazione del labirintico attacco. La nascosi in un pertugio. È ancora là. Avevo capito che le solitarie (ne provai alcune), con tutto il carico di materiali e di manovre, non facevano per me. Non ero all’altezza di tali laboriose manovre associate a un isolamento solitario invernale alla Renato Casarotto. Isolamento che, voglio scriverlo, è un’apertura totale all’ambiente estremo. Ma amavo il suo stile in parete. Volevo rivivere, alla mia portata e secondo i miei gusti e le mie attitudini, le sue avventure. Interpretarle a modo mio, come avrebbero fatto molti altri alpinisti.


Fu proprio dall’incontro con Marco che ebbi la conferma che Renato era anche altre persone. Che il suo immaginario aveva lavorato così bene da portare tanti alpinisti a confrontarsi con la montagna by fair means, senza compromessi, diversamente da altri alpinisti tromboni. By fair means, cioè, in altre parole,  per praticare quell’esercizio di libertà che io credo l’alpinismo permetta meglio di qualsiasi altra arte e sport. Perché? Perché non manipoli la materia della tua libertà, la natura delle cose, come fai nelle altre arti, ma transiti per essa, senza modificarla. Passi in un altrove concreto, adattando tutto te stesso, la tua capacità. Senza rifugi interiori o surrogati di vario genere, tipico dello sport in situazione protetta o dell’arte classicamente intesa. Senza chiuderti dentro a una stanza. A uno stadio. In una pista. Tra le mura di una sala da concerto. Continuai così a inseguire Renato su altre montagne. Sulla Simon-Rossi al Pelmo. Sul Philipp in Civetta. Fino al Diedro Cozzolino sulle Giulie. O sul mitico Diedro Casarotto-Radin. Scovando le storie connesse a quei luoghi. Che raccontai nella Grande Triade d’Oriente. I tre grandi diedri delle Alpi Orientali.

Renato Casarotto in Solo di cordata, lungometraggio di Davide Riva che venne presentato in anteprima a Vicenza, 9 febbraio 2016

Così ora vi faccio una lista, molto personale, per finire la storia. Renato Casarotto è in parte Reinhold Messner e Walter Bonatti. Il grande scalatore altoatesino intuì per primo la grandezza di Renato quando nel dicembre del 1974 fece, da solo, la prima invernale della Simon-Rossi, dove lui aveva fallito con il fratello per due volte. La salita all’Huascaran del 1977 confermò il valore superlativo di Renato e da allora Messner pensò bene di controllare, e se possibile tarpare, le ali del suo più forte concorrente nell’immaginario dell’alpinismo contemporaneo. Vedi spedizione Messner K2 1978. Conferma di ciò la diede Walter Bonatti, che negli anni a venire criticò fortemente l’alpinismo di Messner, pur riconoscendone il valore e la forza (Il limite di Messner, si legge su Repubblica del 16 novembre 1986, tanto per citare un articolo che tutti possono ancora trovare in rete: leggetelo!), e scrisse la prefazione a colui che considerava il suo erede. Eredità poi rubata in epoca recente da Messner (forse spinto dalle sue ancelle, giornalisti, consulenti markettari), per la quale Renato, tuttavia, non si deve sentire affatto privato. A mio vedere, Casarotto ha avuto una motivazione superiore, scevra dalla sindrome di primo della classe, rispetto a Bonatti e Messner. Bonatti si liberò da quella sindrome nella seconda fase, quella di esploratore puro, per la quale fu davvero super. Combinando le due fasi di Bonatti, l’eredità spetta a pieno titolo a Renato Casarotto. Punto. Walter lo capì. E lo scrisse. Per Oltre i venti del Nord, Renato Casarotto, Dall’Oglio 1986.

Renato Casarotto è in parte Alessandro Gogna e tutti gli amici del Nuovo Mattino. Le sue salite in Nord America diradarono le nebbie di Sentieri verticali, Zanichelli 1987, e di altre cose scritte su di lui dallo stesso Gogna. Sull’altipiano della libertà Renato già danzava con le scarpette moderne e con i ramponi frontali, senza bisogno di psicoanalisti o di laboriose ricerche interiori, accompagnato da alpinisti del calibro di Jeff Lowe, il protagonista di Metanoia. Certo, il suo amore per l’ignoto e la difficoltà estrema lo avvicinava troppo al limite ultimo, alla fatica senza risparmio, quella che chiede tutto te stesso, e che scruta da troppo vicino la morte. L’ignoto, l’abisso, erano lì, presenti, sempre pronti a chiamarti, ma non c’era necessità di dare la risposta che gli altri volevano sentire, o addirittura, da profeti, siglare a futura memoria. Per alcuni Renato doveva comunicare visioni. Di questo fu accusato. Ma quando mai un visionario “comunica” visioni? Eventualmente le istiga. Condividendo qualche raro segno. Renato – lo deduco oggi dopo fitta corrispondenza – non fu capito da amici che non gli erano stati sufficientemente vicini. Per carattere e stile. Lui stava battendo altre strade. E la sua affascinava più delle altre. Senza necessità di spiegarla. Com’è giusto che sia per un visionario che non deve pensare alla comunicazione delle proprie visioni. Altrimenti, spariscono. Sentire oggi Alessandro dire che Renato è stato il più forte alpinista tra gli anni 70-80, o vedere un Teatro Olimpico pieno di gente e amici per omaggiarlo, sì, può dare gioia per una sensibilità che cambia. Ma non è sufficiente. La forza non basta. Ci vuole altro per ravvivare la memoria di un “uomo ricercatore di ignoto” in un mondo dove lo spettacolo – la sua costituzionale parte becera, pubblica – domina sulla ricerca e si scambia – o meglio, si vende – l’avventura umana per un reality condotto da colui che viene dichiarato il più forte alpinista al mondo. Il più forte a fare cosa?

Vicenza, Teatro Olimpico, 26 aprile 2016: Due Amori è l’evento inaugurale del 64° Trento Film Festival

Renato Casarotto è Lorenzo Massarotto (prima solitaria al mitico Diedro): due grandi dolomitisti-alpinisti che si danno la mano. A Lorenzo, lo dico con orgoglio, ho avuto la fortuna e l’onore di stringere la mano, e la corda, di persona. Come ho stretto le mani a Ermanno Salvaterra, Ivo Rabanser, Renzo Corona e a tanti altri nomi di primo piano dell’alpinismo italiano contemporaneo che, a partire dal capolavoro di Gino Buscaini, Dolomiti Orientali e Occidentali. Le 100 più belle ascensioni (Zanichelli 1984, 1988), sentirono parlare del mitico Diedro. E a puntarlo… come obiettivo assolutamente da fare… soprattutto dopo La Grande Triade d’Oriente. Nel 1999, dopo aver ripetuto il Diedro Philipp con Alberto Urbani, con Pierino tentai il mito che porta impresso il suo nome: il Diedro Casarotto-Radin. Smemorati, saltammo via i primi tiri facili, attaccando diretto. Sbagliando via, io tirai per alcuni tiri, credo nuovi, che chiodai. Pierino, da una sosta, si tirò dietro un cubo di roccia sulla coscia e ripiegammo. Ci rifacemmo qualche mese più tardi sul Cozzolino. Pierino al ritorno mi fece il più grande complimento della mia vita alpinistica. La settimana successiva, talmente gasato, aprì con Alberto Urbani Alpinismo Radicale sul Baffelàn. Estrema. L’anno seguente saltai la stagione dolomitica per l’Hindu Kush e Pierino tornò sul suo Diedro con amici del CAI Vicenza. Finalmente, nel 2001 chiusi la Grande Triade con Alberto Urbani e Michele Romio. Portammo provviste nostrane e calma preistorica. Soppressa e vin crinto. Furono tre giorni memorabili. Metabolizzai quindi il tutto, raccontando i tre diedri sulla Rivista del CAI con un resoconto che ispirò molti alpinisti ad andare a ripetere il Diedro dei Diedri, il terzo della serie, il Diedro Casarotto-Radin. Rabanser mi chiese al Trento Film Festival alcune informazioni essenziali. Ermanno mi telefonò durante la discesa… Ma ero ad un sagra veneta, tipica, DE.CO., direbbero oggi, con le mani sporche di polenta onta, ragione sufficiente per non rispondere al mio primo cellulare. Ermanno bivaccò.

Renato Casarotto è Luca Visentini e Mario Crespan. La coppia per eccellenza, anzi d’eccezione, di ciò che per me significa alpinismo e cultura. Loro amarono Intraisass, che è un po’ lo stile di Casarotto depositato in un progetto culturale. Ricordo il giorno che a Garés, fuori dalla porta di Soppelsa Galinòt, con cui avevo stretto fratellanza, nonostante la differenza di età, “il Luca” Visentini mi si presentò davanti mentre tornavo gioioso da un’escursione solitaria dall’alto delle Pale (mia moglie era rimasta giù, a casa di Arturo, col nostro piccolo primogenito), dal Campigàt. Lapidario, come solo sa fare lui, mi disse: – non pensavo che una persona di cultura potesse essere così “forte”… L’ho guardai stupito. – Ah sai, ho letto la Triade, il Cozzolino, il Casarotto, il Philipp… di solito chi scrive non alza il culo dalla sedia. A certe altezze e su certi gradi. Il Galinòt drizzò le antenne. Che tempi! A casa di Arturo! Era un incanto sentirlo parlare di alpinismo che per forme provocatorie – da lui assorbite in quel luogo fuori dal mondo – farebbe arrossire i profeti del Nuovo Mattino e i loro altipiani della felicità, corrosi, ahinoi, ben sappiamo, dalla competizione, dai chiodi a pressione e da un ambientalismo spesso di superficie. D’altra parte, se la natura diventa un mero campo di ricerca interiore, dove andiamo a finire? In un paradiso lisergico? Ah, di passaggio, una parentesi sulle connessioni alpinistiche intramontane che non ti aspetti: poco prima di quell’incontro, con Alessio aprì Intracomelle sul Col Alto lasciando una declarazione d’amore per la stupefacente scrittura introduttiva di Arturo sul capolavoro Pale di San Martino, 1990, di Luca Visentini. Il giorno del mio matrimonio, dopo la prima ripetizione e la consegna della sospetta declarazione da parte di due miei cari amici, mi chiama alle ore 9 – mentre mi sto vestendo da sposo, rigorosamente senza cravatta – un tale… Mia madre mi comunica che al di là del cavo, c’è un tipo che fa un nome strano e lungo… un certo Arturo Soppelsa Galinòt da Garés… Caspita! Strabuzzo. Arturo, Galinòt, Soppelsa, da Garés!? – ripeto con voce sincopata… Arturo e i miei amici Beppe e Massimo Cattelan – stra-appassionati di Casarotto – mi faranno il più bel regalo di nozze che mai potessi desiderare: la voce del Galinòt. La sua amicizia. La loro. Eterna. Che compagni! Che gioia è stato tutto questo alpinismo.

Vicenza, Teatro Olimpico: Roberto Mantovani racconta Renato Casarotto (26 aprile 2016)

Renato Casarotto sono gli amici Arturo Franco Castagna e Giuliano Bressan e il loro alpinismo generoso. Sincero. Esplorativo di luoghi vicini e di relazioni civili. Ho rivisto Giuliano alla prima del film di Renato, a Vicenza. Il suo sorriso è simile a quello di Casarotto. L’avevo conosciuto 20 anni fa, come Castagna, Accademici del Cai. Oggi sono come allora. Passati indenni alle corruzioni del tempo. Sono la quintessenza della passione per l’alpinismo come disciplina di gioia civile e libertà, vita natural durante. Le loro passioni sono immutate, Il loro alpinismo è inossidabile. Un patrimonio immateriale per tutti noi, alpinisti non solo veneti. Renato è nei loro cuori come lo è in quello del giovane regista milanese Davide Riva. O nel ritratto di Piera Biliato e nelle parole di Carlo Caccia, grandi ricercatori di storie di alpinismo esplorativo che per anni abbiamo rincorso insieme tra le maglie della nascente Rete. Intraisass, tra alti e bassi, durò 14 anni.

Renato Casarotto è Pierino Radin, Diego Campi e Giuseppe Cogato, i compagni storici di Renato insieme con Giacomo Albiero. Ma è anche Adriana Valdo e molti altri, tra i quali, per me, gli altri due Casarotto di Vicenza, signori alpinisti, di una Vicenza che ha l’alpinismo nel sangue… Giampaolo, himalaysta di grande classe e leggendaria modestia, capo della mia prima spedizione ad un ottomila; Guido, maestro e precursore dell’arrampicata libera su roccia come nessuno qui da noi, autore del prezioso volume Piccole Dolomiti e dintorni. Ma Renato è soprattutto il GRRC, il Gruppo Rocciatori Renato Casarotto del CAI di Vicenza che ogni anno si dà da fare per tenere alta la sua memoria, nonostante la deriva escursionistca-burocratica-pataccara di tutte le sezioni del CAI. Ancora più riprovevole nel momento in cui da figli dei fiori in montagna si diventa figli dei pfas in pianura. PFAS? Perfluorati alchilici. Decripto l’acronimo per il mio presidente sezionale e per tutti quegli alpinisti che sono assenti in città – nelle città – quando la loro presenza è vita.

Renato sono i miei compagni del CAI Montecchio, con cui abbiamo scalato i Garmush in Hindu Kush. intitolando la cima Casarotto Kor (c. 6200m): Mirco Scarso, Enrico Peruffo e Michele Romio. Sono Franco Michieli dalla Valcamonica e Davide Ferro del Rifugio di Campogrosso e le loro attraversate senza strumenti, tutt’uno con il loro impegno civico e culturale (chi mai dimenticherà Due Amori sotto la Sisilla, recitata da Massimo Nicoli del Teatro Minimo di Ardesio?). Impegno condiviso con gli amici dell’Operazione Mato Grosso e le Guide Don Bosco del Centro Andinismo Renato Casarotto voluto dalle Sezioni Vicentine, a Marcarà, sulla Cordillera Andina.

Renato è soprattutto Roberto Mantovani e Goretta Traverso. Goretta, magnifica donna e moglie a cui Renato dedicò il Pilastro del Fitz Roy nel 1979 e che coinvolse nella prima salita femminile italiana a un ottomila, nel 1985. Con loro ho condiviso confidenze che non è il caso di raccontare qui ma che mi fanno concludere questo articolo con le parole del coraggioso caporedattore delle Alpi Venete che mi scrive, dopo la Roda di Vael: – certo che quando sento queste cose, avverto di come Uomo e Storia si prendano a braccetto e poi improvvisamente si lascino, per tentare di riprendersi più in là, oggi con parecchio affanno.

Ecco, io ci ho provato a riprendere sotto braccio molte storie. Ho dedicato a loro parte della mia vita. Della mia ricerca. A Renato. Non so se ci sono riuscito. Un risultato di cui non posso dubitare è che porterò per sempre con me l’esempio straordinario di vita che egli ci ha donato. Per poter percorrere a modo mio, con dignità e indomita, indomestica – mi piace usare questi due aggettivi parenti – creatività… la mia, di vita.

Vicenza, Teatro Olimpico: Alessandro Gogna ricorda Renato Casarotto insieme ad Alberto Peruffo, regista culturale dell’evento (26 aprile 2016)

Tanto da riprendere in mano il foglio accartocciato che nelle mani di Roberto Mantovani chiude magistralmente il film Solo di cordata. Foglio firmato R.C., che dice: 

«Se il modo con il quale porto avanti il mio discorso alpinistico potrà essere d’aiuto a chi pratica o desidera conoscere la Montagna, sia pure una persona sola, potrò già reputarmi fortunato».

Qui, da Le Alpi Venete, caro Renato, siamo più di uno. 
Siamo una grande e fortunata moltitudine. Da tutti noi un abbraccio, a 30 anni dalla tua partenza. Per la Ridge. Senza ritorno. Ti vogliamo bene.

PS
La Casarotto alla Roda di Vael, con la variante, è una via talmente bella e accessibile, con roccia stupenda, movimenti di grande estetica, stile impeccabile, attacco e discesa molto facili, che è destinata a diventare una classica delle Dolomiti per la media difficoltà. Alleghiamo la relazione della Scuola Graffer, per gentile concessione. http://www.scuolagraffer.it/Relazioni/Catinaccio/RodaVael_Casarotto&VarianteBozzetta.pdf

Una citazione dal Giornale di Vicenza sulla serata al Teatro Olimpico, durante l’anteprima inaugurale del 64° Trento Film Festival dedicata a Renato Casarotto, curata da Alberto Peruffo, il 26 aprile 2016: «Casarotto è andato al di là dell’immaginabile – afferma Alessandro Gogna, scrittore e compagno di alpinismo di Renato – e con le sue provocazioni ha innescato una reazione quasi di chiusura nel mondo alpinistico. Non l’abbiamo capito: e quando si è colpiti nel profondo dell’anima, si sta in silenzio. Chi potrà porre rimedio, saranno solo coloro che ripeteranno le sue imprese».

Rimandiamo, nell’ambito di GognaBlog, agli altri post su Renato Casarotto pubblicati in precedenza:
https://gognablog.sherpa-gate.com/ricordo-di-renato-casarotto/
https://gognablog.sherpa-gate.com/renato-casarotto-linsubordinato-parte-1/
https://gognablog.sherpa-gate.com/renato-casarotto-linsubordinato-parte-2/
https://gognablog.sherpa-gate.com/i-due-soli-di-renato-casarotto/
https://gognablog.sherpa-gate.com/la-solitaria-danza-la-vita-casarotto/
https://gognablog.sherpa-gate.com/consegna-di-immaginario/

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Renato Casarotto, una storia di storie ultima modifica: 2017-09-28T05:22:51+02:00 da GognaBlog

7 pensieri su “Renato Casarotto, una storia di storie”

  1. Bravo Alberto, pezzo affascinante che trasuda passione! Sarei interessato a ritrovare l’articolo Grande Triade d’Oriente. I tre grandi diedri delle Alpi Orientali. Qualcuno c’è l’ha in PDF? grazie

  2. Credo che questo sia il post più bello letto finora, è stato come leggere una lettera d’amore, bellissimo, grazie.

  3. GRANDE ALBERTO,MI FAI RICORDARE QUANDO MOLTI DI NOI HANNO AVUTO LA FORTUNA DI VIVERE IN QUEL PERIODO STRAORDINARIO NEL QUALE RENATO ERA ( E’) UN RIFERIMENTO DI MENTALITA’ ALPINISTICA E FISICITA’ FUORI DAL COMUNE. AVERE CONOSCIUTO LUI ED UN BERHAULT E’ COME AVER LETTO LA STORIA DELL’ALPINISMO DAL VIVO.

  4. posso solamente fare i miei più sinceri complimenti per questo omaggio all’uomo e alpinista immenso quale è stato Renato Casarotto, senza dubbio un punto di riferimento a cui abbeverarsi e trarre ispirazione.

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