Responsabilità giuridica in montagna
(principi generali e ruolo del CAI)
di Carlo Crovella (26 dicembre 2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(0)
Il tema della responsabilità giuridica sta assumendo una crescente importanza nel dibattuto fra gli appassionati di montagna. In effetti l’aumento degli incidenti (e soprattutto la loro maggior visibilità mediatica rispetto al passato) rende questa argomento particolarmente attuale, ma al contempo molto delicato, perché coinvolge tutte le tipologie di uscita sul terreno e quindi anche le gite private (dove spesso si ritiene, impropriamente, che dovrebbe prevalere il senso di “amicizia”).
Ascoltando qua e là i discorsi fra amici e conoscenti, mi sono reso conto che le idee sull’argomento sono piuttosto confuse e contraddittorie, anche in soggetti considerati “qualificati”, come ad esempio gli istruttori delle scuole del CAI o i capi-gita di escursioni del CAI stesso. Quando parlo di “confusione” non faccio riferimento al testo degli specifici articoli di legge, ma ai principi generali che, concettualmente, si posizionano a monte (scusate il gioco di parole…) degli articoli applicativi.
Con l’obiettivo di fugare il più possibile tale confusione, ho pensato di condividere i risultati degli approfondimenti da me condotti per interesse personale. Ho volutamente tracciato i ragionamenti per punti schematici, con una esposizione che può apparire “alla buona”, ma l’obiettivo è quello di risultare comprensibile alla maggior parte dei lettori. Magari farò storcere il naso a qualche giurista sopraffino, ma è un prezzo che bisogna pagare, perché il tema va compreso da tutti con assoluta chiarezza.
1) Affidamento: uno dei principi fondativi del nostro ordinamento giuridico è che, in tutti i risvolti dell’esistenza, la legge punta a tutelare i soggetti deboli o, quanto meno, i soggetti più deboli (in termini relativi). In montagna, i soggetti deboli sono gli “inesperti”, cui si contrappongono gli “esperti”. Fra le due categorie si instaura, volenti o nolenti, un rapporto giuridico di affidamento: gli esperti sono chiamati a tutelare gli inesperti. Se va tutto bene, nessuno andrà mai a questionare le scelte degli esperti. Se qualcosa va storto, emergono i profili di responsabilità. Unica eccezione a questa impostazione di base è costituita dall’eventualità che l’inesperto abbia compiuto una esplicita imprudenza, che andrà però adeguatamente provata.
2) Chi sono gli “esperti”? La legge non prevede che i giudici debbano valutare elementi come allenamento, stato di forma, capacità sciistica o arrampicatoria, ecc. Non lo possono fare neppure i periti (anche se in genere sono guide alpine), perché in molti casi la valutazione andrebbe effettuata al momento dell’evento dannoso e non in altra sede. Per individuare gli esperti si procede prioritariamente per elementi oggettivi, che sono in genere di natura burocratica. Gli esperti sono innanzitutto i professionisti, cioè le guide alpine, e poi i volontari qualificati, fra cui gli istruttori e i capi-gita del CAI. All’interno delle rispettive categorie vi sono livelli gerarchici cui corrispondono differenti profili di responsabilità. Nel caso degli istruttori, l’elenco a scendere è: Istruttori Nazionali, Istruttori titolati (nel linguaggio quotidiano detti “regionali”), Istruttori sezionali, Aiuto-istruttori. A parità di titolo prevale l’anzianità di carica. La differenza fra guide e istruttori è che questi ultimi svolgono la loro opera obbligatoriamente in modo gratuito, mentre le guide percepiscono un compenso: questa contrapposizione si ribalta in un’importante differenza in termini di responsabilità civile (vedi punto 5). Una aggiunta: a mio parere (vedi punto 13 e seguenti), quando un individuo è inserito in un qualsiasi elenco istruttori, agli occhi dei giudici potrebbe risultare automaticamente “esperto” (quanto meno in termini relativi) anche in uscite private, ovviamente se gli altri presenti non sono guide/istruttori e/o non appartengono a categorie superiori alla sua.
3) La responsabilità giuridica si divide in penale e civile.
4) La responsabilità penale prevede l’azione giuridica d’ufficio e, con riferimento alla montagna, si incentra su tre reati basilari: a) omicidio colposo b) lesioni colpose c) omissione di soccorso. “Colposo” è un atto che produce conseguenze dannose, ma il cui compimento non consegue a premeditazione da parte dell’agente nel voler arrecare danno. L’atto è invece “doloso” se c’è volontà nell’agente di arrecare il danno (ovviamente in questa nota si scarta quest’ultima ipotesi). Se accade un evento di rilevanza penale, il pubblico ministero fa scattare d’ufficio l’inchiesta, poi valuterà se archiviarla o rinviare a giudizio (cioè mandare a processo) i soggetti coinvolti. Nell’inchiesta e nell’eventuale processo verranno analizzati i differenti profili di responsabilità, sia in termini sostanziali (chi ha agito e che cosa ha fatto o non ha fatto) sia in termini formali (un INSA è “più responsabile” di un ISA, etc). La responsabilità penale è individuale e non è scaricabile in alcun modo. Il fatto che gli istruttori svolgano il loro compito in modo gratuito non li solleva assolutamente dalla responsabilità penale.
5) La responsabilità civile comporta l’obbligo di ricostruire la situazione precedente al “danno” o, in alternativa, di pagare un risarcimento. Rispetto alla responsabilità penale, la civile è “scaricabile”, ovvero si può stipulare un contratto di assicurazione, cosicché la compagnia assicurativa si sostituisce al condannato nel pagare il risarcimento stabilito dal giudice. Il contratto di assicurazione è però condizionato dalle sue caratteristiche come massimali, franchigie, esclusioni etc., per cui non è detto che l’esistenza in assoluto di un’assicurazione R.C. copra totalmente l’importo del risarcimento stabilito dal giudice. Occorre quindi che ogni individuo conosca nel dettaglio le coperture assicurative R.C. di cui si avvale.
6) La responsabilità civile si divide in: contrattuale, extra-contrattuale, associativa.
7) La responsabilità contrattuale è quella che deriva da un inadempimento contrattuale. Essa, dunque, presuppone la stipula di un contratto, con assunzione dei relativi obblighi per ciascuna parte e, in montagna, lega guide e clienti. Infatti, le prime si assumono l’obbligo di assistenza ai clienti (“portarmi a casa sano e salvo”), cui corrisponde l’obbligo dei clienti di versare il compenso. L’elemento chiave, sul piano procedurale, della responsabilità contrattuale è l’inversione dell’onere della prova: tocca alla guida dimostrare di aver fatto tutto con assoluta diligenza per evitare il fatto dannoso che, nonostante ciò, si è comunque verificato. Se la guida non riesce a dimostrare la sua totale “diligenza”, è considerata colpevole.
8) La responsabilità extra-contrattuale è disciplinata dagli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile. In prima battuta costituisce il caso più frequente riscontrabile in montagna, in particolare con riferimento agli istruttori durante le uscite di una scuola o ai capi-gita durante le gite sociali. Nell’ambito della responsabilità extra-contrattuale, la colpa generica deriva dalla famosa triade: “imprudenza/imperizia/negligenza”. Nel termine “negligenza” può rientrare in modo residuale qualsiasi “dimenticanza”, per cui, una volta che l’evento dannoso è avvenuto, è molto arduo escludere una qualche forma di responsabilità civile a carico degli esperti (a meno di esplicita imprudenza del danneggiato). Però, la caratteristica della responsabilità extra-contrattuale è che l’onere della prova è a carico del danneggiato, il quale deve soprattutto dimostrare che esiste uno “stringente nesso causale” fra l’agire colposo dell’esperto (es: istruttore) e il danno riportato. Se il danneggiato non riesce a fornire una prova esauriente (compreso il nesso causale), la sua richiesta viene respinta. Quindi, in prima battuta, la configurazione della responsabilità extra-contrattuale è più cautelativa, per gli istruttori, rispetto a quella contrattuale a carico delle guide. In realtà, su questo tema occorre aprire una parentesi che verrà trattata al punto 14 e seguenti.
9) In via informativa, si dà un cenno sulla responsabilità “associativa”: si tratta di un istituto elaborato ad opera della giurisprudenza (ossia non ci sono specifici articoli di legge che lo prevedano, ma pronunce dei giudici). In questo caso, la responsabilità dell’individuo che ha commesso il fatto colposo si estrinseca verso l’intera collettività o verso un consesso sociale (per esempio il CAI). In parole semplici: la collettività e/o il CAI “affidano” a guide e istruttori la tutela degli inesperti, per cui chi arreca danni agli inesperti viola la fiducia riposta in lui dalla collettività e/o dall’Istituzione (il CAI).
10) Si segnala, inoltre, l’esistenza della responsabilità civile di natura amministrativa a carico degli organizzatori (Direttore/Direzione) per dimenticanze o inadempienze burocratiche: è evidente che, se viene addirittura dimenticato di richiedere il nulla osta a inizio stagione, tutte le uscite della scuola saranno giuridicamente viziate alla fonte.
11) In caso di evento giuridicamente rilevante, la procedura giudiziaria varia a seconda dell’esistenza o meno di rilievi penali. Se essi sussistono, procede d’ufficio il pubblico ministero, con possibilità che si giunga ad un processo penale, nell’ambito del quale il danneggiato potrà costituirsi parte civile. Se, invece, non esistono rilievi penali, la causa è esclusivamente civile e si innesca solo su azione del danneggiato.
12) Tutto questo scenario è disciplinato dalle leggi generali del diritto italiano, ovvero Codice Penale e Codice Civile (e relativi Codici di Procedura), il cui varo risale agli anni ’30 e ’40 del ‘900. Questa precisazione è necessaria per far capire che NON ci sono recenti novità legislative in merito: quindi il quadro normativo generale era lo stesso anche nei decenni ’50-’60-’70-‘80-‘90…
13) Tuttavia negli ultimi 15-20 anni sono intervenute novità giurisprudenziali (vedi punto 14) e, soprattutto, una novità che io definisco di natura “sociologica”. Quest’ultima si configura sinteticamente in tale modo: in tutta la società è stata importata (soprattutto dal 2000 in avanti) dal modo di vivere americano la propensione a “fare causa”, per cui oggi non è irrealistico che un allievo chieda il risarcimento danni, mentre decenni fa manco ci passava per la testa che potesse accadere. Questo fattore, di per sé limitato ai soli contenziosi civili, rientra in un orientamento generale della società contemporanea, nella quale si è creata una notevole pressione mediatica e sociale, che inevitabilmente sta coinvolgendo anche i risvolti penali. Viviamo in un clima di caccia alle streghe nei confronti dei responsabili di qualsiasi evento dannoso. Frasi come “La sicurezza è un diritto irrinunciabile e va garantito da Istituzioni e privati” oppure “Chi sbaglia, paga” sono sintomi del sentiment generale di tutta la società odierna. Di conseguenza, tale pressione sociale sta progressivamente coinvolgendo anche le inchieste che riguardano incidenti verificatisi durante un’attività “di svago” come l’andare in montagna.
14) Invece, la principale novità in termini di orientamento giurisprudenziale è che alcune sentenze, emanate negli ultimi 10 anni circa, hanno applicato l’articolo 2050 del C.C. In pratica, i giudici hanno considerato l’alpinismo (inteso in qualità di andare in montagna, quindi in tutte le relative discipline) come “attività pericolosa”, il che lo fa rientrare nel campo di applicazione dell’art. 2050 c.. La differenza rispetto alla generale responsabilità extra-contrattuale (2043 C.C.) è che l’art. 2050 C.C. comporta l’inversione dell’onere della prova. Di conseguenza, anche gli istruttori si trovano oggi in una posizione giuridica analoga a quella delle guide: è sufficiente che l’allievo danneggiato provi, oltre all’esistenza del danno, che era regolarmente iscritto all’uscita della scuola. Tocca all’istruttore dimostrare che ha fatto tutto il possibile per evitare il danno con la massima diligenza. Se non riesce a dimostrare ciò, l’istruttore è considerato responsabile e il giudice gli commina il risarcimento. Poiché è molto più arduo dimostrare di aver fatto tutto con assoluta diligenza (rispetto all’ipotesi in cui sia l’allievo danneggiato a dover dimostrare che il nostro agire gli ha comportato il danno, oltretutto con uno “stringente nesso causale”), ciò tutela maggiormente il danneggiato, ma appesantisce la situazione giuridica a carico dell’istruttore. A mio modesto parere l’applicazione dell’art 2050 C.C. (alpinismo=attività pericolosa) è un chiaro esempio della mentalità dominante figlia della società “sicuritaria” (vedi punto 13): tale elemento, infatti, non deriva da novità legislative o da eventi oggettivi, ma risponde a scelte giurisprudenziali che, fino a una decina di anni fa, non venivano prese in considerazione.
15) Sia chiaro che tale novità è costituita da un orientamento giurisprudenziale e non da “nuove” norme di legge. Pertanto, le future sentenze potrebbero anche NON allinearsi all’orientamento descritto. Tuttavia, l’esperienza generale insegna che, in tema di diritto, quando si consolida un orientamento giurisprudenziale (nel caso specifico addirittura con sentenze di Cassazione), non è così semplice e repentino che i futuri giudici escano dal “seminato”.
16) L’orientamento giurisprudenziale che considera l’alpinismo attività pericolosa (con applicazione dell’art. 2050 c.c.) in prima battuta è limitato alla responsabilità civile. Tuttavia, l’equiparazione istruttori-guide che ne deriva difficilmente non condizionerà anche la sfera delle valutazioni penali, a maggior ragione in un contesto caratterizzato dalla pressione sociale descritta al punto 13. Infatti, fin tanto che vigeva (lato civile) una netta differenza fra responsabilità contrattuale delle guide e responsabilità extra contrattuale dei volontari, tale differenza tendeva a riproporsi, seppur in modo impalpabile, anche nelle valutazioni penali. Oggi, che i giudici civilistici hanno di fatto equiparato guide e istruttori, è bene mettere in conto prudenzialmente che tale equiparazione tenderà a concretizzarsi sempre di più nelle future inchieste penali.
17) Finora abbiamo parlato di responsabilità dell’istruttore durante lo svolgimento del suo compito nell’ambito di uscite ufficiali di una scuola (o dei capi-gita durante le gite sociali). Ma il recente orientamento giurisprudenziale, di cui al punto 14 (applicazione dell’art 2050 c.c.), potrebbe prospetticamente condizionare le valutazioni giuridiche anche delle uscite private. Infatti, stride l’eventuale constatazione che la stessa gita possa venir considerata “attività pericolosa” (con applicazione dell’art. 2050 c.c.) se affrontata nell’ambito di un’uscita ufficiale del CAI e, viceversa, non lo sia se affrontata da una combriccola di amici. Appare fondata l’ipotesi che i giudici tenderanno a estendere l’art. 2050 C.C. a tutte le tipologie di uscite in montagna, il che richiede, anche in combriccole di amici, l’identificazione (quanto meno a posteriori) di “esperti” e “non esperti”, con implicito affidamento dei secondi ai primi. Gli individui che appartengono all’ organico istruttori di una scuola (o a Commissioni Gite Sociali) rischiano quindi di trovarsi, senza averne coscienza, nella posizione di esperti, con i relativi profili di responsabilità, anche in scampagnate fra amici. Nel dubbio, è bene prudenzialmente metterlo in conto, poi ognuno decida singolarmente se accettare o meno tale “rischio”. Il fatto che l’assicurazione R.C. per istruttori titolati già da tempo si estende in automatico anche all’attività privata depone in tal senso (gli istruttori sezionali e i capi-gita possono estenderla con il pagamento di un premio annuo di poche decine di euro). Una impostazione di tale natura potrebbe “portarsi dietro” il coinvolgimento di tutti i risvolti giuridici, compresi quelli penali. Paradossalmente, le gite private potrebbero rivelarsi, giuridicamente parlando, più “subdole” delle uscite ufficiali, perché nelle prime i ruoli non sono per nulla evidenti e perché il fantomatico “affidamento” (dei non esperti a carico degli esperti) è implicito e non richiede la presa di coscienza da parte dei soggetti coinvolti.
18) Se davvero si dovesse affermare uno scenario del genere, arriveremo al paradosso che la principale preoccupazione di tutti gli alpinisti verterà sulla scelta dei “giusti” compagni di gita, prima ancora che sull’individuazione del corretto itinerario o sulla consultazione dei bollettini meteo.
Fin qui ho cercato di tracciare un quadro oggettivo della situazione. Non significa che io lo condivida ideologicamente, anzi. Dal mio strettissimo punto di vista, specie per le uscite private, sarei propenso ad un’impostazione di tipo anglosassone, dove ognuno è fondamentalmente responsabile dei rischi che si assume e, se non è capace a focalizzarli a priori, è implicitamente responsabile di questa sua incapacità. Ma il nostro ordinamento giuridico è quello sopra descritto e non possiamo fare spallucce solo perché non ci piace.
A questo punto la domanda conclusiva da porsi è: stante questo quadro d’insieme, che cosa può fare il CAI? Molto diffusa è l’errata credenza che il CAI possa assumere delle posizioni “politiche”, o addirittura “giuridiche”, a difesa di propri soci/istruttori coinvolti in eventuali incidenti. Spesso si sente dire che è “ingiusto” che possano venir messi sotto accusa gli istruttori (o i capi-gita) che svolgono il loro compito in un contesto di volontariato, sottraendo tempo ed energie ad altri loro interessi e impegni, in particolare famigliari. Questa affermazione è condivisibile sul piano del buon senso, ma è totalmente priva di fondamento giuridico.
La Legge 2 gennaio 1989, n. 6 (Ordinamento della professione di guida alpina) definisce anche l’area di attività del CAI. In parole semplici, il CAI conserva la facoltà di organizzare scuole e corsi non professionali, nonché gite sociali, utilizzando istruttori e capi-gita, che non possono assolutamente essere retribuiti. Ne deriva, perciò, che il CAI deve formare e aggiornare i propri istruttori/capi-gita e, propedeuticamente, elaborare e aggiornare le nozioni tecniche che confluiranno nei manuali editi a cura del CAI stesso. Questo punto è giuridicamente molto delicato perché i manuali vengono spesso considerati con sufficienza dagli alpinisti, a volte anche dagli stessi istruttori (con il sottoscritto in prima linea), in quanto impongono la necessità di tenersi costantemente aggiornati sui diversi risvolti tecnici. Molto spesso la nuova versione delle nozioni è considerata “solo” una evanescente rincorsa al sempre più perfetto, ma come si faceva prima andava benissimo… Tuttavia i manuali costituiscono indubbiamente un riferimento oggettivo in caso di inchiesta giudiziaria e occorre quindi conoscerli a fondo e soprattutto recepire i loro (continui e a volte pedanti) aggiornamenti. Per un motivo molto semplice: in caso di evento giuridicamente rilevante, ci si potrebbe trovare nella posizione di dover spiegare al giudice come mai non si sono applicate le disposizioni contenute nell’ultimissimo manuale del CAI.
Quali altri obiettivi strategici può porsi il CAI su un tema così delicato?
Fermo restando che, se matura un incidente, si applicano indiscutibilmente le norme giuridiche generali, a mio parere il CAI dovrebbe preoccuparsi di diffondere una “cultura” imperniata su concetti di solidarietà e di condivisione degli eventi, in un contesto di matura presa di coscienza, da parte dei singoli, delle proprie responsabilità individuali.
Infatti chi, come me, ha una visione “romantica” dell’andare in montagna (e considera tale attività non un semplice sport, ma una scelta di vita) resta disorientato, se non addirittura ferito sul piano morale, a ipotizzare che un frequentatore dei monti possa citare in giudizio un amico/istruttore. Andare in montagna dovrebbe invece rappresentare un contesto di controcultura rispetto all’attuale andazzo della società consumistica, edonistica e “sicuritaria”.
Come già affermato da altri contributori, il CAI (oltre a diffondere, attraverso i manuali, le più aggiornate norme di sicurezza) dovrebbe insegnare a tutti i suoi associati, specie se allievi di scuole o frequentatori di gite sociali, che andare in montagna comprende valori più profondi, come preferire la fatica alle comodità, la lentezza alla frenesia, la consapevolezza alla superficialità.
In tale funzione educativa gli allievi/soci dovrebbero essere accompagnati in un percorso di crescita (intellettual-ideologica prima ancora che tecnico-atletica) fino a raggiungere la piena autonomia nella responsabilità individuale, anteponendola al “diritto” di potersi affidare a qualcun altro, “solo” perché su quest’ultimo pende il rischio di una possibile inchiesta giudiziaria.
Poiché il CAI non è altro che la somma dei suoi associati, tocca quindi ai soci più “esperti” (e, quindi, più “anziani” e più “saggi”) il gravoso compito di educare i nuovi adepti a questa mentalità, che è indubbiamente controcorrente rispetto al trend sociologico oggi dominante.
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@giacomo raffa
Ottimo contributo, grazie mille!
L’argomento è ampio, difficile da ridurre ai commenti su un blog, però capisco l’interesse. Mi scuso quindi se la mia risposta non sarà ritenuta esaustiva.
Anzitutto, sarebbe da delimitare il campo di interesse: un conto è parlare di un procedimento penale, altra cosa di un processo civile. Banalmente, ma per capirsi, anche il nesso di causalità viene interpretato in maniera diversa: più stringente nel penale, in maniera un po’ più ampia nel civile.
Siccome si parlava di affidamento, restiamo nel campo della responsabilità civile. La valutazione discrezionale del giudice riguarda anzitutto il libero apprezzamento delle prove che non siano documentali (ivi comprese quelle “atipiche” come chat di whatsapp, ecc…). Nel senso che potrà soppesarle diversamente, salvo comunque l’obbligo di motivazione logica nel proprio dispositivo (sentenza, per farla facile).
Siccome il giudice non è richiesto di conoscere ogni campo dello scibile, ma solo l’intero diritto (jura novit curia…poracci…però in materie molto tecniche gli è consentito avvalersi di specialisti), con ogni probabilità incaricherà un perito per l’analisi tecnica dei fatti. La valutazione giuridica resta ovviamente in capo al giudice.
Tu mi chiedi, giustamente, se i ragionamenti che ho esposto prima sono chiari a tutti. No, per essere “consolidati”, avrebbero bisogno di numerosi precedenti giuridici, o ampia diffusione in dottrina. Al momento, soprattutto i primi, scarseggiano. Il famoso caso dell’incidente in ferrata (a seguito del mondo quale è stato introdotto il modulo sul “consenso informato”), qualche incidente in palestra e poco altro. Quando uscirà la sentenza di Pila saranno -probabilmente- dolori.
Il mondo del diritto comunque spesso è così, mettiamoci l’animo in pace. Norme generali e astratte (quando sono scritte bene) che vanno calate nel concreto e nel momento storico (interpretate), da giudici che non sono nemmeno vincolati al precedente giurisprudenziale (nonostante la funzione nomofilattica della cassazione, ormai i giudici ti dicono che con migliaia di sentenze l’anno ci si trova tutto e il contrario di tutto, e hanno anche ragione!). Capisci bene che non è sempre facile “prevedere” l’esito di un giudizio…
A ogni modo, ribadisco il fatto che l’affidamento non sia un automatismo. Tuttavia, avere un titolo potrebbe “pesare” nella valutazione del giudice su un consenso tacito all’affidamento, praticamente una deduzione per “fatti concludenti”.
Aggiungo: attenersi ai manuali e alle indicazioni del costruttore facilita la vita (presunzione di correttezza del proprio operato), ma allontanarsene non è presunzione di imperizia, rende “solo” più difficile dimostrare di aver fatto le cose per bene.
@Giacomo Raffa
Grazie del chiarimento. Anch’io intuisco che una delle problematiche piu’ delicate risieda nel come viene definito l’affidamento. Il passaggio estratto che hai aggiunto effettivamente suggerisce una sostanziale differenza.
Ma il punto nodale, che Crovella forse aveva trattato in modo sbrigativo, e’ che alla fine in quest’area il giudice risulti investito di ampia discrezionalita’, e che quindi il parere dei suoi consulenti “faccia la differenza”… Sono sufficienti, chiare, e ben condivise le regole intuitive che hai suggerito?
@Giacomo Govi
Ammesso e non concesso che io debba fare le pulci a un articolo per poterne esprimere un giudizio (io non lo ritengo), ho solo detto di non essere riuscito a finirlo per le numerose imprecisioni, già elencate nel commento precedente al mio.
Però, per curiosità e completezza, ho finito di leggere dopo cena, e confermo il fatto che ci sono diverse imprecisioni. Siccome ci sono commenti in materia scritti da avvocati e alpinisti, invito a far riferimento a quelli.
Mi ha colpito in particolare l’enunciazione categorica secondo la quale l’affidamento funzionerebbe come una sorta di “automatismo”, cosa che non è (riporto in calce il passaggio).
Peraltro, faccio notare come ciò sia anche spiegato nei manuali del CAI (es. Montagna da vivere, che riprende il precedente “la responsabilità dell’accampamento in montagna”, sempre scritto da Torti).
Ribadisco con un esempio: se Tizio viene da me, istruttore titolato Cai, e mi dice che gli manca un compagno per fare la sua decima ripetizione del Campanile di Val Montanaia, pensi davvero che il mio titolo valga da solo a far di me l’esperto della cordata? È evidente che in questo caso si tratta di cordata alla pari, che affronta ognuno con le proprie responsabilità la via scelta. Anche se io sulla carta ho un titolo.
Ora superiamo l’esempio banale con quello più insidioso: Tizio, ex allievo, viene da me dopo il corso e mi chiede di fare una via insieme.
Non c’è ancora affidamento!
L’affidamento scatterà quando (e se) mi chiederà di fare qualcosa che senza di me non si sentirebbe pronto di affrontare, e se io a quel punto accetterò.
A me sembra di scrivere cosa ben diversa da questa: “ perché il fantomatico “affidamento” (dei non esperti a carico degli esperti) è implicito e non richiede la presa di coscienza da parte dei soggetti coinvolti”
@Giacomo Raffa
Un po’ ingiusto bocciare l’articolo senz’appello senza riportarne le motivazioni. Se davvero ci sono tante imprecisioni, miglior servizio sarebbe se venissero elencate, anche e soprattutto in forma pedante. Mi rendo conto che possa costituire un compito differente dalla classica ‘botta e via’ degli interventi nei blog, ma se non se ne ha voglia e/o tempo forse sarebbe piu’ opportuno astenersi da giudizi.
Tra l’altro agli occhi del profano di questa materia ( quale e’ del resto il lettore generico di questo blog ), l’estratto riportato dall’articolo e le affermazioni di Raffa appaiono in sostanziale sintonia.
Leggo solo ora questo articolo, ma per i motivi sintetizzati dal commento precedente non sono riuscito ad arrivare in fondo…
Tra le tante imprecisioni, mi permetto di aggiugnere questa in calce. L’affidamento non è affatto automatico, anzi! Non basta che ci sia un divario di conoscenze tra i due soggetti (esperto/inesperto), ma occorre che il secondo si affidi al primo (e che questi accetti!) per quella parte che supera le proprie competenze. E scusate se è poco.
E’ “ovvio” nel rapporto guida-cliente perché c’è un contratto il cui fondamento è proprio questo. Potrebbe invece non esserci nel caso di guida che vada in montagna con un amico (meno esperto, magari già cliente in altre occasioni) ad affrontare una salita per la quale entrambi sono pronti.
Nelle uscite private l’affidamento (che può essere tacito, ma non “impalpabile”) si avrà quando era palese che Tizio senza Caio non si sarebbe azzardato di affrontare la nord del Cervino, e Caio consapevole ce l’ha portato lo stesso facendosi carico di colmare il divario tra preparazione di Caio e preparazione necessaria per la nord del Cervino.
se non si conosce una materia, sarebbe assai più utile evitare di inanellare una fila di scemenze infinte.
così non si fa informazione, si fa semplicemente confusione.
Non si parla di diritto se non si ha una specifica formazione professionale, e si è orecchiato qualcosa “per ricerca personale”, così come non si parla di chirurgia cardiovascolare se non si opera in quel settore e si è letto – senza avere i mezzi per comprenderlo – qualche articolo qua e la.
un paio di esempi a caso: esperto, nel giudizio penale, può ben essere ritenuto il componente della cordata o del gruppo, privo di alcun titolo, ma con maggior esperienza.
il giudizio penale non parte d’ufficio, vi sono reati perseguibili a querela e reati perseguibili d’ufficio e non tutti quelli che hai indicato, fra i colposi, lo sono.
la responsabilità penale civile e associativa, poi, è una chicca.
ennesimo esempio di qualunquismo saccente e dannoso, complimenti.
sia all’autore che alla redazione.
la responsabilità
concordo.
Però è vero anche che un manuale è un’inizio da cui partire per poi sviluppare un’esperienza.
Nella fattispecie segnalata, direi anche io che prevalgono le istruzioni del costruttore, ma si tratta di una situazione limite. Nel senso che i manuali del CAI abbracciano una moltitudine di risvolti, la maggior parte dei quali non prevede, come contraltare prevalente, alcuna istruzione del costruttore di uno specifico attrezzo. Pertanto le “istruzioni” dei manuali del Cai vanno considerate (ahimè, aggiungo io) come il prontuario principe di riferimento.
Ahimè dico io perché (penso si sia capito) ritengo che i manuali sono costituiti da un insieme spezzettato di nozioni (il nodino, come legarsi, procedure varie etc) e non mettono in primo piano l’esperienza generale e il senso della montagna.
Io mi affiderei alle istruzioni del costruttore e credo che in sede legale siano quelle a fare fede.
Riporto quanto scritto “Per un motivo molto semplice: in caso di evento giuridicamente rilevante, ci si potrebbe trovare nella posizione di dover spiegare al giudice come mai non si sono applicate le disposizioni contenute nell’ultimissimo manuale del CAI.”
Durante l’ultimo aggiornamento per Accompagnatori di Escursionismo sono stati illustrate le modalità di collegamento set da ferrata (nuova generazione) con l’imbraco secondo le ultime direttive della scuola centrale escursionismo e del centro studi materiali e tecniche. Se si confrontano le modalità con quanto riportato con le istruzioni del set si noterà come queste differiscono le une dalle altre.
A chi vi affidereste alle modalità illustrate dal CAI nei suoi ultimi manuali o alle istruzioni del costruttore, io un’idea ce l’avrei ma mi piacerebbe avviare un discorso su questo problema.
Grazie, Gianluca.
Per ragioni di correttezza, vista appunto la delicatezza dell’argomento, informo che nel mio commento (n. 32) ho scritto un’inesattezza.
In realtà il PM non archivia, può inoltrare richiesta di archiviazione al GIP (Giudice per le indagini preliminari) ed è quest’ultimo che delibera sull’archiviazione.
Il GIP potrebbe però non archiviare (tralascio i dettagli e la procedura), dispondendo l’imputazione coatta ed imponendo al PM di formulare un’imputazione.
Quest’ultimo caso si è visto, giusto per rimanere in ambiente montano, a seguito dell’uccisione dell’orsa Daniza, quando il GIP respinse la richiesta di archiviazione richiesta dalla Procura di Trento.
Daniele Piccinini (commento n. 34) sposta l’attenzione su un altro risvolto dell’intricato problema.
Mi permetto di intervenire ancora per cercare di fare chiarezza anche su questo punto.
Il tema NON è la differenza di regime giuridico fra escursionismo e altre discipline (alpinismo, scialpinismo, etc), perché per tutte le attività che si svolgono il montagna, si applicano indiscutibilmente le norme e i principi segnalati.
Il tema che solleva Daniele è la differenza burocratica fra soggetti titolati e soggetti qualificati, è una differenza che si ribalta però anche in termini giuridici. questa differenza emerge in ogni disciplina praticata in montagna.
Abbiamo detto che scatta in automatico il principio dell’affidamento, in base al quale i soggetto esperti sono responsabile degli inesperti. I soggetti esperti NON sono individuati in base alle loro capacità tecniche (curriculum, performance atletiche o tecniche), ma in base a criteri burocratici.
I cosiddetti esperti (individuabili in modo burocratico) compongono l’insieme dei soggetti qualificati (rispetto agli inesperti che NON sono qualificati).
Nel grande insieme dei soggetti qualificati troviamo i soggetti titolati e, per differenza, i non titolati.
I titolati hanno preso la patacca avendo superato un esame (dove, oltre ad una generale capacità di sapersi muovere in montagna con diligenza e maturità, sono stati esplicitamente valutati sulle disposizioni contenute nei manuali del CAI). I titolati (nei diversi settori: alpinismo, scialpinismo, arrampicata, alpinismo….) si dividono in Regionali e Nazionali (in pratica: primo e secondo livello). I titolati sono i “veri” istruttori, da un punto di vista burocratico e quindi giuridico. Sono al vertice della piramide dei “responsabili”.
Nel grande calderone dei soggetti qualificati, ma fra i non titolati, vi sono i soggetti di nomina “sezionale”: gli istruttori sezionali, gli aiuto-istruttori e poi tutti coloro che fanno parte delle Commissioni gite sociali, in particolare se assumono (stagionalmente o per singole uscite) il ruolo di Capo Gite. Per i non titolati, in particolare per quelli che operano nel risvolto delle Gite Sociali, vale quanto sottolineato da Daniele: vi è, a monte, un coinvolgimento di responsabilità del Presidente e del Consiglio Direttivo della Sezione.
Su questa specifica angolazione, più ambiguo appare lo status degli istruttori sezionali e aiuto istruttori (che però sono in ogni caso compresi fra i soggetti qualificati), poiché essi vengono nominati dall’assemblea istruttori delle rispettive scuole di appartenenza (vi è quindi un coinvolgimento di responsabilità degli altri istruttori nella nomina di questi soggetti). Per tali tipologia di istruttori (sezionale e aiuto) direi che il coinvolgimento del Presidente e del Consiglio della Sezione, se avviene, avviene in un livello ancora più marginale (quello più prossimo è quello dell’assemblea istruttori), mentre per i capi-gita è molto diretto.
Tutto ciò NON è scritto esplicitamente, ma lo si può desumere (come è purtroppo prassi nel nostro diritto, a tutti i livelli e su ogni risvolto dell’esistenza).
La controprova? L’assicurazione R.C. (responsabilità civile) è sostenuta dal CAI per i titolati e si estende in automatico sia alle uscite ufficiali che alla loro attività privata.
Viceversa l’assicurazione R.C. per soggetti qualificati ma non titolati è pagata dal CAI, ma si applica esclusivamente alle uscite ufficiali (quindi uscite delle scuole per istruttori sezionali e aiuto-istruttori, oppure gite sociali per i componenti delle Commissioni, in particolare se capi gita). Questi soggetti, cioè i qualificati ma non titolati, possono estendere la copertura R.C. anche alla loro attività privata rivolgendosi alla sezione CAI di appartenenza e pagando un premio annuo di qualche decina di euro.
La sopracitata distinzione vale nel campo civilistico, in quello penale non vale per il semplice fatto che la responsabilità penale è individuale.
In caso di compresenza di soggetti qualificati con gradi “diversi” si innesta una gerarchia. Dall’alto in basso: istruttore nazionale, istruttore regionale, istruttore sezionale, aiuto-istruttore. I capi gita (di gite sociali) agiscono in un altro ambito, quello appunto delle gite sociali. Pertanto nell’ambito delle uscite di una scuola, un capo gita (che non sia nell’elenco istruttori di quella scuola) non conta nulla (ma non ha neppure responsabilità).
Nell’ambito di una gita sociale ufficiale della sezione CAI, il capo gita è senza dubbio responsabile, ma se alla gita sociale partecipa un istruttore nazionale posso dire senza remore….che si levi dalla testa di non essere coinvolto (in caso di incidente), il che avviene anche se tale istruttore NON è compreso nella commissione gite sociali. Se poi è presente una guida alpina, anche in uscita “privata” e per amicizia…non ne parliamo.
La gerarchia sopra indicata si applica anche nelle uscite private, laddove io sostengo che, in caso di incidente, i magistrati andranno a individuare i soggetti responsabili, ovvero i soggetti qualificati, fra cui si innesta la segnalata gerarchia fra titolati e non titolati.
Resto a disposizione per ulteriori chiarimenti. Il tema è molto delicato (per i motivi che ho indicato nell’articolo) e chi va in montagna con una certa regolarità, realizzando sia uscite private che uscite ufficiali (di scuole o gite sociali) dovrebbe prudenzialmente essere molto informato sui risvolti giuridici.
Ottima esposizione, chiara, efficace ed esaustiva, ho visto che negli interventi che si sono succeduti la maggior parte si rivolgono agli Istruttori di Alpinismo (INA, IA ed ISA) e poco viene citato l’escursionismo che pur comprende la maggior parte degli infortuni visto l’elevato numero di praticanti, sia come Soci CAI che non. Ho notato che di questa attività, dal punto di vista organizzativo all’interno del CAI su questo blog c’è scarsa conoscenza ed è normale visto che si parla prevalentemente di alpinismo. Vorrei quindi fare un po di chiarezza. Le figure formate dal CAI per questa attività sono due: gli ANE (acompagnatori nazionale di escursionismo II° livello) e gli AE (Accompagnatori di escursionismo I° livello.) Sia i primi che i secondi sono iscritti ad un Albo Nazionale con obbligo di aggiornamenti annuali oltre all’accompagnamento di gruppi nell’ambito dei programmi Sezionali e della Direzione e collaborazione dei corsi di escursionismo base ed avanzati all’interno delle Sezioni di appartenenza e/o intersezionali. Quelli che Carlo chiama capo-gita, operano in gran parte delle Sezioni, ma su mandato del Presidente e del consiglio Direttivo delle stesse, quindi non hanno la “patacca” ma solo una riconosciuta esperienza, pertanto in caso di incidente in un’escursione inserita nel programma Sezionale anche il Presidente ed il Consiglio direttivo sono chiamati a rispondere per un presunto incauto affidamento di un gruppo di soci e non, a persone non Titolate. Gli ANE e gli AE annullano le responsabilità delle Sezioni essendo Titolati CAI ed in sostanza tolgono le castagne dal fuoco ai Presedenti.
Quando ho letto che oggi i Giudici tendono ad applicare l’art. 2050 del CC anzichè il 2043 in caso di incidente mi sono fortemente preoccupato perchè in escursionismo le casistiche di incidenti sono le più disparate (dal ramo nell’occhio, alla scivolata sul prato fino al morso della vipera.) Avere l’onere della prova a discapito sarebbe veramente problematico. Bella e romantica l’idea di inculcare una cultura di responsabilità nei partecipanti alle attività, bisogna comunque provarci, forse riesci a conquistare Miss Universo.
Mi pare interessante e avere un quadro generale del problema, sarei interessato invece a sapere cosa dice la legge sui sentieri o meglio sulla responsabilità di chi traccia o segna un semtiero a volte anche già segnato,grazie
I problemi sono molteplici e non bisogna confondere le cose.
Laddove ci siano le condizioni per esercitare l’azione penale i PM non possono tirarsi indietro, l’unica cosa che possono fare al termine delle indagini, semprechè lo ritengano, è procedere con l’archiviazione.
Nel nostro ordinamento giuridico, non essendoci come in altri stati la divisione delle carriere (se ne parla da anni), si tende a confondere i PM con i giudici che emettono i verdetti finali.
Ad ogni tipo di reato corrisponde la possibilità di fare determinate indagini ed è per questo motivo che a volte si sente dire che viene aperto un fascicolo per omicidio volontario che, al termine, viene derubricato in omicidio preterintenzionale o colposo. Ciò serve affinché si possano effettuare tutti i possibili accertamenti del caso.
Purtroppo, e qui sta’ in parte il nocciolo della questione, le norme di legge non tengono conto dei sentimenti e delle emozioni umane e quindi sentirsi accusati di omicidio o lesioni, ancorché colpose, quando si ritiene di aver fatto tutto ciò che si doveva fare, costituisce già di per sè un trauma (e un costo per farsi difendere dall’avvocato), a prescindere da come andranno poi a finire le cose.
Con le migliori intenzioni di fare sempre bene e meglio qualsiasi organizzazione (sanitaria, sportiva, ecc.) si è munita e continua a munirsi di protocolli che disciplinano l’esercizio della sua attività, a cui si aggiungono protocolli a volte imposti dallo Stato e da altri enti.
Anche questi protocolli costituiscono un’arma a doppio taglio perchè, se da un lato consentono, in teoria, di uniformizzare i comportamenti, dall’altro non tengono conto di una sfilza di variabili.
Un giudice, oppure un PM nel corso delle indagini, che non possono ovviamente sapere tutto di tutto, si attaccano alle cose evidenti e probabilmente al loro posto faremmo così anche noi.
Poi, come in tutte le cose, ci sono i magistrati più in gamba e quelli meno, quelli più empatici e quelli meno, quelli che hanno voglia di sbattersi e quelli meno, non è che l’essere magistrato possa essere di per sè una garanzia così come non è una garanzia l’essere medico, commercialista, avvocato o guida alpina.
Per quanto concerne invece l’azione penale che si instaura su iniziativa di una delle parti il discorso è diverso.
In questo caso non si attiva nessuno se non c’è una parte che decide di sporgere denuncia e su quest’aspetto si può sicuramente lavorare onde evitare che un allievo denunci l’istruttore per quello che ritiene essere stato un danno subito.
Concludendo, anche se ci sarebbe da parlare a lungo, nonostante la figura del volontario venga enfatizzata, anche perchè in molti casi lo Stato se ne approfitta risparmiando sui costi, viviamo sempre più in una società dove c’è sempre meno spazio per la generosità e gli slanci di cuore.
Il volontario si trova ormai nella situazione di avere enormi responsabilità senza nessuno sconto e allora tanto vale rimettere tutto nelle mani di professionisti, la qual cosa, senza nascondere un certo cinismo che non mi si addice, a certa gente starebbe pure bene, così da capire che non ci sono pasti gratis.
Vuoi praticare un’attività rischiosa senza volerti impastare nell’apprendimento? Bene, paghi! Se no t’attacchi.
concordo con te, lo sostengo fin dall’articolo (vedi punto 13).
Fwermo restando che se il soccorso alpino va a recuperare un cadavere deve avvertire il PM che non può non aprire un’inchiesta….poi magari la archivia subito, oppure rinvia a giudizio e nel processo, come ho detto, si apre una nuova partita, tutta da giocare…
Per restare sul concreto senza citare esempi di processi ancora aperti che potrebbe essere ingiusto.Per l’incidente al povero Tito ( quello dei gommini dei rinvii) l’istruttore FASI è stato condannato a due anni. Ma mi chiedo: chi di noi durante i corsi ha mai controllato i gommini dei rinvii degli allievi? L’incidente avrebbe potuto accadere a chiunque di noi. Non ha sbagliato Tito, l’istruttore secondo me nemmeno. Perchè allora accanirsi contro di lui e chiamare in giudizio altri che non c’entravano? (vedi gli articoli su pareti?). Credimi Carlo la causa proviene dal nostro mondo.
Carlo dobbiamo dircelo. Non è colpa dei Guidici. La causa stà in chi dice al PM che colpa c’è. Quindi alla fine siamo noi stessi che ci facciamo male.
@Dino:
Sono due problemi diversi, che però s possono combinare.
Il rischio maggiore è il penale (perché la responsabilità è individuale), ma quello in linea teorica c’è sempre, quindi anche nelle uscite private (se si rientra fra gli “esperti”). Nel penale il magistrato (PM) agisce d’ufficio quando ci sono le condizioni “penali”, ovvero omicidio colposo o lesioni colpose. In tali casi almeno l’inchiesta del PM viene aperta, al termine dell’inchiesta il magistrato deciderà se archiviare o rinviare a giudizio (cioè a processo). Nel processo si riapre la partita e molto dipende (oltre che dalle perizie) anche dall’abilità dell’avvocato…
Per quanto riguarda il tema degli allievi, è vero che una percentuale di “trasportati” c’è sempre stata, ma negli ultimi 15 anni circa io ho registrato un’impressionante crescita numerica di tale sottoinsieme. Mi riferisco alla generalità delle scuole, in particolare di scialpinismo (ma non solo). Non mi riferisco ad una scuola in particolare.
Questa propensione a “fare il corso ” (come ha descritto bene Dino) si combina, però, con il contesto attuale della società sicuritaria, per cui questi allievi “trasportati”, oltre che essere aumentati di numero, sono “esigenti” sul tema. Visto che pagano “esigono” la massima sicurezza da parte della struttura e degli istruttori. A me personalmente questo atteggiamento non va giù e quindi io ho scelto di interrompere la mia esperienza da istruttore.
I due problemi si intrecciano laddove gli allievi “trasportati” anziché essere mentalmente interessati a diventare autonomi, saranno sempre dei trasportati e quindi mi è capitato di assistere a scene in cui, anche in gite private, si aspettava di essere accudita e coccolata…
Attenzione a non generalizzare. Tra l’altro il rischio maggiore per gli istruttori è il penale non il civile che viene coperto dall’assicurazione.
Io credo poi che quel tipo di allievi ( che io definisco con la sindrome da Club vacanze ) fa il corso non tanto per fare ogni anno le gite accompagnati, quanto perchè oggi si usa così. Quest’anno faccio il corso di ballo, il prossimo quello di cucito etc etc. per conoscere gente nuova, trovare il moroso etc etc
Una percentuale di questi allievi c’è sempre stata. Molti di questi allievi si rivolgono poi alle Guide (grazie al cielo) per settimane di sci alpinismo qui o in giro per il mondo.
No il rischio maggiore è quello penale! Gli allievi c’entrano ma non sono il problema. Secondo voi come fa un Giudice ( che magari di montagna non è competente) a capire se si tratta di incidente o fatto colposo e quindi da avviare l’azione penale?
Non è che gli allievi lo “dicano” esplicitamente, ma hanno atteggiamenti che lo presuppongono.
Probabilmente è un fenomeno accentuato nelle scuole di scialpinismo, dove da 15 anni circa è sensibilmente aumentata la percentuale di chi si iscrive e fa esclusivamente le gite con la scuola (zero gite private). E poi magari dopo 4-5 stagioni mollano completamente e passano ad altri sport.
E’ palese che questi (falsi) allievi si iscrivono alle scuole non per imparare ad essere autonomi nelle loro gite private, ma perché ricercano il servizio di far gite in sicurezza, “affidandosi” ai cosiddetti esperti.
Ho impiegato circa 10 anni a capire questo, ora che l’ho focalizzato ho detto basta. Trattasi di scelta individuale, non è cosa da imporre a tutti.
Io queo che gli garantisco è il mio impegno a cercare di trasmettere le mie conoscenze.
Questo lo garntisco.
Per quanto riguarda la sicurezza, cerco di fare il meglio possibile, di usare la massima prudenza e buon senso . Ma non garantisco garantisco la sicurezza assoluta perchè non posso. E glielo dico!
Ringrazio tutti gli amici che hanno contribuito con le loro idee. Il dibattito si è svolto in modo maturo e costruttivo, penso con grande “profitto” culturale di tutti.
In conclusione sottolineo quanto sia importante, oggi, parlare a fondo di questo tema giuridico agli allievi delle scuole (di alpinismo, di scialpinismo, di arrampicata, di kayak…), “educandoli” nel senso che abbiamo piu’ volte focalizzato.
Fermo restando che, se capita un evento con rilievi penali (omicidio colposo/lesioni colpose), il magistrato agisce d’ufficio, “educazione” o meno dei nostri allievi.
Io sono reduce da 40 anni di attività didattica e di responsabilità organizzativa (più volte direttore o vicedirettore in diverse scuole). Mi sono sempre stati chiari i rischi giuridici cui mi esponevo, ma l’ho sempre fatto per generosità d’animo verso gli allievi in un contesto cultural-socioligico dove decine e decine di allievi esprimevano estrema riconoscenza nei confronti degli istruttori. Ancora oggi mi capita spesso di incontrare in gita individui che mi “ringraziano” perché 20 o 30 anni fa li ho introdotti al magico mondo della montagna…
Da 10-15 anni, invece, fra gli allievi attuali si è progressivamente consolidata una mentalità addirittura opposta. L’atteggiamento dominante e’: tu istruttore sei l’esperto e quindi DEVI garantire la mia sicurezza.
Preciso a scanso di equivoci che si tratta di un fenomeno generalizzato e assolutamente non limitato alle sole scuole da me frequentate.
Ebbene, di fronte a questa rivoluzione copernicana degli allievi (da “riconoscenti” a “esigenti”) qualche mese io ho deciso di interrompere la mia attività come istruttore.
Temo che per gli istruttori storicamente di un certo tipo, il destino sia ormai segnato: o continuano consapevoli di rischiare potenzialmente il carcere ad ogni uscita o smetteranno tutti.
Per compensare l’amarezza di questa mia conclusione, vi invito a leggere il fantastico commento di Giorgio Daidola al racconto pubblicato su questo blog il 9/1…
Quanto manca, oggi come oggi, l’approccio romantico alla montagna!
Certo che diventa tutto abbastanza triste.
Nell’ambito della canoa/kayak ci sono gli stessi problemi, peraltro comuni a tutte le attività outdoor.
A me piacerebbe fare il corso per diventare tecnico di base, che è il primo passo per diventare istruttore, ma poi, proprio sulla scorta di quanto ci stiamo dicendo, mi domando quanto ne valga la pena e quindi penso che alla fine rimarrò un esperto signor nessuno.
Paolo oramai sei LIBERO di dire e fare quello che vuoi.
questo è vero! Del resto oggi, molta gente che esce dai corsi, poi tende a pretendere che chi gli ha fatto da istruttore continui a portali in giro. Io e tanti altri come me, dopo i primi insegnamenti, ci siamo messi in gioco da soli, anche nell’uscire fuori.
ma se hai la patacca è più facile scaricarti addosso ogni tipo di responsabilità. Anche le più banali.
Da qui la domanda : ma a ancora senso impegnarsi in queste attività di volontariato? Ne vale veramente la pena?
Belle notizie: dal primo gennaio non ho più nessuna patacca!
Potrò essere un irresponsabile e non essere inquisito !!!!!
Oppure dopo una certa età si diventa “esenti”?
Quale sarebbe l’età di esenzione?
Il problema non è il CAI o i manuali bensì il fatto che sono venuti meno certi valori per cui oggi si deve sempre trovare qualcuno che paghi.
Questa situazione si verifica in tutti i campi, forse che sul lavoro è diverso? E’ molto più facile ricevere delle sanzioni disciplinari oggi che non venti o trent’anni fa.
Se proprio poi si vuole che qualcuno paghi almeno che lo si faccia con modalità meno invasive e cioè senza passare dal Tribunale ma anche il cosiddetto patteggiamento, che dovrebbe limitare le cause, stenta a decollare nonostante sia stato introdotto da un po’ di anni.
D’altronde in un paese come il nostro dove ci si fa causa per questioni condominiali figuriamoci quando c’è di mezzo un danno alle persone.
Dino, ma dal momento che sei pataccato e anche un NON professionista, è molto facile scaricarti addosso ogni responsabilità di quanto può essere accaduto.
Inoltre il giudice applica il manuale. Ma il manuale nella realtà, sul terreno non sempre è applicabile alla lettera. E questo per onestà , agli allievi di un corso gli va detto.
Mi chiedo: ma perchè dopo tanti anni (1984) non mandiamo il CAI con tutte le sue scuole a farsi benederire?
A me pare che la “patacca” sia più un bersaglio ormai, che dice ai Giudici “ecco chi è il responsabile …… colpisci!” anche perchè alcune Guide vedono nelle scuole, a mio avviso sbagliando, la concorrenza.
Lo dico con molto dispiacere perchè, come ripeto, lavoro con le scuole da otre 40 anni e collaboro per la formazione aggiornamento e certificazione dei nuovi istruttori.
Un tempo su questo argomento gli dicevo” voi lavorate bene, con prudenza e non abbiate paura di nulla”. Adesso non saprei più cosa dire. Sono molto curioso di vedere come finisce la questione di Pila.
La mia sensazione è che anche i manuali, servano più ai Giudici e ai loro periti che a noi, perchè nella miriade di cose scritte e nelle più disparate situazioni in cui ci si trova in ambiente, qualsiasi inadempienza o difformità dal protocollo è utilizzabile contro. L’utilizzo “pro” è tutto da verificare.
In questo contesto, qualsiasi cosa scritta è, a mio avviso dannosa, molto dannosa. Considerato il grande e ottimo lavoro fatto dagli estensori dei manuali, il risultato è paradossale. Questo andazzo, secondo me , nuocerà tantissimo anche alla qualità e numero degli istruttori. Non so a chi possa giovare tutto questo, considerato che decine di Guide e grandi alpinisti hanno mosso i loro primi passi con le nostre Scuole che contribuiscono a diffondere la cultura dell’Alpinismo e ampliano la base dell’educazione Alpinistica. E’ assolutamente indispensabile, se il CAI tiene davvero alle Scuole, un intervento.
la patacca dell’istruttore è come una targa, una patente. Ma è anche vero che il giudice propenderà per la patacca perchè, a meno che non faccia alpinismo, non ci capisce nulla.
@Carlo
Non vi è alcun dubbio sul fatto che si possa agire solo a livello culturale anche perchè un conto, come hai giustamente rilevato, sono le norme e un conto la loro applicazione (giurisprudenza) e l’applicazione delle norme risente anche del clima culturale che si respira.
Nel caso poi di azioni legali che si attivano su querela di parte è chiaro che se viene a mancare la querela viene a mancare tutto e solo agendo a livello culturale si possono evitare delle denunce prive di fondatezza.
Forse non mi sono espresso correttamente in termini giuridici ma credo di aver reso l’idea.
Scusate se prendo ancora la parola, non voglio risultare un pedante sapientino , ma (per mio interesse) ho dedicato molto tempo ad approfondire questo argomento. Pertanto metto in comune le conclusioni cui sono giunto, spero di fate un servizio ai lettori.
L’affidamento (degli inesperti sugli esperti) non va provato perché si instaura automaticamente fra soggetti deboli e, all’opposto, quelli esperti. Tale constatazione è fuori discussione sia nel rapporto guida-cliente sia fra istruttori e allievi nelle uscite ufficiali. Nelle uscite private l’affidamento è più impalpabile, ma a mio parere in caso di incidente il Giudice lo vedra’ eccome…
Per quanto riguarda il commento 11 (chi responsabile fra un soggetto forte ma non qualificato e un istruttore pataccato ma meno forte) io temo che il Giudice riterrà sempre l’istruttore come maggior responsabile. Questo perché un curriculum alpinistico appare come aria fritta agli occhi del giudice (infatti una cosa è realizzare una salita, un’altra cosa è realizzarla applicando la “diligenza” richiesta). Viceversa la patacca dell’istruttore gli viene consegnata dopo aver superato un esame (applicando le disposizioni contenute nei manuale del CAI) e se lui si mantiene aggiornato. Quindi nel confronto fra criteri oggettivi (patacca dell’istruttore) contro informazioni non rilevanti (curriculum) il giudice propende per i primi.
Per quanto riguarda la seconda parte del commento n. 6 (cosa potrebbe/dovrebbe fate il CAI), anche se in termini di buon senso concordo con quanto detto, ricordo che l’attività del CAI è normata dalla legge n.6/89. Il che signifca che ogni effettiva modifica presuppone delle nuove norme con valore di legge. Non basta una riunione, un’assemblea o un dibattito interni al CAI.
Nulla osta a ipotizzare una nuova legge che riguardi il CAI. Tuttavia in un sistema generale un cui il Parlamento arriva all’ultimo giorno utile per approvare la Legge Finanziaria (che coinvolge 60 milioni di cittadini), voi vi aspettate che il Parlamento abbia tempo per licenziare una legge che al più riguarderà, nella migliore delle ipotesi, 1 milione di persone?
Ricordo che i soci CAI oscillano fra 350 e 400.000. Gli istruttori titolati sono qualche migliaio. Coinvolgendo anche non soci e altri a fatica si arriva a 1 ml di persone.
Inoltre ammesso che si arrivi a qualche innovazione legislativa occorre mettere in conto empi biblici per l’effettiva realuzzazione, cioè tempi tali che le innovazioni entreranno in vigore quando noi avremo appeso al chiodo da anni i nostri sci, scarponi e zaini…
Diverso è il discorso che avanzo io nell’articolo: fermo restando il quadro giuridico generale, occorrerebbe percorrere l’insegnamento educativo del binomio “autoresponsabilizzazione-solidarieta’ verso gli altri”.
@Giacomo Govi
Secondo me, anche se il mio parere lascia il tempo che trova, nella parte 1 l’individuazione di responsabilità è una forzatura anche nel caso in cui l’accompagnato non sia di alto profilo, salvo non emergano degli elementi incontrovertibili da cui emerga che la parte debole si sia affidata a quella forte.
Sempre secondo me non dovrebbe nemmeno valere la semplice testimonianza della parte debole perchè quest’ultima potrebbe avere tutto l’interesse a dichiarare il falso e quindi bisognerebbe effettuare un’indagine su tabulati telefonici, mail, messaggi, whatsapp, twitter, Facebook, ecc., oppure testimonianze di soggetti terzi da cui emerga che c’era un accordo fra le parti in base al quale l’istruttore s’impegnava ad accompagnare il debole.
Per quanto riguarda la parte 2 ritengo che la possibilità di errore dovrebbe essere contemplata, soprattutto in considerazione del fatto che si agisce in un ambiente dove spesso i tempi per prendere delle decisioni sono strettissimi e non è nemmeno detto che una soluzione sia migliore dell’altra.
Comunque aldilà degli aspetti meramente tecnici, anche perchè come vadano poi a finire certe cose lo sanno in pochi (il più delle volte i soli addetti ai lavori e le parti in causa), è tutto l’insieme che genera un forte disagio perchè anche nella migliore delle ipotesi si entra in un vortice di problemi.
Io credo che in uno Stato dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale dovrebbero anche esserci dei contrappesi, legali e culturali, in base ai quali chi viene indagato e magari poi processato e assolto dovrebbe essere risarcito adeguatamente sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista sociale, cosa che da noi non succede perchè una volta che finisci nel tritacarne per certi versi non ne vieni più fuori.
Un ringraziamento a Crovella, per me il suo migliore post su queste pagine.
Sull’aspetto che solleva Giandomenico. Il giudice ha il dovere di proteggere le parti deboli, semmai il problema sta nella loro identificazione. Per me i punti nodali sono 2:
1. l’identificazione delle parti deboli e di quelle potenzialmente cariche di responsabilità’, laddove non sia esplicitamente definito da un contratto ( tipo guida/cliente )
2. l’identificazione della responsabilità’ nel caso di incidenti con danni/morti
Nella parte 1 i consulenti possono orientare il giudice ? Mi pare ben poco, anche se il curriculum dei partecipanti potrebbe dare indicazioni importanti. Ha senso che un istruttore CAI sia indicato come responsabile in un incidente dove si accompagna ad una persona con un’eperienza di alto profilo, che accidentalmente non e’ ne istruttore ne guida?
La parte 2 e’ quella dove il consulente puo’ e deve dare la linea: per esempio, un errore di valutazione del ‘responsabile’ dovrebbe essere ammesso? Opinioni? Io credo di si, fino a che non deriva da imperizia o da comportamenti illeciti – insomma il consulente ha un ruolo primario, come e’ ovvio. Il che non impedisce di leggere sentenze con esito controverso…
Ciao, per quanto riguarda la prima parte del commento n. 7, è opportuno precisare che, in caso di incidente, una eventuale presa di posizione del CAI non avrebbe altro tenore se non quello di dare un messaggio “mediaticamente” forte e significativo, ma senza nessun effettivo aiuto giuridico (meno che mai processuale) per i soggetti coinvolti.
E’ amaro ma è così (purtroppo, aggiungo io).
Il problema non risiede solo in chi intenta una causa ma anche in chi gli dà ragione.
Fino a quando non si uscirà dalla logica che la parte debole (che poi sul debole ci sarebbe molto da dire) ha sempre ragione andremo sempre peggio.
La parte debole, se chiaramente in grado di intendere e di volere, deve assumersi delle responsabilità e non può delegare tutto a terzi soggetti.
La parte debole, che sia un cliente o un allievo, non può pretendere di svolgere un’attività adrenalinica in totale sicurezza perchè la totale sicurezza non esiste nemmeno quando si scende dal letto alla mattina.
Poi è ovvio che ogni caso è a sè stante e va valutato come tale ma secondo me il degrado sociale e culturale ha inciso anche sulla capacità di giudizio di chi questo degrado dovrebbe cercare di arginare.
Complimenti a Carlo per la chiara esposizione, che ha favorito anche un dibattito interessante, non urlato, come oggi di moda. Purtroppo è evidente e triste il degrado sociale e culturale che ha portato a questa situazione. Si vogliono praticare attività “adrenaliniche”, ma in piena sicurezza, lapalissiana contraddizione, senza assumere la propria responsabilità e neanche informarsi. Pianificare una gita, una salita, è, a mio modesto parere, una parte gratificante dell’attività stessa. Purtroppo oggi molti preferiscono essere trattati come pacchi postali, salvo poi speculare e cercare di guadagnare se qualcosa va storto o peggio succede la tragedia. Spero di poter ancora andare in montagna con gli amici, senza dover essere accompagnato da un avvocato, che potrebbe costare due volte, se si dovesse far male lui!
Carlo Crovella ha riassunto bene e con chiarezza tutto.Complimenti.
Però il CAI qualcosa per gli istruttori potrebbe farlo. Una cosa importante è appoggiarli quando capitano incidenti; esempio?
Quando è successo l’incidente alla Pigne d’Arolla, il Presidente Guide è intervenuto subito a favore della sua Guida, senza attendere perizie etc etc. in maniera netta e mediaticamente forte. Quando è successo l’incidente a Pila, la reazione del CAI non c’è stata o è stata invisibile.
Un’azione concreta che si potrebbe fare, è agire per consentire ai Giudici l’utilizzo come periti, non solo delle Guide ma anche gli istruttori almeno quelli più qualificati in modo da evitare possibili “conflitti” intercategoriali e dare a tutti maggior equilibrio e consapevolezza.
Si potrebbe poi unificare i manuali di Guide e Scuole ( sono tutti CAI!) per dare unico protocollo cui attenersi ed evitare che per gli uni e gli altri diverga la tecnica.
Il CAI potrebbe poi sfoltire gli adempimenti che le scuole, hanno e che portano solo a rischio di dimenticanze futili.
Spero che il CAI decida presto cosa vuol fare da grande, poiché tenere i suoi istruttori come “bersagli mobili” in caso di incidenti non è bello; è perciò indispensabile ripensare alla funzione delle scuole e alla collocazione dei suoi istruttori che a questo punto sono a tutti gli effetti Guide non pagate.
Il problema non è banale poiché ricordo che ogni anno le scuole portano in montagna per addestramento migliaia di inesperti.
In conclusione dovrò passare all’attività solitaria poiché avendo molte qualifiche e molti anni, in caso d’incidente …….
Stavo solo scherzando Marcello, ho dimenticato di mettere la 🙂
Giandomenico, mi hai frainteso. Io sono d’accordo con la linea romantica prima di tutto e concordo sul testadicazzismo di chi specula sulle disgrazie proprie e altrui.
Forse Marcello non sarà d’accordo ma per me uno che cita in giudizio un amico/istruttore solo per tirar su dei soldi è una gran testa di cazzo!
Se poi l’amico/istruttore, nella sua veste di istruttore, fa delle cavolate che comportano un incidente più o meno grave per l’amico/non istruttore, è un altro paio di maniche.
Chiaramente bisogna valutare caso per caso, non si può fare di tutta l’erba un fascio.
Giusto per fare un esempio che non c’entra nulla col rapporto amico/istruttore ma che la dice lunga su un certo tipo di mentalità, vi rendo edotti che parecchi anni fa, prima dell’accordo fra CAI, Regione, Proprietario, ecc., ci fu un deficiente che, dopo essersi fatto male nella falesia di Badolo, denunciò il proprietario del sito (perchè Badolo insiste su un terreno privato ancorchè ricompreso in un Parco regionale).
Prima dell’accordo la falesia di Badolo era stata attrezzata senza chiedere alcun permesso al proprietario, il quale ha subito per anni l’ingerenza altrui (dopo l’incidente provò ad impedirne l’accesso ma tanto, vista la conformazione del territorio che ti consente di accedere da diverse parti, avrebbe dovuto mobilitare un esercito in persone, cani da guardia, e chi più ne ha più ne metta).
A uno come il deficiente di cui sopra bisognerebbe mettere tutta la giurisprudenza sulla responsabilità giuridica in montagna dove non batte mai il sole.
e che ci vadano da soli in montagna facendosi carico delle propri scelte. Nessuno glielo vieta.
Certamente mai nessun giudice terrà conto dell’aspetto “romantico” né lo faranno (a stragrande maggioranza) i periti, ovvero le guide.
Tuttavia a me piacerebbe che il CAI si sentisse impegnato a diffondere (oltre agli aggiornamenti delle misure di sicurezza, attraverso i manuali) anche lo spirito di “amicizia” e di “solidarietà”, spirito che a sua volta non può prescindere dall’assunzione (morale) della responsibilità individuale: anziché “affidarmi” a qualcuno solo perché costui ha la patacca, cerco di NON pesare su di lui e di sapere io in prima persona costa devo fare, in qualsiasi momento (dalla scelta dell’itinerario alle singole mosse sul terreno).
Invece mi pare che l’eccesso di minuziosità nella ricerca di aggiornare costantemente le misure di sicurezza (poi inserite nei famosi manuali) ottenga, purtroppo, l’effetto opposto. Ravviso in giro un atteggiamento del tipo: tu che hai la patacca DEVI conoscere le disposizioni del manuale del CAI e quindi mi DEVI controllare affinché io non commetta stupidaggini.
La cosa paradossale è che questo atteggiamento sta emergendo sempre di più anche in gite private. Io lo considero la negazione dello spirito “romantico” in montagna.
Ovviamente, a prescindere dalle considerazioni sopraesposte, se maturano eventi di rilevanza giuridica si applicano le leggi vigenti.
Carlo, hai perfettamente ragione in quanto affermi nelle ultime righe, ma se ci guardiamo attorno sappiamo che la nostra é una strada tutta in salita e pure molto ripida. L’aspetto romantico dovrebbe stare alla base di tutto, ma è forse la cosa più difficilmente dimostrabile in un eventuale sede giuridica.
Io sono perito del Tribunale di Belluno e di questo aspetto ne terrei conto, considerandolo tra le caratteristiche irrinunciabili dell’andare in montagna, ma non so se ogni perito lo farebbe e soprattutto ogni giudice.