Riccardo Bee
(dal mito alla memoria)
di Emanuele Confortin
(pubblicato su Le Alpi venete, autunno-inverno 2023-2024)
Una vita da film! È il caso di dirlo, quella di Riccardo Bee è stata un’esistenza straordinaria. Lo testimoniano le salite realizzate in cordata, in particolare con Franco Miotto, e le difficili ascensioni solitarie, ma anche il lascito di una persona capace di «seminare in ogni luogo in cui andava una scintilla di quello che era lui». La citazione è presa dall’intervista con cui Federica Bee descrive l’estro del padre che malgrado la morte prematura, avvenuta nel dicembre 1982 sulla Nord dell’Agnèr, ha impresso una traccia indelebile nella memoria dei bellunesi.
Quando è caduto, Riccardo aveva 35 anni appena e la magia che lo aveva accompagnato nella sua carriera alpinistica si è dissolta all’improvviso. Quel giorno si è reciso anche il legame che lo univa alla moglie Carla, a Federica e alla nascitura Valentina. Sono questi i passaggi più difficili da raccontare in un testo e lo sono stati nel documentario che a primavera 2023 ha esordito in quel del Trento Film Festival. L’ultima via di Riccardo Bee è il titolo di un lavoro cui chi scrive ha dedicato quasi due anni di inesauribile passione e il rispetto dovuto a persone e luoghi unici. È bene chiarire sin d’ora che l’opera non ha mai voluto celebrare la grandezza di uno scalatore scomparso durante la “lotta con l’Alpe”, ma si è proposta di cogliere il lascito di un marito, di un padre, di un amico costretto da una sorta di incantesimo a cercare un confronto sempre più profondo con se stesso, a costo di lasciare negli altri un vuoto incolmabile.
La ricerca documentale è iniziata nel tardo 2020, dopo aver ottenuto l’autorizzazione da Carla De Bernard, moglie di Riccardo, dalle figlie Federica e Valentina, e dai fratelli Adriano e Gianni Bee. In realtà, avevo ascoltato per la prima volta il nome Riccardo Bee a inizio millennio. Ero poco più che ventenne e dopo aver tagliato con il calcio – sport d’obbligo per un ragazzo nato in pianura, a Castelfranco Veneto, negli anni Settanta – ho trovato il tempo di dedicarmi alla montagna, la mia vera passione. Ecco che un concatenarsi di eventi mi ha condotto in Valle di San Lucano, a Col di Prà, con la raccomandazione di «volgere lo sguardo verso sud, così da scorgere l’enorme parete Nord dell’Agnèr». La folgorazione per la Valle dei Sogni è stata immediata. Ricordo di essere tornato più volte da solo a risalire la carrabile che solca il fondo dell’abisso. Poi le ore spese sdraiato sull’erba a rincorrere con gli occhi le nuvole che come un sipario svelavano la cima dello Spizzon, il “Sasso Appuntito”, l’antico nome dell’Agnèr.
All’epoca non scalavo ancora, avrei iniziato pochi mesi dopo. Nel frattempo mi nutrivo di libri, mandavo a memoria storie di alpinismo, di sogni infranti, di grandi aperture e di ritirate. Il campo da gioco erano le Dolomiti, le Agordine e le Bellunesi in particolare, dove Bee si alternava nella cordata del tempo a Francesco Jori, Armando Aste, Ettore Castiglioni, Bruno Detassis, Celso Gilberti, Oscar Soravito, Alfonso Vinci e ovviamente Renato Casarotto, Enzo Cozzolino, Ettore De Biasio, Ivo Ferrari e Lorenzo Massarotto. Erano e sono ancora loro i cavalieri della Valle dei Sogni, monumenti immateriali della creatività umana negli ambienti ostili – l’alpinismo, appunto – ispirazione e faro, spero, per tante generazioni a venire.
Passati alcuni mesi di bulimia storica, facendo rientro dall’ennesima sortita nella Valle, ho sostato per un bicchiere alla Liquoria Garibaldi, in piazza ad Agordo, in quella che (leggevo) costituiva una tappa fissa per i frequentatori delle pareti agordine. È stata la gestrice, la prima persona a parlarmi di Riccardo.
Una signora spiccia dall’espressione seria, che volto lo sguardo all’Agnèr, mormorò sottovoce: «Su quella cima è caduto Bee, da solo, in inverno, passava anche lui di qua. Era uno forte, restava anche una settimana lassù, con un giacchino, tuta da ginnastica e un po’ di formaggio». Prendeva così forma la mia versione del mito. Dopo due anni trascorsi al lavoro sul documentario, cercando nel profondo la figura di Riccardo Bee, talvolta ho avuto l’impressione di conoscerlo. Merito delle testimonianze sentite di quanti hanno prestato i loro ricordi al progetto. Procedendo in ordine sparso, non posso che iniziare da Stefano Gava, persona solare e posata, uno dei pochi testimoni diretti della celeberrima cordata Miotto-Bee, terzo di cordata durante l’apertura della mitica via dei Bellunesi sullo Spiz di Lagunaz, Pale di San Lucano, neanche a dirlo. Dalla voce di Gava sono emersi dettagli intimi del carattere di Riccardo, confermato poi dai fratelli Adriano e Gianni, e da altri amici che gli hanno voluto bene.
È il caso di Giorgio Tosato il cui ricordo delinea una persona estroversa e gioviale, forte di un carisma quasi palpabile percepito e seguito da tutti, in parete durante una scalata o nelle uscite in compagnia. «Riccardo era così, prendere o lasciare, non c’era spazio per i compromessi», ha commentato la moglie Carla De Bernard, vero cuore pulsante del lavoro, cui sarò sempre grato per la disponibilità. C’è poi l’intervento prezioso di Gianni Gianeselli, alpinista e referente del soccorso alpino nel 1982. Fu lui a intravedere dall’elicottero lo zaino rosso di Riccardo nella neve, ai piedi della Nord dell’Agnèr. Parete cercata da Riccardo già nell’inverno 1980, giungendo a un soffio dalla vetta per poi scendere sfinito a causa di un tratto ghiacciato insuperabile.
«Era un visionario più di quanto si possa credere, del resto affrontare l’Agnèr da nord in inverno, da solo… è difficile comprendere una psicologia del genere», spiega Ettore De Biasio, uno dei custodi della memoria storica della Valle di San Lucano. Durante il nostro incontro, De Biasio ha menzionato l’umanità di Riccardo prima ancora della sua grandezza alpinistica: «Ricordo l’incontro tra Bee e il Mass [Lorenzo Massarotto, NdR] poco dopo che quest’ultimo era stato soccorso sulla via Canna d’Organo in Marmolada. Lorenzo era dato per morto dai telegiornali, si era creato un caso. Riccardo era venuto a Malga Ciapèla per portare la sua solidarietà, era una presenza amica. Poi al bar si è messo a parlare con il Mass, si intendevano bene, a un certo punto Bee ha chiesto a Lorenzo se anche a lui capitasse di parlare da solo dopo qualche giorno in parete, in solitaria».
Se mi fosse chiesto di proporre una sintesi estrema della personalità di Bee, potrei azzardare due opposti: estroverso e misterioso. In quanto al primo dei due termini esiste una narrativa fitta di feste, scherzi e goliardate proprie dell’epoca in questione, sospesa tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Ottanta. Come non citare la pastasciutta cucinata – si fa per dire – sulla cima della Gusela del Vescovà e servita ai maturandi dell’ITI di Belluno, dove l’ingegner Riccardo Bee insegnava Tecnologia Meccanica e Scienze di Fabbricazione? Si racconta che a volte il professore alpinista arrivasse in classe direttamente dalla montagna, dopo un bivacco inatteso dovuto a un temporale o alla lentezza imposta dalle difficoltà trovate.
È accaduto nell’inverno 1980, all’indomani del terzo bivacco per la prima ripetizione invernale della via Dell’Oro, Giudici, Longoni sulla Sud-est della Torre Trieste. L’aneddoto è di Sandro Neri, all’epoca diciottenne, che dopo una difficile notte senza saccopiuma – «dissolto in una nuvola di piume per l’esplosione del fornello russo» – il giorno seguente ha visto Riccardo scendere di fretta per raggiungere gli studenti in classe. Assieme a Neri e a Riccardo sulla Trieste c’erano Nanni De Biasi e il fuoriclasse Gigi Dal Pozzo cui Bee guardava con attenzione, incuriosito dalle capacità arrampicatorie e dallo stile innovativo di chi all’epoca cercava la libera dove si era sempre passati in artificiale. Pur avendo una scalata leggera ed elegante, Riccardo non ha mai inseguito le “regole” del free-climbing, preferendo elevare al massimo il suo alpinismo, rifiutando gloria e proclami.
Nell’età matura delle sue scalate, infatti, quella delle solitarie, Riccardo ha cercato di far perdere le proprie tracce. Spariva per giorni tra le pareti, viveva esperienze incredibili, poi rientrava e tornava alla normalità, come se nulla fosse accaduto. Lasciava poco o nulla di scritto, ne parlava ancora meno, così si spiega il secondo degli opposti citati in precedenza, il mistero. Esistono ancora oggi itinerari attribuiti a Riccardo che nessuno ha mai ripetuto o che non si sa con esattezza dove salgano. Di certo si conoscono i caratteri peculiari di quelle vie, severe e temute, di quando in quando su roccia marcia, puntualmente su pareti opprimenti, veri e propri enigmi che a più di 40 anni dal tragico inverno ’82 continuano ad alimentare il mito di Riccardo Bee.
C’è stata poi l’eccezione alla regola, anche per un alpinista rigoroso come Bee. Nel luglio 1982 Riccardo ha accettato di essere ripreso dalla Super8 manovrata da Luigi Roccon (e da Francesco Sponga). Oggi due preziose pellicole ci permettono di osservare l’alpinista bellunese in azione. «Volevamo realizzare delle riprese di Riccardo in apertura, poi magari creare un film da presentare al Trento Film Festival», ha confidato Roccon durante una chiacchierata con Luca Vallata, guida alpina di Erto. Il documento video ritrae l’apertura di quello che in molti considerano il capolavoro di Riccardo Bee, il Pilastro Nord-ovest dell’Agnèr. Via severa e visionaria, aperta in due giorni con altrettanti bivacchi, in solitaria.
Sorprende il fatto che la mattina del primo giorno Riccardo e Luigi fossero a una gara di skiroll. Terminata la competizione, i due sono saliti con l’attrezzatura del caso da Frassenè al bivacco Biasin sullo Spallone dell’Agnèr. Millecinquecento metri di salita, ridiscesi subito da Riccardo che si è portato in Valle di San Lucano. Il mattino seguente è partito assieme a Francesco Sponga – solito aiutare Riccardo nel trasporto dei materiali – coprendo i 1600 metri di dislivello che immettono nel Van del Piz, l’orrida gola tra l’Agnèr e la Torre Armena. Qui Bee ha attaccato il Pilastro e dopo qualche tiro ha trascorso la prima notte.
L’indomani ha proseguito la scalata giungendo a un terrazzino sospeso a mezz’aria, divenuto il Bivacco Bee, visibile nelle toccanti immagini di Roccon. Un’altra notte e poi è giunta la parte alta del Pilastro, la più difficile, scalata in prima assoluta sfuggendo ai temporali e alle cascate che scendevano dai diedri sommitali. È questo l’unico documento video di Riccardo Bee alpinista, usato nel montaggio del documentario prodotto nel 2023. Dopo 40 anni, queste immagini un po’ sgranate sono finalmente giunte al festival di Trento, coronando il desiderio del cineoperatore. Il destino ha voluto che problemi di salute abbiano impedito a Luigi Roccon di vedere il lavoro ultimato. Ha lasciato i suoi cari pochi settimane dopo la première a Trento. Questo scritto è dedicato a lui.
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Non conoscevo Riccardo Bee, sono casualmente “incappato” nella visione su TeleBelluno del documentario, inizialmente perchè veniva nominato l’Agner, monte a cui sono legato sin da quando ero bambino; successivamente sono stato rapito dal racconto e dalla persona. Più volte commosso. Bee è stata una persona che ha lasciato un segno profondo su chi l’ha conosciuto, su chi l’ha amato, e su chi (come il sottoscritto) non lo conosceva. Alcune vite terminano prematuramente, ma lasciano un fertile ricordo, ricordo che seppur parzialmente ha sicuramente consolato moglie e figlie!!! Non sono un alpinista, non sono un camminatore ma amo le dolomiti e in particolar modo quelle agordine. Bee è motivo in più per amarle!!
e se fosse stato in cordata?
Quando morí, Riccardo Bee lasciò una giovane vedova, una piccola orfana e un’altra figlia in arrivo. Non era celibe. Non viveva in solitudine.
Stava scalando la parete nord dell’Agnèr, da solo, d’inverno.
Riflettiamoci.
Il richiamo delle sirene che con le clessidre lo invitavano negli sperduti monti del sole a far poesia l andar per crode doveva essere tanto assordante ed ipnotico come (per sentito dire da chi ti era amico)lo è stata la tua mancanza per le boteghe e le straduzze de Belun da chi ti venerava ed imparava.
“Riccardo Bee grande interprete di un alpinismo classico nei modi ma estremo nelle realizzazioni”
Bell’articolo, grande personaggio.
Riccardo Bee alpinista titanico, persona affascinante.
[…] lo si voglia o no, è nel mito che possiamo trovare il senso del nostro esistere e la risposta ai grandi perché della vita.” G.P. Motti