Ricordo di Gian Carlo Grassi

Ricordo di Gian Carlo Grassi
di Ugo Manera

Il primo aprile 1991, esattamente trenta anni fa, perdeva la vita Gian Carlo Grassi in un banale incidente al Monte Bove nei Monti Sibillini. Era nato a Condove (TO) il 14 ottobre 1946. Grassi è stato uno dei grandi scalatori della seconda metà del secolo scorso. E’ stato accademico del CAI e poi guida alpina. Ho scritto varie volte di lui ma mi sento ancora in dovere di ricordarlo in questo anniversario. Sono passati trenta anni ma il suo ricordo è sempre vivo nel mondo degli scalatori. Spero sia prossima la pubblicazione di un libro a lui dedicato dove dovrebbero comparire anche le testimonianze personali della sua intensa vita alpinistica.

Nel tentativo di raccogliere i numerosi articoli che ho pubblicato in passato su varie riviste, ho trovato il racconto di belle avventure con Gian Carlo nell’inverno 1968/69 pubblicato sull’annuario Liberi Cieli n. 4 del 1969 della sezione UGET di Torino. L’annuario era curato allora dal GAM (Gruppo Alta Montagna) che oggi non esiste più. In quel 1969 effettuai varie scalate con Grassi, tra le quali il Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul. Era ancora il suo periodo “Calimero” ed in alcune foto è evidente la scritta Calimero che egli portava sul suo casco bianco. Proprio in quella occasione ebbi modo di costatare l’irresistibile spinta che l’alpinismo esercitava su di lui. Quando ritornammo dal Pilier Gervasutti egli era letteralmente esausto, ma attingendo energie non so da dove, due giorni dopo ripartiva con Gianni Altavilla per salire lo sperone Cassin alla Punta Walker delle Grandes Jorasses.

Gian Carlo Grassi al Festival di Trento

Becco di Valsoera, prima invernale alla Torre Staccata, inverno 1968-1969
(pubblicato sull’annuario Liberi Cieli n. 4 del 1969)

L’evoluzione rapida di tutte le attività, che spinge l’uomo ad una vita febbrile senza tregue, non ha trascurato l’alpinismo. Trenta anni fa venivano vinte pareti di estrema difficoltà che poi attendevano per anni i primi ripetitori. L’dea poi di percorrere le grandi vie d’inverno era ancora remota salvo rare eccezioni.

Ora invece quando si scopre e si traccia qualche “diretta” importante c’è già quasi pronta la cordata dei ripetitori quando ancora i primi salitori non sono giunti in vetta e mentre i ripetitori sono impegnati c’è già che pensa e prepara la prima invernale.

Questa è stata la sorte di due tra le poche vie difficili salite in prima invernale nello sfavorevole inverno 1968-1969: la direttissima sulla Est del Gran Capucin e la diretta della Torre Staccata sul pilastro ovest del Becco di Valsoera. La prima, nel giro di poco più di un anno, è stata oggetto di vari tentativi, è stata vinta, ha visto la prima ripetizione ed è stata percorsa in inverno da Leo Cerruti e Alessandro Gogna. La seconda, tracciata nel luglio 1968, a fine settembre contava già due ripetizioni, il primo dicembre fu teatro di un tragico incidente durante un tentativo in solitaria e nel febbraio 1969 veniva salita in prima invernale da Gianni Altavilla, Gian Carlo Grassi, Ugo Manera e Alberto Re.

Grassi sul Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul. E’ visibile la scritta “Calimero” sul suo casco.

Il Pilastro occidentale del Becco di Valsoera è il più imponente appicco di tutto il Gran Paradiso, venne salito dalla cordata Cavalieri-Mellano-Perego nel 1960, questa ardita impresa fece epoca nell’ambiente alpinistico torinese. Altre possibilità offriva ancora l’imponente sperone, possibilità più volte da noi analizzate nelle vivaci discussioni del giovedì sera nella sede del CAI Torino in via Barbaroux 1. La più evidente era rappresentata da un percorso che raggiungesse direttamente la possente struttura appoggiata allo sperone principale: la Torre Staccata.

Nel luglio 1968 Gian Piero Motti, con la decisione che gli è abituale, attacca la parete lungo un percorso diretto che ha studiato precedentemente. Con lui ci sono Miclin Ghirardi, Gian Carlo Grassi e Guglielmo Rubinetto, promettente giovane appena uscito dai corsi della scuola Gervasutti. Con l’intuito che lo caratterizza Gian Piero traccia una via perfetta che, pur tra grandi difficoltà, mantiene intatti i principi classici: ossia nessun chiodo a pressione, ricerca della linea di minor difesa della parete e prevalenza dell’arrampicata libera su quella artificiale.

Grassi sul Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul

L’impresa viene commentata tra noi scalatori, e al termine di una di quelle discussioni Alberto Re, un po’ furtivamente, mi propone di tentare, nell’inverno che arriverà, la nuova via appena aperta. Preso alla sprovvista rispondo istintivamente di sì, pensando che in ogni caso nei mesi che ancora mancano avrò modo di riflettere più attentamente. Re è un grande entusiasta, giunto all’alpinismo delle difficoltà non più giovanissimo sembra smanioso di ricuperare il tempo perduto e ogni nuovo progetto lo infiamma.

Intanto la Diretta della Torre Staccata viene ripetuta da una cordata formata da Altavilla e Piero Fulgenzi e subito dopo ripercorsa nuovamente da Motti con Re e Antonio Balmamion. Un fatto triste si inserisce nella storia di questa via: uno dei protagonisti della prima ascensione: Guglielmo Rubinetto perde la vita in un incidente automobilistico nelle Dolomiti. Gian Piero propone di dedicare la via, che sta diventando classica, al giovane amico scomparso: sarà la Via di Guglielmo. A settembre effettuo la quarta salita della via con Paolo Rattazzini; ne sono entusiasta ma ne esco non molto convinto di tentarla in inverno. Alberto però ritorna alla carica, a lui si è unito Gian Carlo Grassi; ancora una volta dico di sì.

Alla fine dell’autunno la tragedia sulla Torre Staccata. Un alpinista di Settimo Torinese: Domenico Zanzone, venuto alla ribalta repentinamente con una serie di ardite solitarie, tenta da solo la Via di Guglielmo. Ripiega dopo i primi tiri di corda ma ritorna una seconda volta; per due giorni non si hanno sue notizie poi il suo corpo senza vita viene ritrovato alla base della parete, proprio sotto quello strapiombo che aveva fatto sorgere qualche preoccupazione in me nell’ipotesi di un tentativo invernale.

Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul: mentre Grassi sale sulla destra, il francese Serge Gousseault lo segue in solitaria.

L’inverno inizia con tempo brutto ed eccezionali nevicate. La tanta neve caduta si assesta però in fretta e già all’Epifania ci riesce una bella invernale alla via Raffi alla Punta Udine nel gruppo del Monviso. Siamo in quattro, i candidati all’invernale alla Torre Staccata: Altavilla, Grassi e Re sono i miei compagni. Le difficoltà maggiori le incontra Grassi, non in parete, ma nella salita e discesa dal rifugio Giacoletti. Causa l’enorme quantità di neve è gioco forza usare gli sci ed egli della pratica sciatoria è totalmente digiuno e per giunta dotato di materiale sciistico di fortuna. Già appena lasciato il Pian della Regina i suoi attacchi si rompono ed io, alla luce delle pile, debbo ricorrere alla mia pratica di meccanico per sistemarli al meglio in modo che possa proseguire. Giungerà al rifugio alle due di notte seguendo, tra altre varie disavventure, le nostre tracce.

Grassi impegnato sulla parte finale del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul

La bella salita alla Punta Udine ci sprona verso il progetto della Torre Staccata e ci incontriamo a casa di Alberto Re per pianificare la nostra azione. Nel mese di gennaio il tempo rimane pessimo con continue nevicate per cui io nutro molti dubbi sulla possibilità di effettuare un tentativo. Rimane positivo il fatto che al lago del Teleccio sono in corso lavori per una galleria che porta l’acqua dal vallone di Valsoera al vallone di Teleccio e la strada viene tenuta aperta anche nel caso di abbondanti nevicate.

Verso fine mese il tempo migliora decisamente e subito al giovedì Alberto mi telefona per effettuare un tentativo nel fine settimana. Declino l’invito perché ritengo che la tanta neve caduta non sia ancora sufficientemente assestata. L’amico non è convinto e decide di andare comunque a vedere con Gian Carlo.

I due coraggiosi compagni partono al sabato mattina, salgono al rifugio Pontese in compagnia di amici diretti ad altra meta ed il giorno seguente si spingono, con grande fatica per la tanta neve fresca, fino all’attacco della via. Preso atto delle condizioni di innevamento rinunciano e scendono, dopo aver depositato del materiale alla base della parete. Rientrati a Torino riprendiamo i contatti e decidiamo un nuovo tentativo per il successivo fine settimana. Saremo in quattro, si è aggiunto Altavilla, già nostro compagno alla Punta Udine.

Il Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul

Partiamo da Torino al sabato pomeriggio con il tempo bello ma nubi sulle montagne fanno temere che lì vi sia tormenta. La strada fino al lago di Teleccio è percorribile anche se con qualche tratto ghiacciato. Come temevamo in alto tira un vento fortissimo. Fa un gran freddo e sulla spianata a lato della diga fatichiamo a restare in piedi per le folate di vento. Qualcuno prospetta il ritorno ma ormai io sono deciso: andremo almeno fino al rifugio! Intanto è giunta la notte, calzo gli sci e prendo la testa della piccola comitiva illuminandomi la via con la pila. La strada che fiancheggia il lago è scomparsa sotto i residui di enormi valanghe che formano un ripido pendio di neve durissima. Leghiamo gli sci sullo zaino e calziamo i ramponi. Il tratto lungo il lago e riparato dal vento ma quando arriviamo all’inizio del Piano delle Muande siamo investiti da folate violentissime.

Il rifugio è però presto raggiunto e, finalmente al riparo, possiamo liberarci dai sacchi e dalle giacche incrostate di ghiaccio. Siamo ormai convinti che la bufera frusterà il nostro progetto per cui ci concediamo una cena abbondante senza economizzare le provviste.

Sono così rassegnato al peggio che, malgrado il frastuono provocato dal vento, dormo profondamente. Alle quattro del mattino mi sveglio, tutto è silenzioso, forse è proprio il silenzio improvviso che mi ha svegliato. Salto giù dalla cuccetta e mi precipito fuori: il cielo è meravigliosamente stellato, fa un gran freddo ma il vento non c’è più. Sveglio immediatamente i compagni: – Sveglia, si parte!

Epifania 1969. Ugo Manera sotto alla Punta Udine (Monviso)

E’ ritornato l’entusiasmo. Velocissima colazione poi, impazienti, Alberto ed io ci mettiamo in moto Grassi ed Altavilla ci seguiranno dopo circa un’ora.

Batto pista con andature sostenuta ed in breve siamo alla base del grande canalone che porta al Valsoera. C’è una enorme quantità di neve, sono scomparsi sotto la coltre tutti massi dispersi sul pendio. Il manto è però molto ben consolidato e si sale agevolmente. Mentre saliamo nella monotonia dei passi sempre uguali, ripasso mentalmente il percorso della via che ci attende e che ho salito solo pochi mesi prima. Riusciremo a raggiungere la sommità della Torre Staccata ove bivaccare? La fessura di uscita dallo strapiombo nero sarà intasata di ghiaccio? Tutte domande che non possono ancora avere risposte. Nel pensiero ritorna però sempre lo strapiombo nero: il punto da dove è caduto probabilmente il povero Zanzone.

Verso metà del canalone la neve diventa molto compatta. Lasciamo gli sci sotto l’unico enorme masso che la neve non ha sommerso e, calzati i ramponi, continuiamo la salita. In breve siamo sotto allo zoccolo, le rocce sono quasi scomparse, emergono dal ripido pendio solo rari isolotti incrostati di ghiaccio. Ci innalziamo lungo un canalino nevoso e troviamo due chiodi lasciati da Alberto e Gian Carlo nel tentativo di una settimana prima.

Alberto Re (a sinistra) e Ugo Manera dopo l’invernale al Diedro Raffi alla Punta Udine

Una macchia gialla su uno spuntone attira la nostra attenzione; la raggiungiamo, è un berretto di lana con macchie scure: e sicuramente di Zanzone e si trova esattamente al di sotto dello strapiombo nero. Raggiungiamo la base della parete e attraversiamo a sinistra verso l’attacco della nostra via; poco prima ricuperiamo il materiale lasciato appeso ad un chiodo da Alberto e Gian Carlo.

Il pilastrino appoggiato alla parete che segna l’inizio della via è scomparso, con esso anche il primo passaggio di V grado: un pendio di neve compatta inclinato a più di 50 gradi porta alle rocce verticali. Il freddo è intenso, Alberto inizia la prima lunghezza, sale pochi metri ma poi si ferma appeso ad un chiodo in preda ad una “bollita” alle mani che gli causa dolori acutissimi. Dopo qualche minuto di massaggi riparte e raggiunge il punto di sosta. Le difficoltà son tali che ci costringono ad arrampicare a mani nude.

Raggiungo Alberto e riparto in testa, un chiodo arrugginito attira la mia attenzione, porta stampigliate ben visibili le iniziali Z.D.: è una traccia di Domenico Zanzone. Lo ricuperiamo come ricordo dello sfortunato scalatore.

Ancora una lunghezza con un tratto in artificiale e siamo alla scomodissima sosta sotto lo strapiombo nero. Mi libero dal sacco e parto per superare il punto chiave della via. Attraverso a destra sull’orlo di uno strapiombo con le corde dietro di me che pendono nel vuoto staccate dalla parete. Non abbiamo ancora visto il sole e il freddo è intenso, le dita contratte su minuscoli appigli mi diventano insensibili, debbo fermarmi e le batto contro la roccia per riattivare un po’ di circolazione.

La parete ovest del Becco di Valsoera, con l’evidente “Torre Staccata”.

Mi porto lentamente fin sotto allo strapiombo, aggancio una staffa ad un chiodo e vi salgo sopra fino all’ultimo gradino per raggiugere il becco sporgente di roccia ove si può agganciare un’altra staffa. Tento due volte di posare un cordino attorno al becco ma invano, infagottato come sono dagli indumenti non riesco a distendermi bene. I piedi cominciano a tremare sui gradini della staffa, ridiscendo un po’ a riprendere fiato poi riparto e riesco ad agganciare il cordino, vi fisso velocemente la staffa e ci salgo sopra. In alto a destra vi sono due chiodi vicini, controllo con il martello la loro solidità ed aggancio al più alto la staffa. Sono completamente sospeso nel vuoto, salgo sulla staffa e mi incastro nella strozzatura sovrastante che fortunatamente è libera dal ghiaccio. Un diedro segue alla strozzatura, occorre uscire in libera afferrando in opposizione i bordi della fessura di fondo del diedro e, sollevandosi a forza di braccia, superare il bordo dello strapiombo. Ho le mani insensibili per il freddo e temo di non farcela, un volo al di sotto dello strapiombo potrebbe compromettere la riuscita del nostro tentativo. Cerco nella larga fessura un punto ove piantare un cuneo di legno ma un senso di pudore mi fa desistere dal tentativo, chiodando il passaggio mi sembra di commettere un’azione poco etica nei confronti degli amici che hanno aperto questa via. Sosto ancora un po’ per riscaldarmi le dita poi lascio la staffa e mi innalzo di scatto in spaccata; afferro un appiglio in alto e finalmente mi ritrovo sopra allo strapiombo. In piedi su un’esile cornice pianto due chiodi di sosta ai quali mi assicuro. Con notevole fatica ricupero i due zaini che trovo pesantissimi, soprattutto quello di Alberto che contiene anche una fotocamera Rolleiflex 6×6 dal peso superiore al chilogrammo.

Superata la fascia di strapiombi siamo usciti dall’ombra e i tiepidi raggi del sole alleviano un po’ la morsa del gelo. Alberto riparte in testa nel lungo diedro che ci sovrasta ma dopo pochi metri si ferma indeciso, forse anche a causa del pesante sacco che porta sulle spalle, la sua determinazione è momentaneamente appannata. Finalmente, dopo una complicata deviazione a destra, riesce a superare il diedro.

La parete ovest del Becco di Valsoera, con l’evidente “Torre Staccata”.

Il tempo è però trascorso veloce e per raggiungere la sommità della Torre Staccata, ove pensiamo di bivaccare, occorre salire con la massima rapidità. Spronato da questo pensiero raggiungo il mio compagno e di slancio supero la lunghezza che segue usando meno chiodi di quanti ne avevo impiegati in estate. Alberto attacca la placca sovrastante ma un vecchio chiodo poco sicuro lo fa desistere, ritorna alla sosta e mi invita a salire da primo. Per fortuna mi sento molto bene, l’entusiasmo per la scalata mi fa sentire in gran forma e convinto che sopra di noi non vi sono più difficoltà che ci possono fermare.

Di quelle lunghezze di corda, superate in una atmosfera di esaltazione, ho ricordi frammentari, mi sentivo molto bene e così sono passati i tratti più duri: una difficile variante, un diedro strapiombante, una traversata verso lo spigolo, l’artificiale lungo lo spigolo sferzati da un vento gelido ed il duro strapiombo alla fine dell’artificiale. Ricordo che mentre salivo in opposizione, con le mani congelate attaccate al bordo di una fessura, mi stavano partendo i piedi; ho tenuto comunque e l’episodio non mi ha scosso e sono ripartito verso l’alto più veloce di prima.

Intanto è arrivata la notte ed io sono ancora impegnato su una liscia placca, non vedo più gli appigli e debbo cercarli tastando con le mani la roccia; pianto un bel chiodo americano nuovo e continuo verso sinistra. Raggiungo una piccola cengia al di sopra della quale scorgo il camino che porta alla sommità della Torre Staccata. Urlo ad Alberto, che già sale, la bella notizia; sento che martella per togliere il mio chiodo ma poi un tintinnio giù per la parete mi dice che il prezioso chiodo gli è sfuggito di mano.

Becco di Valsoera, prima invernale alla Via di Guglielmo. Alberto Re in sosta.

Alberto mi raggiunge, supera il camino intasato di neve e raggiunge la sommità della Torre Staccata. Amara delusione! Dove speravamo di trovare un terrazzino abbastanza comodo vi è invece un pendio di neve durissima e ghiaccio: nessuna speranza di piazzare la micro tendina che ci siamo portata appresso. Estratte le pile dal sacco, piantiamo qualche chiodo per assicurarci e cominciamo a scavare con i martelli un gradino nel pendio per poter almeno sederci. Non abbiamo fretta: in quel luogo dovremo trascorrere almeno tredici ore e più è il tempo in cui rimaniamo attivi e meno saremo torturati dal freddo.

Gian Carlo e Gianni non hanno raggiunto la sommità della Torre Staccata e bivaccano un centinaio di metri sotto di noi; certamente in una posizione peggiore della nostra. A gran voce ci mettiamo in contatto e ci auguriamo a vicenda una “buona” notte.

Quando il gradino è pronto ci infiliamo nei sacchi da bivacco e ci copriamo con la tendina usata come sacco aggiunto. Ad aumentare la nostra sofferenza vi è il fatto che non potremo bere un goccio d’acqua né fredda né calda perché, prevedendo di bivaccare insieme ai nostri compagni, è successo che noi abbiamo le bombole del gas e loro il fornelletto.

Riesco ad addormentarmi e, pur con qualche interruzione, dormo per sei o sette ore. Poi da sveglio, in preda al freddo sempre più intenso, penso ed i miei pensieri sono tristi, rasentano la disperazione. Una tragedia terribile ha colpito la mia famiglia: mia sorella: giovane di 27 anni, è stata colpita da un cancro e sta morendo lentamente. Un dolore sordo, continuo, senza speranza mi perseguita da mesi in ogni momento. Ieri, nel fervore dell’azione, mentre ero impegnato con tutte le mie facoltà, si era allontanato dalla mia mente ma ora nell’attesa inerte ritorna più intenso che mai. Non riesco a rassegnarmi, vorrei poter vincere il male di mia sorella come si vince il più difficile degli strapiombi ma non si può, mia sorella muore lentamente ed i miei genitori sono distrutti dal dolore.

Gian Carlo Grassi

Questi pensieri mi fanno più male del freddo che con il passare delle ore si è fatto sempre più intenso; ma la notte, anche se interminabile, passa come ogni cosa e sorge l’alba. Il vento gelido acuisce ancora la sensazione di freddo; i piedi, appena infilati negli scarponi gelati, diventano insensibili ed allora è un gran picchiare contro ogni cosa per far loro riacquistare un po’ di sensibilità. Finalmente siamo pronti e parto per la prima lunghezza. Il sole si è levato ma noi siamo ancora in ombra; quando finisce la corda raggiungo un terrazzino al sole, ma è un sole ancora freddo che non ha il potere di riscaldarmi. Alberto mi raggiunge ma è molto preoccupato per le sue mani che sono diventate insensibili; lo aiuto a massaggiarle a lungo fino a che una dolorosa bollita testimonia la ripresa normale della circolazione sanguigna.

Nei giorni seguenti verremo a saper che quella mattina Gian Piero Motti, con il senso di altruismo che lo distingue, era salito fino alla diga ed aveva chiesto ai custodi se ci avevano notati. Questi avevano risposto con un’altra domanda: – Ma hanno passato la notte sul Valsoera?

Alla risposta affermativa dichiararono convinti: – Saranno sicuramente morti assiderati perché questa notte, qui alla diga, la temperatura è scesa a -20°. Gian Piero si era poi spinto fin oltre il rifugio ma non era riuscito ad individuarci in parete.

Alternandoci al comando raggiungiamo la cima del pilastro ovest e, senza fermarci, proseguiamo verso l’uscita della via Leonessa. Dove d’estate vi è una comoda cengia, troviamo un vertiginoso pendio di neve compressa e ghiaccio; praticando gradini con il martello attraverso il pendio e dopo 40 metri raggiungo la roccia dove mi assicuro ad un chiodo.

Un ultimo ostacolo ci separa dalla vetta: la placca finale della via Leonessa, forziamo l’andatura ansiosi di concludere la nostra salita. Alberto supera di slancio la placca e alle 15 sbuchiamo dalla parete ovest in vetta al Becco di Valsoera. Ci stringiamo la mano con un po’ di commozione, rivolgiamo un pensiero a Gianni e Gian Carlo che dovranno ancora scalare per un paio di ore e ci avviamo lungo la laboriosa discesa. Ci riuniremo al rifugio. Scendiamo dal rifugio di notte tribolando (soprattutto Gian Carlo) con gli sci. A Pont troviamo una trattoria ancora aperta e con una abbondante cena festeggiamo la bella salita compiuta. Poi sarà per me, autista, una dura lotta contro il sonno nel viaggio verso Torino mentre i miei tre compagni russano sui sedili dell’auto.

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Ricordo di Gian Carlo Grassi ultima modifica: 2021-04-01T05:21:00+02:00 da GognaBlog

15 pensieri su “Ricordo di Gian Carlo Grassi”

  1. 15
    Marcella says:

    Ho sempre considerato Grassi un mito… e mi sentivo onorata di poter frequentare questi grandi eroi dell’arrampicata! L’altro aspetto incredibile è la maestria di Ugo, di sciorinare con meticolosi dettagli le tecniche e la progressione sulla via con i propri sentimenti. Ecco, lì vedi gli uomini che compiono delle gesta alpinistiche epiche con tutta l’umanità della fatica muscolare, del gelo sui polpastrelli, nelle ossa e nel cervello . “Astronauti” dell’impossibile e dell’imprevedibile spazio di ghiaccio, neve e roccia.

  2. 14
    Giampiero says:

    Abito a pochi kilometri dal luogo dell’incidente fatale a Giancarlo Grassi, ogni volta che l’incidente viene ricordato lo si accompagna sempre all’aggettivo “banale”, qualcuno che saprebbe descrivere quello che è realmente successo esiste in questo blog ? O il banale è d’obbligo visto che si tratta di Appennini ?

  3. 13
    Stefano Pizzorno says:

    Giancarlo lo conobbi quando organizzai una serata al Cai di Voghera (Pv) era il 1985 dove lui ,conferenziere,parlò di cascate etc etc. . Nella cena con altri amici del club ebbi la fortuna di stare seduto accanto a lui . Furono due ore indimenticabili sembrava di parlare con il tuo amico più vecchio, sembrava di conoscersi da sempre e soprattutto l’umiltà,lui gigante dell’alpinismo,ed io giovane e normalissimo arrampicatore dell’epoca. Mi invitò a Sea e da lì a pochi mesi risposi a quell’invito e passai una delle più belle giornate in montagna della mia vita….forse la più bella!
     

  4. 12
    Luca says:

    Grassi è stato (ed è) la persona che ha ispirato il mio andare in montagna. Grazie per la testimonianza. Il sig. Manera è veramente eccezionale, sia con la penna che con il martello. Due estati fa ho percorso una sua via (non l’unica, ma l’ultima) , minore, sulla tête de colombe: desidero ringraziarlo, ricordo due tiri in particolare, bellissimi.

  5. 11
    CARLO BARBOLINI says:

    Ho avuto il piacere negli anni 80 di fare alcune salite con lui tra cascate, m bianco  e una il particolare sul seracco della nord del m disgrazia. Scesi dalla corda molla, forse la stessa volta di cui scrive panzeri?  Ciao a tutti

  6. 10
    Alberto Benassi says:

    Personalmente mi ha sempre colpito una caratteristica di Grassi, specie del Grassi già affermato e in piena azione. Dedicava alla montagna attiva anche 350 gg all’anno, passando, senza puzza sotto al naso, da una prima sulle Jorasses alle falesie di Caprie (bassa Val Susa), proprio dietro casa sua. Un giorno sui seracchi della Brenva e il giorno dopo sui coluloir fantasma di sperduti e misconosciuti valloni delle Valli di Lanzo. Un nostro Patrick Gabarrou, così me lo ricordo.

    Bravo Carlo, qui hai colto nel segno!!
    G.C. Grassi una persona piena di entusiasmo.
    Il 6 gennaio del 1985 in Apuane sul monte Fiocca salimmo un couloir-fantasma che chiamammo DOCCIA FREDDA. Molto  di quello che è legato alla storia di questa salita  fu ispirato da G.Carlo Grassi che un anno prima  era venuto a Pietrasanta a fare una serata e dal suo libro “100 Scalate su cascate di ghiaccio”. Anche il nome da dare alla via mi fu suggerito da una sua guida di arrampcate sui massi della Val di Susa.

  7. 9
    tore panzeri says:

    grande articolo per una grande persona
    quando ero ragazzo seguivo le sue salite a bocca aperta 
    averlo trovato sulle mie montagne un bel giorno ed aver condiviso parte della discesa è stato veramente eccezionale
    eravamo sulla nord del Monte Disgrazia in Valmalenco e siamo scesi dalla mitica Corda Molla
    grandi ricordi per una grande persona e un grandissimo alpinista
    grazie

  8. 8
    Carlo Crovella says:

    A giudizio di qualche osservatore, Grassi va considerato il più grande alpinista piemontese (torinese nello specifico) dai tempi di Gervasutti. Non so dire se sia fondata questa “supremazia” e la trovo antipatica perché lo si metterebbe prima di altri che meritano di passare in ogni caso alla storia, come Motti, Comino, Bertone, Mellano e lo stesso Manera. E chissà quanti altri ancora, l’elenco sarebbe lunghissimo. Fare una classifica assoluta mi pare sgradevole e insensato. Certo è che c’è “anche” Grassi in quell’olimpo piemontese. Personalmente mi ha sempre colpito una caratteristica di Grassi, specie del Grassi già affermato e in piena azione. Dedicava alla montagna attiva anche 350 gg all’anno, passando, senza puzza sotto al naso, da una prima sulle Jorasses alle falesie di Caprie (bassa Val Susa), proprio dietro casa sua. Un giorno sui seracchi della Brenva e il giorno dopo sui coluloir fantasma di sperduti e misconosciuti valloni delle Valli di Lanzo. Un nostro Patrick Gabarrou, così me lo ricordo.

  9. 7
    Massimo Taronna says:

    Segnalo che stasera il CAI UGET di Torino dedicherà una serata a Gian Carlo Grassi:
    appuntamento di stasera dalle ore 21 con la diretta streaming per ricordare il grande alpinista scomparso 30 anni fa Gian Carlo Grassi da seguire su
    facebook https://www.facebook.com/caiuget/videos/1829783130514074
    youtube https://youtu.be/5F6YjQ3WvBk
    per potersi iscrivere sul canale youtube CAI UGET  il link è https://www.youtube.com/channel/UC4F9Rt3b7vcBsoBBC7xJKsw

  10. 6
    Alessandro says:

    Grazie Ugo per la preziosa condivisione. Grandi emozioni e grande tecnica per una salita avventurosa in ambiente unico. Grazie!

  11. 5
    Luciano Peirano says:

    Grandi avventure! I bivacchi invernali nn si possono dimenticare! Grazie per la condivisione????

  12. 4
    Paolo Gallese says:

    Grazie Ugo Manera.
    Testimonianza preziosa, come molte già pubblicate. Ci ricordano sempre da dove veniamo un po’ tutti.

  13. 3
    marco conti says:

    Bellissimo Ugo, me l’ero perso!

  14. 2
    Alberto Benassi says:

    avvincente racconto, come sempre a dimostrazione dell’immensa passione.
    Grazie Ugo.

  15. 1
    Ivo says:

    Testimonianze importanti, doveroso per il presente ricordarlo Grazie 

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