L’articolo di Gianni Vattimo, pubblicato sul numero 10 del 1986 di Piemonte Parchi è un’emozionante riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura dei parchi naturali, scritta 37 anni fa ma ancora molto attuale.
Ricordo di un mondo perduto
di Gianni Vattimo
(ripubblicato su piemonteparchi.it il 22 febbraio 2023)
L’espressione «parco naturale» è, in un filosofo come Thedor W. Adorno (penso soprattutto alla sua Dialettica negativa, un’opera del 1975), carica di significati critici. Indica infatti il luogo di una illusoria preservazione della «natura», entro un mondo che l’ha peraltro assoggettata allo sfruttamento illimitato, alla violenza dell’inquinamento, dello sterminio delle specie, della repressione generalizzata di tutto ciò che è «naturale» anche dentro l’uomo. Una tale preservazione, secondo Adorno, è illusoria come tutte le soluzioni parziali, che funzionano solo se lasciano sussistere fuori di sé le condizioni negative che dovrebbero contribuire ad alleviare; così nella espressione di Hegel che vede l’arte come una «domenica della vita», il pensiero critico successivo, soprattutto di ispirazione marxista, ha visto lo stesso significato svalutativo: ammettere che l’arte è una domenica della vita significa accettare che gli altri giorni, la vita «ordinaria», siano caratterizzati invece dalla bruttezza, dalla disarmonia, dai conflitti e dall’insoddisfazione.
Secondo questo pensiero critico, bisogna rifiutare una tale divisione che lascia uno spazio limitato e puramente consolatorio alla bellezza, e (mediante la rivoluzione) conquistare una condizione che sia tutta esteticamente riscattata, dove non ci siano più giorni feriali…
Qualcosa del genere accade al pensiero critico nei confronti dei parchi naturali: certo, non si arriva a sostenere che i parchi debbano essere aboliti; ma per lunghi anni, nel passato recente, la difesa della natura non è stata assunta in prima persona dalla cultura e dai movimenti politici «progressisti», in fondo in nome della convinzione che solo entro una società radicalmente rivoluzionata, che ristabilisse condizioni più umane e autentiche e prima di tutto nei rapporti sociali, economici, di potere, sarebbe stato possibile risolvere in modo radicale, non parziale, provvisorio, puramente consolatorio, il problema del rapporto con la natura. Oggi, certo, le cose non stanno più così, ma talvolta la difesa dell’ambiente naturale è fatta principalmente in nome della lotta contro la speculazione e della salvaguardia di risorse economiche (acqua e aria, fonti di energia non rinnovabile, ecc.) – cioè in una prospettiva essenzialmente utilitaria, certo rispettabilissima ed essenziale, che però non ha sostituito un pensiero diverso a quello che, come ho detto, mi pare emblematicamente espresso dal modo in cui Adorno tratta il «parco naturale». La mancanza di un tale pensiero alternativo, se anche non inficia direttamente le battaglie ecologiche di base – divenute oggi drammaticamente di attualità: pensiamo ai problemi dell’acquedotto di Casale – si fa sentire in molti altri casi, là dove si tratta di scegliere una linea di condotta in riferimento a una certa visione generale, filosofica, del rapporto uomo-natura. Qui si affrontano sempre concezioni molto elementari e molto globali, false nel loro estremismo: l’una accetta l’irrimediabile destino umano di violare e opprimere la natura (solo così, sembra, si può risolvere il problema della sopravvivenza); l’altra immagina una finale «rinaturalizzazione» dell’uomo, il recupero rivoluzionario di una situazione ideale e conciliata, rispetto alla quale tutte le soluzioni parziali sarebbero solo ideologiche, consolatorie, in definitiva reazionarie.
Si può trovare una via alternativa a queste posizioni estreme e astratte se si ha il coraggio di assumere proprio l’esperienza del parco naturale come modello dell’autentico rapporto dell’uomo con la natura. Il parco non è, cioè, un ripiego, un luogo in cui solo in mancanza di meglio, come in un giardino zoologico (la cui idea non rientra in quella di parco naturale) si cerca di mantenere un ricordo e una parvenza di rapporto con la natura incontaminata, non manipolata. Invece: è solo nella forma del parco naturale che l’uomo può avere un rapporto autentico con la natura.
Divenire umano, infatti, significa uscire dalla naturalità immediata che comporta insieme una condizione di rischio e di incoscienza. Quando l’uomo diventa uomo, la natura per lui rimane solo un ricordo e una traccia, e solo in questa forma la società può farne esperienza. Illusorie e ideologiche sono tutte le pretese di instaurare o restaurare una condizione di naturalità nella quale la natura (quella che comunemente chiamiamo tale: i boschi e le montagne, gli animali selvaggi e i colori dei tramonti e dei mari) ci si dia in una condizione di spontaneità, non turbata dalla nostalgia per qualcosa di irrimediabilmente perduto, quella nostalgia che segna invece l’esperienza del parco naturale. Nostalgia e ricordo sono costitutivi essenziali di qualunque rapporto umano con la natura. Accade qui qualcosa di analogo a ciò che avviene per la fanciullezza: è costitutivo della vita adulta provare nostalgia per l’infanzia, ma ciò non significa che si debba mirare a una qualche restaurazione della condizione infantile. Così per la natura; e tutti del resto sappiamo bene che i montanari che abitano tutto l’anno i luoghi delle nostre vacanze li trovano duri e difficili, e se possono si trasferiscono in città; e gli abitanti delle terre esotiche in cui ogni tanto ci abbandoniamo alla vita «naturale» desiderano intensamente frigoriferi, televisori, automobili, grattacieli.
Riconoscere che solo come «parco naturale» la natura si offre a un’esperienza umana significa accettare che nei suoi confronti è possibile solo una strategia di conservazione, di attenzione devota, esattamente come nei confronti dell’eredità culturale: è vano cercare di restaurare e mantenere i centri storici esattamente com’erano, ma bisogna saperne preservare i valori come tracce e ricordi di cui non possiamo fare a meno; è vano idealizzare un modello di rapporto perfettamente conciliato con la natura, bisogna invece praticare nei suoi confronti la strategia della traccia e del ricordo.
Sapendo che è solo traccia e ricordo: luogo di meditazione, di silenzio, in cui per un momento – appunto come in una domenica della vita, e niente più – ritroviamo un nostro essere vero: non la nostra identità più profonda (giacchò forse anche l’identità è funzione della società dei ruoli, dei giorni feriali), ma la nostra naturalità «generica», di semplici esseri umani, di pure creature. In quel luogo non ci possiamo «stabilire», possiamo solo ritornarvi ogni tanto, scoprendoci cosi non del tutto assoggettati al mondo dei giorni feriali, alle leggi della concorrenza, al principio di prestazione e trovando in questo ricordo una (parziale) libertà.
Gianni Vattimo, nato nel 1936, ha compiuto gli studi di filosofia presso le università di Torino e di Heidelberg. Dal 1964 è professore di Estetica e dal 1983 di Filosofia teoretica nell’Ateneo torinese. Si è occupato di teorie estetiche (Poesia e ontologia, Mursia, 1967) e di filosofi tedeschi (Schleiermacher, Mursia, 1968; Introduzione a Heidegger, Laterza, 1971; Il soggetto e la maschera – Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, 1974). Gli scritti teorici sono raccolti nei volumi: Le avventure della differenza, Garzanti, 1980; Al di là del soggetto, Feltrinelli, 1981; La fine della modernità, Garzanti, 1985. Di questi ultimi sono state prodotte traduzioni in francese, inglese e spagnolo.
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Gli antifascisti che si appellano giustamemte ai valori francesi (liberté égalité fraternité) della costituzione italiana in vigore dal primo gennaio 1948 dimenticano che nel frattempo è stata modificata, dal 2001 con la riforma del titolo quinto che concede alle regioni l’orrore dell’autonomia differenziata e dal 2022 con l’inserimento ambiguo dell’ambiente accanto al paesaggio nell’articolo nove. Come suggerisce Gianni Vattimo l’ambiente non corrisponde al paesaggio perché può essere interpretato in modo utilitaristico e suscitare un interesse prevalentemente scientifico. In questo caso, come in altri, la scienza non costituisce necessariamente un vantaggio se alla contemplazione estetica del paesaggio sostituisce lo studio dell’ambiente. Il primo offre alla vita il senso autentico dell’inclusione naturale, il secondo può diventare sterile erudizione e asfittica reclusione domestica.
Un commento riguardo il terremoto…ma forse andiamo fuori tema… più o meno la penisola dove abitiamo è tutta, più o meno, sismica, e prima o poi toccherà quasi a tutti… e non si tratta di ricostruire o meno in questi luoghi altrimenti dovremmo abbandonarla, la penisola… ma di ri-costruire in maniera idonea… nella penisola delle tangenti è difficile, ancora non esiste un programma a lungo termine, ma tante parole e pochi fatti.
Poi per i cambiamenti architettonici: vero, però il colosseo probabilmente verrebbe inteso come spreco di pubbliche risorse , edificare venezia significa distruggere valli da pesca ricostruire dov’era e com’era una casa o un paese devastati dal terremoto o da un esondamento… è opera meritoria in zone sismiche o a rischio alluvione???
Si, però molti sono contro lupi e orsi, molti vogliono sicurezza e tutela quando sono in natura, molti vogliono funivie e nuovi infrastrutture turistiche per ” valorizzare,” molti sfruttano la presunta naturalità di un luogo per godersi i proventi all’altro capo del mondo. Molti, non tutti, nemmeno forse la maggioranza….ma basta un niente, il gesto di un idiota o di un “prenditore” per inquinare una falda, per uccidere un animale con un boccone avvelenato, per trasformare isole oceaniche in discariche. Pessimismo anni 80? Forse si ma 30 anni dopo quelli che erano ottimisti non hanno avuto ragione a conti fatti. Einstein scrisse: meglio essere ottimisti ed aver torto che pessimisti ed aver ragione. Mah, è il risultato che non cambia quando la frase è riferita a temi ambientali.
Condivido la nostalgia per la natura (anch’io avrei voluto crescere nel mondo che ho visto da bambino e che oggi non esiste più), ma non la rassegnazione. Se la natura fosse conservata nei parchi come l’arte nei musei sarebbe inutile. Non avrebbe senso alcuna forma di protezione che non fosse anche un esempio e un modello di vita autentica.
Non sono tanto d’accordo con Vattimo quando dice che oramai la natura è solo un ricordo di qualcosa irrimediabilmente perduto e che quindi il “parco naturale” (ovvero una sua forma già antropizzata) sia l’unica forma in cui la conosciamo, mi sembra una forma pericolosa di resa al pessimismo. Siamo dentro la natura e inevitabilmente ci relazioniamo con essa anche quando teoricamente è “incontaminata”, ma possiamo immaginarla anche senza di noi. Non so poi se sia vero che tutti “i montanari che abitano tutto l’anno i luoghi delle nostre vacanze li trovano duri e difficili, e se possono si trasferiscono in città; e gli abitanti delle terre esotiche in cui ogni tanto ci abbandoniamo alla vita «naturale» desiderano intensamente frigoriferi, televisori, automobili, grattacieli.”: forse molti sì, ma non “tutti”. E non sono neanche tanto d’accordo quando dice che “è vano cercare di restaurare e mantenere i centri storici esattamente com’erano”: forse che Venezia è cambiata? La vogliamo cambiare? Fare una torre nuova al posto del campanile di San Marco che quando è crollato lo hanno appunto ricostruito esattamente com’era? (e hanno fatto bene). Insomma lo trovo un po’ troppo postmoderno e anni ’80 per i miei gusti (poi si sa come è andata).
Ricordo anch’io la battuta di Vattimo, anche perché da guida, ti capita spesso di ritrovarti con personaggi di successo che però apprezzano le cose semplici dell’alpinismo più di tutto quello di superfluo che possono permettersi.
Comunque non ho letto l’articolo fino in fondo.
Mi ha ricordato la vicenda dell’acquedotto. Inquinato da scarichi abusivi di veleni tossici, quello, assiema alla vicenda dell’amianto, ha portato alle leggi sull’inquinamento. Ma allora, come oggi, disattese e con scarsi risultati penali ma costi altissimi a carico del solito pantalone.
A trent’anni di distanza si può dire tutto cambia, niente muta
Di Gianni Vattimo lessi decenni fa un’intervista in tema alpinistico pubblicata, se ben ricordo, sulla Rivista della Montagna.
Il filosofo parlò dei suoi anni di giovane alpinista entusiasta; in particolare menzionò una conferenza tenuta da Walter Bonatti, col quale poi arrampicò emozionato su una vicina palestra di roccia, e una traversata del Monte Bianco dal Col du Midi.
Alla fine Vattimo, pieno di nostalgia, confessò: “Potessi ritornare a quel tempo – poche storie! – darei via tutto il Pensiero Debole”.
Ecco, io ricordo ancora la commozione che mi colse nel leggere queste ultime parole.