Rischio percepito e rischio reale
(lezioni dalla natura)
di Alessandro Bortolotti, Roberta De Cicco e Stefano Anzani
(pubblicato su economiacomportamentale.it il 18 novembre 2024)
Revisione a cura di: Francesca Bellante, Serena Iacobucci
Editing a cura di: Sara Ferracci
Immagina di trovarti di fronte a due sentieri in una tipica foresta italiana. Uno conduce a un pascolo in cui ci sono mucche che trascorrono le proprie giornate tranquille; l’altro, invece, a un bosco noto per la presenza di orsi. Quale percorso sceglieresti? Molto probabilmente, la scelta cadrebbe sul pascolo con le mansuete mucche, ritenendolo più sicuro e con meno rischio.
Ma è davvero così?
Questo dilemma è al centro un recente studio intitolato “Roaring Bears vs. Mellow Cows: A Comparative Analysis of Risk Perception“. La ricerca, realizzata da Umana Analytics in collaborazione con associazioni locali e abitanti delle aree montane di Abruzzo, Molise e Lazio, ha coinvolto 223 partecipanti e utilizzato diversi strumenti, tra cui dei task comportamentali, per esplorare le percezioni del rischio nei confronti di orsi e mucche.
Sebbene lo studio sia ancora in fase di elaborazione e di scrittura, i risultati sono molto interessanti e ci invitano a riconsiderare come valutiamo il pericolo e come queste valutazioni influenzano le nostre decisioni economiche e sociali, specialmente in contesti naturali come quelli delle catene montuose dell’Appennino centrale.
Infatti, in un territorio come l’Abruzzo, caratterizzato da grandi montagne e pascoli verdi, comprendere in modo accurato le dinamiche della percezione del rischio nei confronti di tali animali è fondamentale per informare le decisioni non solo a livello individuale, ma anche a livello di comunità.
Il paradosso della percezione: quando l’intuizione ci inganna
Nel nostro immaginario collettivo, l’orso rappresenta un simbolo di ferocia selvaggia, un predatore temibile che incute paura. Le sue zanne taglienti e i suoi potenti artigli sono spesso raffigurati come l’incarnazione stessa del pericolo naturale. D’altra parte, la mucca, con i suoi occhi grandi e il suo placido masticare, è l’emblema della docilità, un animale così familiare e apparentemente innocuo da essere quasi invisibile nel nostro calcolo dei rischi quotidiani.
Eppure, le statistiche raccontano una storia molto diversa.
In Italia, gli attacchi di orso registrati sono relativamente rari. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA, 2021), tra il 2000 e il 2020 sono stati documentati solo 23 casi di interazione aggressiva tra orsi e umani, con un unico caso fatale nel 2014 in Trentino. D’altra parte, l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, 2020) riporta che gli incidenti in ambito agricolo, inclusi quelli che coinvolgono animali da allevamento come le mucche, causano annualmente diverse vittime.
La Coldiretti, Organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo, ha evidenziato in un report del 2019 che in Italia vivono oltre 5,6 milioni di bovini (quasi 1 ogni 10 esseri umani); una presenza così massiccia aumenta significativamente la probabilità di interazioni uomo-animale rispetto agli incontri con specie selvatiche come l’orso.
Per questo motivo, come confermato anche da uno studio condotto da Jenny Anne Glikman et al. (2012) sulla percezione pubblica dei grandi carnivori in Italia, la paura degli orsi è spesso sproporzionata rispetto al rischio reale, influenzata più da fattori culturali e mediatici che da dati statistici (Human Dimensions of Wildlife).
Anche negli Stati Uniti, i dati risultano simili: con circa 25 casi complessivi tra il 2000 e il 2017, gli attacchi mortali di orsi sono significativamente meno frequenti delle morti causate da interazioni accidentali con mucche, in media circa 20 l’anno (Centers for Disease Control and Prevention [CDC], 2018).
In Gran Bretagna, allo stesso modo, le mucche rappresentano una causa significativa di decessi nell’agricoltura, superando persino i cani in alcune statistiche. Tra il 2019 e il 2023, infatti, le mucche hanno causato 22 morti in Inghilterra, Scozia e Galles, rispetto ai 16 decessi provocati dai cani in Inghilterra e Galles nello stesso periodo. Gli attacchi colpiscono sia i lavoratori agricoli che i passanti, in particolare escursionisti che attraversano sentieri pubblici. Oltre ai decessi, non mancano numerosi incidenti: dal 2015 al 2021 ne sono stati segnalati ben 257, ma alcuni esperti ritengono che molti non vengano riportati.
Perché ci sono così tanti incidenti, infortuni e persino decessi legati alle mucche?
Prima di tutto, le mucche sono enormi: una mucca da latte nel Regno Unito pesa in media 620 kg. Anche un lieve urto può far cadere o schiacciare una persona. Inoltre, le mucche spesso non si rendono conto della loro grandezza e tendono a spostare chiunque si trovi sulla loro strada, specialmente quando si muovono in gruppo. Se una corre, è probabile che tutta la mandria la segua.
La presenza di cani, inoltre, aumenta il rischio di attacchi da parte delle mucche, poiché queste li percepiscono come una minaccia. Uno studio dell’Università di Liverpool del 2017, basato su 54 casi riportati dai media, ha rilevato che i cani erano presenti in due terzi degli incidenti e nel 94% dei casi fatali, anche se il campione è ridotto (University of Liverpool, 2017).
Questo dato, di per sé piuttosto sorprendente (o forse no), solleva una domanda fondamentale: perché la nostra percezione del rischio è così disconnessa dalla realtà statistica?
Per rispondere a questa domanda, i ricercatori di Umana Analytics hanno impiegato un arsenale di strumenti psicometrici e task comportamentali, per misurare l’ansia, la paura e la percezione del rischio nei confronti di orsi e mucche. L’obiettivo era quello di mappare non solo ciò che le persone ammettono apertamente di temere, ma anche le loro reazioni istintive e le associazioni inconsce. Uno dei risultati più sorprendenti che emerge è che contrariamente alle aspettative, i dati mostrano che l’orso non genera un livello di paura così elevato come si potrebbe pensare. In altre parole, a livello inconscio, non associamo l’orso al pericolo così fortemente come facciamo in modo consapevole e questo potrebbe indurci ad avere comportamenti “più a rischio”.
La figura mostra i risultati dell’Implicit Association Test (IAT), ossia le preferenze implicite tra orsi e mucche con aggettivi NEGATIVI. Il grafico illustra vari livelli di associazione, da forte a leggera, con orsi (in blu) e mucche (in rosa), oltre a una categoria neutra di ‘nessuna preferenza’ (in verde). I valori indicano la forza relativa di ciascuna associazione.
Questo risultato è particolarmente intrigante perché mette in luce la complessità della nostra percezione del rischio e ci invita a fare delle riflessioni a riguardo. Da un lato, abbiamo le nostre risposte “alla luce del sole”, razionali e consapevoli, modellate dall’educazione, dalla cultura e dalle esperienze personali (Bortolotti et al., 2024). Dall’altro, ci sono le nostre reazioni istintive, quelle che sfuggono al controllo conscio e che spesso guidano le nostre decisioni in modo “sotterraneo”. La discrepanza tra questi due livelli di percezione del rischio apre una finestra affascinante sul funzionamento della mente umana e sulle implicazioni per le scienze comportamentali e per l’economia comportamentale.
Se le nostre valutazioni consce del rischio non sempre si allineano con le nostre reazioni inconsce, come possiamo aspettarci di prendere decisioni veramente razionali in situazioni di incertezza?
Le radici evolutive della percezione del rischio
Per comprendere appieno questo paradosso, dobbiamo fare un passo indietro e considerare le radici evolutive della nostra percezione del rischio. I nostri antenati vivevano in un mondo dove la capacità di identificare rapidamente e reagire ai pericoli era letteralmente una questione di vita o di morte. In quel contesto, sovrastimare il rischio rappresentato da predatori come gli orsi era una strategia di sopravvivenza efficace. Era certamente meglio, in termini evolutivi, avere un falso allarme che perdere la vita per aver sottovalutato una minaccia.
Questo meccanismo di “meglio prevenire che curare” è profondamente radicato nel nostro cervello e continua a influenzare il nostro comportamento anche in contesti dove i pericoli sono molto diversi da quelli affrontati dai nostri antenati (Slovic, 1987). Il problema è che questo sistema, così efficace nell’ambiente ancestrale, può portare a distorsioni significative nella valutazione dei rischi nel mondo moderno. Nel caso degli orsi e delle mucche, la nostra eredità evolutiva ci predispone a temere di più il predatore raro e potenzialmente letale (l’orso) rispetto all’animale familiare e apparentemente innocuo (la mucca), anche quando le statistiche suggeriscono che dovremmo essere ben più cauti con quest’ultima.
Questa discrepanza tra percezione istintiva e realtà statistica non è limitata al regno animale. Si manifesta in molti ambiti della nostra vita quotidiana e ha profonde implicazioni nel decision-making degli individui. Pensiamo, ad esempio, alla paura diffusa di volare rispetto alla relativa noncuranza con cui molte persone affrontano la guida quotidiana, nonostante le statistiche mostrino chiaramente che gli incidenti stradali siano una causa di morte molto più probabile rispetto agli incidenti aerei.
Il ruolo dei media e della cultura nella formazione delle percezioni
Un altro fattore cruciale che emerge dallo studio è l’elevata influenza dei media e della cultura nella formazione delle nostre percezioni del rischio (Kasperson et al., 1988). La rappresentazione degli orsi nei film, nei libri e nelle notizie tende a enfatizzare la loro natura feroce e pericolosa. Nel film “The Revenant” (2015), di Alejandro González Iñárritu (premiato con un oscar sia per la regia che per la magistrale interpretazione del protagonista Leonardo DiCaprio), uno dei momenti più celebri è proprio l’attacco brutale di un orso grizzly al protagonista. Sono numerosi i film di sopravvivenza dove l’orso è spesso ritratto come un antagonista implacabile, e anche piuttosto recenti le notizie sensazionalistiche che danno ampio risalto ai rari attacchi di orsi agli esseri umani.
Le mucche, invece, raramente fanno notizia.
Questa disparità di rappresentazione mediatica contribuisce a plasmare le nostre percezioni in modi che possono divergere significativamente dalla realtà statistica. Questa dinamica solleva questioni importanti sul ruolo dei media nella formazione delle percezioni pubbliche del rischio e, di conseguenza, nelle decisioni economiche e politiche. Se le nostre percezioni sono così fortemente influenzate da rappresentazioni mediatiche potenzialmente distorte, come possiamo aspettarci di fare scelte razionali in ambiti che vanno dagli investimenti finanziari alla politica ambientale?
L’economia comportamentale e la “irrazionalità prevedibile”
Il paradosso della percezione del rischio tra orsi e mucche si inserisce perfettamente nel quadro più ampio degli studi di economia comportamentale, un campo che sfida l’assunto tradizionale dell’homo economicus perfettamente razionale. Pionieri come Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno dimostrato che le nostre decisioni economiche sono spesso guidate da euristiche e bias cognitivi che possono portare a scelte “irrazionali” ma prevedibili (Kahneman & Tversky, 1979).
Questo fenomeno di percezione distorta del rischio tra orsi e mucche riflette come i bias cognitivi influenzino non solo le decisioni economiche, ma anche il modo in cui valutiamo i pericoli nella vita quotidiana. Proprio come nelle scelte economiche, anche nel percepire i rischi associati agli animali entrano in gioco meccanismi mentali che ci portano a conclusioni inattese.
Nel caso specifico dello studio svolto, possiamo identificare un paio di bias cognitivi in azione:
L’Euristica della disponibilità: tendenza a sovrastimare la probabilità di eventi che si possono più facilmente richiamare alla mente. Gli attacchi di orsi, sebbene rari, sono memorabili e spesso riportati dai media, rendendoli più “disponibili” nella nostra memoria rispetto agli incidenti con le mucche.
Il Bias di conferma: una volta formata l’opinione sulla pericolosità degli orsi, si tende a cercare informazioni che confermino questa credenza, ignorando o sminuendo le prove contrarie.
In un’era caratterizzata da un flusso costante di informazioni, la percezione del rischio è inevitabilmente influenzata da ciò a cui scegliamo (o siamo portati) di prestare attenzione. L’economia dell’attenzione, un concetto introdotto dall’economista Herbert Simon, diventa quindi cruciale per comprendere come si formano le nostre percezioni del rischio (Simon, 1971).
Nel contesto dello studio qui presentato, ad esempio, possiamo osservare come l’attenzione mediatica sproporzionata dedicata agli attacchi di orsi possa contribuire a distorcere la percezione “cosciente” del rischio. Inoltre, le storie di attacchi di orsi, anche se rare, tendono a essere molto più memorabili e impattanti di statistiche aride sugli incidenti con il bestiame, evidenziando il ruolo cruciale della narrazione nell’economia comportamentale e nella comunicazione del rischio (Sunstein, 2002).
Le narrazioni non sono solo un modo per trasmettere informazioni, ma sono strumenti potenti per dare senso al mondo che ci circonda. Esse possono influenzare profondamente il modo in cui percepiamo e reagiamo ai rischi. Nel contesto degli orsi e delle mucche, sono diverse le narrazioni che influenzano le nostre percezioni: dalla narrazione dell’orso feroce a quella della mucca docile, dalla narrazione ecologica a quella della sicurezza agricola. Comprendere il potere di queste narrazioni e imparare a utilizzarle in modo efficace può essere cruciale per influenzare le percezioni del rischio e, di conseguenza, il comportamento economico.
Come abbiamo visto, questi bias cognitivi non sono semplici curiosità psicologiche, ma hanno implicazioni reali e significative per l’economia e la politica. Pensiamo, ad esempio, alle decisioni di investimento: la tendenza a sovrastimare rischi rari ma memorabili (come i crolli di mercato) può portare gli investitori a essere eccessivamente cauti, rinunciando a opportunità di guadagno a lungo termine in favore di opzioni percepite come più sicure ma meno redditizie. Allo stesso modo, nel contesto della gestione della fauna selvatica, la percezione distorta del rischio rappresentato dagli orsi potrebbe portare a politiche di conservazione eccessivamente restrittive, con conseguenze negative non solo per le popolazioni di orsi ma anche per l’intero ecosistema e l’economia locale basata sull’ecoturismo.
L’impatto economico delle percezioni distorte
Le percezioni distorte del rischio non sono solo un fenomeno psicologico interessante, hanno conseguenze economiche tangibili e spesso significative. Il nostro caso studio sul confronto della percezione del rischio tra orsi e mucche ci aiuta ad identificare vari domini nei quali le percezioni distorte possono avere un’influenza a livello economico.
Nel settore del turismo, la paura eccessiva degli orsi può scoraggiare i visitatori in aree che ospitano questi animali, privando le comunità locali di una potenziale fonte di reddito. D’altra parte, una percezione più equilibrata potrebbe promuovere un ecoturismo responsabile, creando opportunità economiche sostenibili.
Il mercato immobiliare non è esente da questi effetti. Le proprietà in aree percepite come “a rischio” di attacchi di orsi potrebbero subire una svalutazione, con un impatto significativo sulla ricchezza delle comunità locali, nonostante il rischio reale sia minimo. Quantificare questi impatti economici è una sfida complessa ma essenziale. Richiede l’integrazione di dati da diverse fonti, tra cui statistiche turistiche, valori immobiliari, bilanci pubblici, dati assicurativi e indicatori di produttività agricola. Inoltre, è necessario sviluppare modelli econometrici sofisticati che possano isolare l’effetto delle percezioni del rischio da altri fattori che influenzano questi risultati economici (Viscusi & Aldy, 2003).
Ma tradurre le intuizioni dello studio in politiche efficaci, oltre a presentare dei vantaggi, propone anche una serie di sfide. Una delle più significative è forse il “paradosso della prevenzione“: se le misure preventive sono efficaci nel ridurre gli incidenti (sia con orsi che con mucche), il pubblico potrebbe percepire il rischio come ancora più basso di quanto non sia in realtà, potenzialmente portando a comportamenti più rischiosi.
Inoltre, c’è la questione della resistenza culturale. Le percezioni del rischio sono profondamente radicate nella cultura e nell’identità di una comunità. Cambiare queste percezioni richiede non solo educazione e informazione, ma anche un approccio sensibile alle tradizioni e ai valori locali.
Un’ulteriore sfida è la natura dinamica delle percezioni del rischio. Queste possono cambiare rapidamente in risposta a eventi drammatici o a cambiamenti nella copertura mediatica (stigma verso una figura come l’orso). Le politiche devono quindi essere flessibili e adattive, capaci di rispondere a questi cambiamenti senza perdere di vista il quadro generale basato sui dati.
Il ruolo delle emozioni nella percezione del rischio
Le emozioni svolgono un ruolo cruciale nella percezione del rischio: non sono semplicemente un “rumore di fondo” che distorce il nostro giudizio razionale, ma una componente intrinseca e spesso adattiva del nostro sistema decisionale (Loewenstein et al., 2001). Nel caso degli orsi e delle mucche, le emozioni svolgono un ruolo particolarmente interessante. La paura istintiva che molti provano al pensiero di un incontro con un orso non è semplicemente una reazione poco razionale, ma il risultato di millenni di evoluzione durante i quali una sana dose di paura nei confronti dei predatori era fondamentale per la sopravvivenza.
Questa paura, anche se oggi può sembrare eccessiva in relazione al rischio statistico, ha svolto un ruolo cruciale nella nostra storia evolutiva. D’altra parte, la relativa mancanza di timore nei confronti delle mucche può essere vista come il risultato di millenni di domesticazione e convivenza pacifica. Le emozioni positive associate alle mucche – forse un senso di calma o addirittura di affetto – possono portare a una sottovalutazione dei rischi reali associati a questi animali di grandi dimensioni.
Questo intreccio di emozioni e cognizione nella percezione del rischio solleva domande interessanti per l’economia comportamentale. Come possiamo integrare le emozioni nei modelli di decisione economica? I modelli tradizionali di utilità attesa spesso trascurano il ruolo delle emozioni, ma è chiaro che queste giocano un ruolo cruciale nelle nostre decisioni, soprattutto in situazioni di incertezza.
Il paradosso della familiarità
Un aspetto interessante emerso dallo studio è quello che potremmo chiamare il “paradosso della familiarità”. La familiarità con un rischio può portare a due risultati apparentemente contraddittori: da un lato, può ridurre la paura irrazionale attraverso l’esposizione ripetuta e la comprensione; dall’altro, può portare a una pericolosa sottovalutazione del rischio attraverso l’abitudine e la desensibilizzazione (Slovic et al., 2004). Nel caso delle mucche, la loro presenza quotidiana nella vita rurale ha portato a una sorta di “cecità al rischio”.
Le persone che lavorano regolarmente con il bestiame possono sviluppare un senso di confidenza che, paradossalmente, può aumentare il rischio di incidenti. Questo fenomeno non è unico all’agricoltura, è riscontrabile in molti settori dove i lavoratori esperti possono diventare troppo sicuri di sé e trascurare le precauzioni di sicurezza di base.
D’altra parte, la rarità degli incontri con gli orsi mantiene vivo un senso di cautela che, sebbene possa essere sproporzionato rispetto al rischio reale, serve comunque a mantenere le persone vigili e preparate. Questo paradosso della familiarità ha implicazioni significative per la gestione del rischio in vari settori economici, dalla sicurezza sul lavoro agli investimenti finanziari, dalla sicurezza stradale alla gestione delle catastrofi.
L’economia comportamentale e la gestione sostenibile della fauna selvatica
Lo studio qui presentato ha implicazioni dirette per la gestione sostenibile della fauna selvatica, un campo che sta diventando sempre più rilevante nel contesto del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità. Riteniamo che l’economia comportamentale possa offrire intuizioni preziose su come bilanciare le esigenze di conservazione con le preoccupazioni delle comunità locali (Thaler & Sunstein, 2008). Tra gli aspetti da considerare vi sono gli incentivi economici per la coesistenza, l’applicazione delle ormai note “spinte gentili” (nudges) per influenzare il comportamento umano, il framing della conservazione, l’effetto dotazione applicato alla fauna selvatica e il bias di status quo nelle politiche di conservazione.
Conclusioni e riflessioni finali
Lo studio sulla percezione del rischio, visto attraverso la lente dei due animali, ci ha portato ben oltre le montagne e i pascoli dell’Italia centrale. Ci ha condotto in un territorio di riflessione profonda sulla natura della mente umana, sulla complessità dei nostri sistemi sociali ed economici, e sulle sfide che ci attendono in un mondo in rapido cambiamento. Se è vero che la comprensione di come le percezioni del rischio influenzano il comportamento economico è cruciale per sviluppare politiche efficaci e sostenibili, allora questo studio apre nuove strade per la ricerca interdisciplinare, combinando intuizioni dell’economia comportamentale, della psicologia cognitiva, delle scienze della comunicazione e anche dell’ecologia.
Mentre procediamo nel nostro cammino, che questo studio serva come promemoria della complessità e della meraviglia del comportamento umano, e come invito a continuare a esplorare, a questionare le nostre assunzioni, e a cercare una comprensione sempre più profonda di noi stessi e del mondo che ci circonda, perché è in questa ricerca continua che risiede la vera essenza del progresso umano e della gestione efficace dei rischi in un mondo sempre più complesso e interconnesso.
Riferimenti bibliografici
Centers for Disease Control and Prevention. (2018). Mortality data from the National Vital Statistics System.
Alessandro Bortolotti, Alice Conti, Angelo Romagnoli, Pier Luigi Sacco (2024). Imagination vs. routines: festive time, weekly time, and the predictive brain. Frontiers in Human Neuroscience, 18, 1357354.
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Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). (2021). Rapporto Orso bruno 2020.
Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT). (2020). Incidenti sul lavoro e malattie professionali.
Coldiretti. (2019). Analisi sul patrimonio zootecnico italiano.
Jenny Anne Glikman, Jerry J. Vaske, Alistair J. Bath, Paolo Ciucci, Luigi Boitani (2012). Residents’ support for wolf and bear conservation: the moderating influence of knowledge. European Journal of Wildlife Research, 58(1), 295-302.
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Per la percezione di rischio,vale in ogni suo aspetto si consiglia Sociologia del rischio di Noklas Luhmann.Rischio come modello descrittivo della società contemporanea.Agenti amplificatori delle percezioni,almeno in Trentino sono la stampa locale,estremamente superficiale e scioccamente provinciale e sensazionalistica
Accolgo la precisazione di albertperth, evidentemente avevo consultato fonti sbagliate.
Comunque anche 250.000 persone con tutte le attività che derivano dalla loro presenza sono tante rispetto alle poche centinaia, o addirittura nessuna, che vivono nel parchi di Stati Uniti e Canada.
La Foresta di Tarvisio è molto più piccola ma nessuno ci abita. Nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise ho trovato il fondovalle popolato da turisti ma la maggior parte di essi si concentrava per pochi giorni in tre zone: Camosciara, val Fondillo, la seggiovia di Pescasseroli. Inoltre tra Pescasseroli e la piana del Fucino ci sono aree a boschi spopolate che le Alpi se le sognano. Non mi stupisce che sia molto più difficile il contatto uomo-orso lì piuttosto che in Trentino. Gli stessi abitanti dei paesi di solito vedono l’orso quando viene in paese, raramente qualcuno se ne vede passare uno davanti su un sentiero.
Ricordo, ma attenzione perché vado a memoria, di avere letto all’inizio del progetto reintroduzione dell’orso, che lo scopo era costituire una popolazione stabile di 35-40 orsi. Se ricordo bene la situazione è scappata di mano ai promotori.
Quindi non sono stati previsti i rapidi incrementi della popolazione, sia di uomini sia di orsi.
Inoltre l’articolo parla di “solo” 23 casi di interazione aggressiva uomo-orso tra il 2000 e il 2020: a me in assoluto non sembrano pochi.
Bah, esiste anche , banalmente , il buon senso.
Per me, (abito in Trentino) se devo andare in un posto, che ci siano mucche, orsi, zanzare, zecche , vipere, lupi, ecc…..
Ci vado. Però ogni volta con un atteggiamento diverso .
Non è questione di paura, ma si prudenza.
Ho lavorato 3 anni nelle stalle, si le mucche possono fare male, però ci andiamo molto vicino, addirittura addosso.
Con l’orso non ci vai vicino, magari nella sua tana. Non lo mungi , almeno non credo.
Tornando alla prudenza, se devo passare da Malga Tuenna per salire verso la cima Omet, una certa prudenza per evitare l’incontro ravvicinato con l’orso, c’è la devo mettere, per evitare di diventare “statistica” anch’io.
Nel passare dalla malga, stò anche un po’ attento alle mucche ed ai cani da guardia.
Non è aver paura, è essere prudenti.
Se poi ci sono le zecche, anche mi darò un occhiata sulle gambe.
Come anche nell’alpinismo, prudenza, accompagnata dalla conoscenza.
Ma questo vale per tutto. Poi può capitare, e diventeremo oggetto di statistica. 🙏
Le mucche sono molto pericolose, producono una sostanza, il latte, da cui sarebbe bene stare alla larga, perchè fa venire il colesterolo.
va precisato che attualmente la provincia di Trento consta di 500 mila unità,all epoca dell,introduzione dell orso dai paesi dell Est,la popolazione era di 250 mila unità,gli orsi più o meno radiocollarati sono c.a 100 poi vi sono molti altri,es.area Bondone c.a 20,detto questo, a prescindere dalla superficialità dei promotori,Ce ne sono di specie da reintrodurre,più o meno estinte.Per gli indigeni l,orso è percepito pericoloso,l’uso dell’ alcool sulle strade non. è percepito tale, ma è il maggior pericolo.poi muoiono e si feriscono gravemente gli anziani sui trattori,gli incidenti in parete, le tute alari in misura minore, le bike , questi sono maggiori del pericolo ,vacche, zanzare e similia.Mancano i dati incidenti domestici che pochissimi percepiscono quanto pericoli,imminenti.Poi si va per boschi e prati e si rischia meno.La riflessione è stata velocizzata per tanti motivi.Restano incidenti sul lavoro,per vari motivi endogeni ed esogeni.
L’articolo innanzi tutto ha il pregio di ricordare che le mucche possono essere pericolose.
Lo so che gli incidenti causati da mucche sono in numero maggiore di quelli causati da orsi ma secondo me occorre fare una proporzione: quante sono le mucche e quanti sono gli orsi? Stesso discorso per i decessi causati dal calabrone e dall’orso.
Chi scrive ha camminato sia a Yellowstone sia nel Parco d’Abruzzo Lazio e Molise nonostante la presenza degli orsi, e anche proprio per la presenza di fauna selvatica da osservare e fotografare. E riteneva che un attacco di orsi fosse poco probabile, specie da parte del pacifico orso marsicano.
Tuttavia la mia modestissima opinione è che in Italia ci si doveva accontentare degli orsi d’Abruzzo e casomai si dovesse aiutare il ripopolamento naturale nella Foresta Demaniale di Tarvisio invece di reintrodurli nella provincia di Trento dove vive un milione di persone, con tutto ciò che comporta (città, paesi, industrie, agricoltura, allevamento, turismo, strade…), contro le zero persone che abitano stabilmente Yellowstone.
Rat-Man spiegati meglio. L’uomo fa parte della natura. Negare la cura del cancro agli amanti della natura se permetti…..bella cazzata
Caro Matteo, la questione è che la maggior parte della gente non ha mai incontrato una mucca e si fida delle immagini bucoliche fornite dai media.
Personalmente ho sempre avuto paura delle vacche e l’ho un po’ superata solo grazie alla stesura della guida del Sentiero Italia, grazie alla quale mi sono ritrovata diverse volte da sola davanti a un’intera mandria senza possibilità di deviare dal sentiero.
C’è da dire che la statistica sugli incidenti con le vacche è ancor più allarmante se si pensa che la gran parte del bestiame è all’interno di allevamenti intensivi e solo poche fortunate passano la loro vita all’aperto.
@5
Ah ah ah ah ah ah
Ha ragione
L’idea di animali liberi in natura è suggestiva, soprattutto per i moltissimi che abitano in città: orsi, lupi nei boschi, un eden ritrovato.
La natura! Io per questi amanti della natura e odiatori degli uomini proporrei l’esonero dalla cura del cancro.
avere paura di una mucca, mi sembra il minimo in una società che è convinta che le uova non le fa una gallina ma il centro commerciale.
Molte persone mi chiedono se non ho paura di dormire fuori quando sono in giro , soprattutto di malintenzionati…….rispondo sempre che se mai incontro qualcuno sarà lui a spaventarsi di me…..ad ogni modo
Non capisco come si possa mescolare la statistica,l’esperienza e l’etologia……e il sensazionalismo???????
Il problema della percezione delle cose, o meglio di come noi valutiamo i possibili effetti di una interazione è molto interessante.
Però l”esempio che fa l’articolo mi pare un po’ fuorviante. Voglio dire che è assolutamente fuori di dubbio che una vacca sia molto meno pericolosa di un orso e quindi se la percezione media di una persona è che sia tale è una percezione corretta.
Cosa ben differente è credere che una vacca non possa essere pericolosa e quindi volerla accarezzare perché è tanto carina e finire calpestati o incornati; questo atteggiamento fa parte del nostro essere mediamente completamente privi di abitudine a trattare con gli animali (e con l’ambiente naturale in genere), aggravato dalla disneyzzazione della natura stessa che ormai ci è entrato in testa.
Beh a rigor di statistica l’animale in assoluto e inarrivabile più letale al mondo è la zanzara e (con milioni di differenza) l’ippopotamo.
Ovviamente Homo Sapiens li batte tutti a man basse
L’analisi e’ bella , ma come direbbe Quelo :”La domanda e’ malposta”.
Una mucca puo’ essere una minaccia letale per un escursionista , ma gli incontri con mucche e manze sono sempre ravvicinati.
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Il fatto stesso che orso – lupo- cane possano inseguirti anziche’ “giocare di rimessa” dopo essere stati molestati , come fanno i bovini , cambia radicalmente le regole del gioco : le aggressioni da orso o cane da guardiania che entrano nelle statistiche si verificano senza che un escursionista sprovveduto vada a mezzo metro dall’animale a farsi un selfie.
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Il ragno piu’ velenoso del mondo , il six eyes sand spider , non produce morti , perche’ nessuno va a rompergli i coglioni nelle remote regioni del Kalahari o del Cile.
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Secondo i morti delle statistiche le vespe o i ragni violino sono piu’ pericolosi.