Rocce liguri (AG 1964-010)
(dal mio diario, 1964)
24 maggio 1964. Dopo tredici mesi torno al Bric Camulà, ma questa volta per fare il crestone Laura, quello centrale. La guida di Euro Montagna parla di 350 metri di dislivello, di un tempo sulle due ore e mezza e di difficoltà assai variabili, volendo fino al V grado.
Il dr. Pàstine è istruttore al corso e mi ha preso in simpatia. M’invita, così mi ritrovo assieme a lui, a sua moglie Margherita, Giuseppe Pinuccio Banchero e qualche altro. In cinque in auto, partiamo alle nove da Sampierdaredena. Il cielo è sereno, ma non fa caldo. In un attimo siamo ad Arenzano e da lì al Passo della Colletta, poi Lerca e oltre, fino a dove arriva la carrozzabile, alle pendici sud-est della Punta Coletta, tra gli inesauribili frizzi di Pinuccio. Scesi, cominciamo ad avviarci tra i pini per la stradetta che porta al Monte Rama.
Intanto io rimugino. Il mio scopo è quello di farmi valere. Non confondete questo desiderio con il comune esibizionismo. Io sono costretto, tutte le domeniche, a non fare niente (o assai poco) per mancanza di compagni. Vorrei anche andare un po’ in montagna. Ma nessuno mi porta. Perché? Perché sono ancora un allievo. E allora dico basta. Pàstine è un istruttore coscienzioso, che pratica montagna da un mucchio d’anni. Ma so anche che non conduce una cordata da primo oltre al III grado. Questa è dunque la mia occasione. Farmi vedere un po’?… e il resto verrà da sé, tanto più che Pàstine per elogiare e parlare bene degli altri è nato apposta.
Però bisogna vedere cosa ne dirà il caro Gianni, bisognerà vedere se otterrò il tanto desiderato permesso di condurre io. Per intanto, diplomaticamente, mi accontento di qualche larva di permesso.
E così arriviamo alla base dei crestoni. Lì c’è Renato Ansaldi con due suoi amici che non arrampicano. Più sopra Carlo Mongrandi, soprannominato Tenzing, tipo simpaticissimo che mi conosce già un po’, è assieme a sua moglie e ad Antonio Cevasco.
Io, Pàstine e Pinuccio andiamo su per delle pietraie fino alle rocce del Crestone Laura, presto raggiunti da Renato Ansaldi. Devo legarmi con lui, così le mie speranze svaniscono. Comunque, pazienza. Con Renato filiamo bene su queste rocce fino a che non capitiamo sotto a un diedro. Tenta di farlo ma non ci riesce. E’ un anno che non arrampica, è un po’ giù di forza… Tento di farmi dare il permesso per attaccare io, ma lui gentilmente nega, andando però sopra per altra via per assicurarmi. E io salgo, prima in spaccata, poi in Dülfer, poi ancora in arrampicata normale sotto gli occhi di Tenzing. Una volta di sopra, Ansaldi scende per farsi assicurare da me nel diedro. Ma non ci riesce. Uno a zero per me, e Tenzing ha visto tutto.
Ripeto, quello che sto facendo mi fa schifo, però mi è necessario per poter andare da qualche parte in montagna. Continuiamo per cresta, paretine e camini, finché “dopo un tratto di cresta pressoché pianeggiante” arriviamo al lastrone fessurato di III+. A destra c’è il fatidico diedro di V grado, sul quale io contavo tanto. Prego di nuovo Ansaldi di farmi partire da primo ma lui dice che gli sono stato affidato e dunque che non può. Però mi assicura dall’alto e io comincio a salire arrabbiatissimo. Ma solo dentro di me, perché esteriormente sorridevo. Salgo abbastanza facilmente e arrivo da lui. Proseguiamo. Ormai non c’è più nulla di difficile e arriviamo in cima a 818 m, dove lo aspettano i suoi due amici. Mangiamo.
Dopo un po’ di siesta loro accennano ad andarsene, allora io scendo da Pàstine lungo la cresta. Gianni ha già mangiato assieme agli altri e ora sta salendo, legato a Pinuccio. Dietro ci sono le due donne legate tra di loro, più in basso Tenzing con sua moglie e Cevasco. Pàstine mi raggiunge e io, molto diplomaticamente, comincio a parlargli di quel diedro. Ma non gli dico né che è di V grado né che è segnato sulla guida di Euro. Gli dico solo che è magnifico. Mi lego a loro e Pàstine mi dice: – Vuoi fare un po’ tu da primo?
– Sì, sì – rispondo io. E vado su, facilmente, fino al fatidico diedro. Lo mostro orgoglioso a Pàstine, che ora posso anche cominciare a chiamare Gianni, e a Pinuccio. Le due donne, Margherita e Maria Grazia Vianello lo vedono dall’alto. E’ davvero magnifico. Splendidamente granitico, si erge per 13-14 metri. E’ nudo, non un filo d’erba che lo deturpi. A metà c’è una gobba strapiombante. Il diedro è fessurato al fondo, ma in Dülfer si fa male. Mi faccio dare un Simond a U da Gianni e, assicurato da Pinuccio, parto. Faccio notare che al momento solo io so di quale razza di grado è questo diedro. Parto in Dülfer male aggraziata, cerco di piantare un chiodo verticale, ma non ci riesco perché la fessura è cieca. La mia posizione è scomoda, ma abbastanza estetica, per cui dal basso non mi dicono niente. M’innalzo ancora un po’ e pianto un buon chiodo, dopo di che proseguo diretto fino all’uscita senza alcuno sforzo. Non ho dato nemmeno il tempo alle due donne di mettersi in posizione per osservarmi. Mi autoassicuro e pregusto la scena. Viene su Pinuccio. Mi tocca tirare un po’, ma non è Pinuccio che m’interessa… Lui non può giudicare il grado, paragonare, soppesare la difficoltà. Sento Gianni che da sotto gli dà qualche consiglio, poi Pinuccio sbuca fuori dicendo che è il più bel passaggio che abbia mai fatto e che supera perfino quello da lui fatto alla Rocca Maccà!
Gianni sa di che razza di grado sia il primo dei diedri della Rocca Maccà e perciò è “avvisato”. Pinuccio lo assicura e io scendo con la macchina fotografica per fotografarlo. Pàstine parte. Il modo in cui sale non è dei migliori, la corda è bella tesa. Ma la ragione c’è. Questo diedro è prevalentemente di forza e lui non ne ha tanta. Mentre sta salendo e per confortarlo gli dico che sulla guida quel diedro è dato di V grado. E Gianni, mentre lotta per togliere il chiodo, capisce tutto. E dice: – Oua capisciu (ora capisco). I quinti gradi di Euro sono sempre “superiori”… Ehi, marocchino (marocchino sono io), ma come hai fatto a passare? Tremendo! Chi, u nu ghe ninte (qui non c’è niente)!
E raspa la roccia alla ricerca di appigli. E Pinuccio tira.
E io: – Ecco, così… in opposizione con il sedere dalla parte sinistra e in Dülfer… Bene, così!
Ormai è quasi uscito e io corro in cima per vederlo sbucare. Lo vedo nell’ultima lotta. Mi scherza in genovese: – T’e bun, marucchin!
Poi seguono i commenti. Lodi a me, paragone di quel diedro ad altri. Gianni si lascia andare: – Cavalieri da primo questo diedro non lo farebbe…!
– Sicuro? – s’informa Pinuccio.
– Sicurissimo – risponde Gianni.
Poi proseguiamo. Io ho raggiunto il mio scopo. Ma mi manca ancora una cosa. Finora ho dimostrato che sui passaggi di forza e di tecnica ci so fare abbastanza. Ma sui passi delicati? E una parete di venti metri, il cui primo pezzo è senz’altro di IV+ e il secondo di III+, mi offre l’occasione di esibirmi di nuovo. Parto all’attacco. Supero, debbo dire in modo perfetto, sia il primo che il secondo pezzo, facendo poi salire Pinuccio, il quale dopo una prima esitazione se la cava abbastanza bene. Subito dopo Gianni trova un po’ più difficile. Mi fa piacere d’aver dimostrato qualcosa anche sul delicato. E ora sono davvero contento. Le due signore vengono su un po’ più a sinistra e quindi ci troviamo tutti in cima. Per una bella mulattiera torniamo alla macchina. Partiamo alle 19.45: io, dopo la coda spaventosa, arrivo a casa alle 22.15.
5 luglio 1964. La Palestra dei Laghetti sorge a circa 320 m nella parte inferiore di un contrafforte scendente a sud-sud-ovest del Monte Reixa 1183 m, in un luogo decisamente selvaggio. E’ una poderosa bastionata di circa 90 metri altezza, costituita da placche verticali di serpentino divise da diedri e fessure.
Carlo Ventura e io, muniti di tutto, ci rechiamo fin là, in una giornata decisamente brutta. Non c’ero mai stato. Non è una palestra comoda: è tutta un intrico di piante, lontana, alta e ripida. All’attacco della grande placca di 40 m (it. 4b) non si può neppure stare in piedi per via della pendenza del terreno. Ha piovuto un po’, noi siamo già fradici e la roccia anche. La grande placca è di IV-, III, V-, IV, IV+ e V grado.
Ma oggi non sono evidentemente tanto in forma, mi trovo subito in difficoltà. Sulla traversata di V- mi attacco ai moschettoni e passo in modo orrendo. Non parliamo di Carlo che vi fa un pendolo volontario. Poi all’attacco del tratto di V mi accorgo di non farcela, così sono costretto a scendere ciò che avevo già salito, di IV+, per tornare al terrazzino su cui è Carlo. Prendiamo una via più facile per andare in cima, passa in testa Carlo per abituarsi un po’. Giunti sulla Cresta dei Laghetti, ridiscendiamo. Il tempo minaccia sempre e noi siamo schifati della situazione. Comunque andiamo all’attacco della via del Camino (II, III, IV, III e IV). La facciamo tutta sotto la minaccia del temporale, in cordata alternata. Tra l’altro, a un certo punto, attaccandomi di fretta a un appiglio, tutto il blocco cede e io salto giù per circa 4 metri su un terrazzo erboso cercando nel contempo di evitare il bolide. Mi spello solo un dito. In compenso la fifa è molta e comprendo che bisogna stare più attenti. Arriviamo di nuovo in cima, poi scendiamo alla piccola selletta (Sella di Cresta dei Laghetti) e infine, schifati e nauseati, sotto un’acqua torrenziale ci avviamo verso Arenzano.
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