Metadiario – 111 – Rock Story – 1 (AG 1982-007)
Per il mio nuovo progetto di scrivere Rock Story di certo mi sarei servito delle relazioni di vie che avevo già percorso, come pure delle fotografie che avevo scattato: ma ora si trattava di andare a fare gli itinerari con la coscienza di ciò che stavo facendo, cioè un libro così e così. Avevo chiuso a un’ottantina il numero degli itinerari che avrebbero fatto da sfondo alle avventure romanzate del giovane alpinista Andrea. Nella stessa pagina dovevano trovare spazio la relazione tecnica della via, il disegno, la/e foto, eventuali citazioni di altri autori sul tema dell’arrampicata moderna e degli aspetti ad essa connessi, fotografie di azione e di ambiente in parete. Oltre, naturalmente, al relativo capitolo del romanzo.
Il periodo di meditazione sulla trama del romanzo era stato lungo e anche un po’ tormentato. Già da subito avevo deciso che il racconto si sarebbe dovuto svolgere su due piani abbastanza distinti, quello onirico e quello reale, che poi avrebbero dovuto fondersi in una sola grande realtà “aumentata”. Iniziai a scrivere il racconto con passione, anche perché tutto il resto avrebbe poi dovuto adeguarvisi.
Per la parte tecnica, compilato l’elenco di ciò che avevo e di ciò che mi dovevo procurare, il primo luogo che scelsi a ragion veduta fu la Parete dei Militi, per questioni affettive, nonché storiche. E il caso volle che ci andassi con l’amico Ernestino Fabbri, il mitico “mandrillo” di cui ho già raccontato (vedi il capitolo Via nuova alla Corna di Medale).
L’11 settembre 1982 eravamo alla base della parete. Salii on sight il Diedro Giallo, la bellissima via aperta da Guido Rossa e Giacomo Menegatti il 26 aprile 1953. Ripercorrere le vie di un grande, o comunque di una figura della quale si ha grande rispetto, è sempre grande emozione: e anche in questo caso mi ritrovai ad arrampicare scegliendo con cura gli stessi appigli di cui si era servito Guido, come quando di suo avevo ripetuto d’inverno la via Rossa alla parete nord dell’Uja di Mondrone (Extradiario – 12 – l’invernale alla parete nord dell’Uja di Mondrone).
Pervasi da sacro fuoco, nel pomeriggio salimmo anche la via Boccalatte alla Torre Germana, di fronte alla Parete dei Militi, senza badare all’interminabile ghiaione.
Il giorno dopo fu la volta del Diedro del Terrore, la mitica via di Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi, che tanto mi aveva affascinato per via dei racconti dell’amico Gian Piero. Lo trovammo ben impegnativo: ma probabilmente il discreto numero di ripetizioni era riuscito a far pulizia di tanta roccia friabile, creando un itinerario non proprio di calcare tipo Marmolada ma in ogni caso di qualità abbastanza accettabile.
Rock Story ebbe dunque un ottimo inizio, con due bellissime giornate in ottima compagnia. In seguito fui abbastanza preso dal lavoro, e la prima volta che mi mossi da casa per scalare fu per l’impegno che avevo a Bormio per la continuazione del mio iter da Aspirante a Guida Alpina effettiva. Il 30 settembre eravamo al Passo dello Stelvio con tutto il gruppone di “aggiornandi” e di istruttori. Il tempo era veramente schifoso, la visibilità praticamente nulla. Non nevicava ancora, ma stava per farlo. Ci fu un po’ d’indecisione su cosa fare, ma alla fine ci dividemmo (mi pare) in due gruppi più piccoli e io fui assegnato al raggiungimento del Passo di Tuckett e poi si sarebbe visto cosa ancora. Raggiunto con gli impianti l’Albergo del Livrio, c’inoltrammo nel white out e senza alcuna traccia nella Vedretta del Madaccio legati in cordate. Andavamo avanti sci ai piedi con la bussola, naturalmente gli istruttori non ci davano alcun suggerimento. Tra questi c’era l’amico Tullio Faifer, nativo del luogo, che se la rideva sotto i baffi sperando che andassimo a perderci.
Invece arrivammo alla prima al Passo del Tuckett 3354 m, riconosciuto solo perché oltre alla nostra salita improvvisamente si apriva il baratro di una discesa, quella sulla Val Zebrù. Insomma, che fossimo su un passo era certo, che fosse quello di Tuckett un po’ meno, ma a occhio non poteva essere altro perché, per non sbagliarci, avevamo fatto in modo nella nostra traversata in diagonale della Vedretta di Madaccio di andare ad accostarci al limite orientale di questa, proprio sotto alle rocce della corposa Cresta di Madaccio. Per fare uno spuntino guadagnammo il vicinissimo bivacco Ninotta 3380 m.
A quel punto proseguimmo verso la Cima Tuckett 3482, che doveva essere abbastanza vicina, e infatti lo era. Ogni tanto spiavo le espressioni facciali di Faiffer, per capire se stavamo prendendo granchi o cosa. E in effetti in breve ci trovammo su quella che decisamente era una cima, anche se ora non ricordo se dotata di libriccino di vetta tanto per controllare dove cazzo eravamo.
Lì speravamo fosse dato ordine di tornare indietro e invece si proseguì. Sempre con la bussola scegliemmo la cresta sud-ovest e dunque in breve ci trovammo al Passo di Campo 3346 m. Ormai era purtroppo chiaro il programma di raggiungere la Punta degli Spiriti, quella vicina alle piste alte dello Stelvio. Ma ce n’era ancora parecchia di strada da fare. Dal colle iniziammo a salire verso la Cima di Campo NW 3468 m, con l’intento di scendere subito dopo verso ovest-nord-ovest al Passo degli Spiriti. Nel frattempo cominciò una bufera furiosa. Completamente imbacuccati non ci accorgemmo di aver raggiunto la cima nord-occidentale e perciò proseguimmo verso la più alta Cima di Campo Centrale 3480 m. Pensavamo di essere sulla Cima NW e invece eravamo sulla Centrale. Così quando proseguimmo in quella che credevamo di essere la breve discesa sul Passo degli Spiriti ci trovammo invece in un ambiente esageratamente complesso, dove dovevamo farci sicura, altro che conserva. Il sospetto di esserci persi era forte, non poteva essere di lì. Lo stesso Faifer era perplesso e riconosceva che qualcosa era andato storto. A quel punto, durante le consultazioni, avemmo un colpo di culo: per un attimo la bufera ci lasciò intravvedere dove stavamo andando: sulla cresta delle Cime di Campo, verso la vetta orientale, con sotto il baratro della Val Zebrù.
Tornammo indietro e questa volta volevamo riconoscere la Cima NW, allo scopo di non mancare la sua crestina ovest-nord-ovest. Solo con questa grande attenzione riuscimmo a raggiungere il Passo degli Spiriti 3390 m. A quel punto avevamo fatto l’abitudine alla bufera e sentivamo che non c’erano altre possibilità di errori. Così a passo di carica scavalcammo la Punta Pajer 3446 m e subito dopo l’Anticima Sud della Punta degli Spiriti 3450 m. Da lì, abbandonando la direzione ovest seguita fino a quel momento, puntammo decisamente a nord per raggiungere la Punta degli Spiriti 3467 m. Rimettemmo gli sci che ci eravamo portati in spalla tutta la mattinata e finalmente raggiungemmo le piste della Vedretta Piana e il Passo dello Stelvio.
Il giorno dopo quella sfacchinata, il tempo era ancora più brutto. Dunque ci trasferimmo tutti in Val Masino, al Sasso Remenno, dove con Floriano Lenatti salii la via a destra della normale e la Via del Soccorso.
Dopo la parentesi obbligatoria dell’aggiornamento potei riprendere il mio progetto Rock Story. I due giorni 16 e 17 ottobre li passai con Guido Azzalea, ospite a casa sua ad Aosta (ricordo ancora la figura della sua mamma, una donnina gentilissima e premurosa, non solo verso il figlio): alla Corma di Machaby salimmo lo Spigolo, la Fessura di Victor, Free Volezze, il Diedro Bianco e Patata bollente. Tutte e due le giornate allietate al pomeriggio da abbondanti libagioni e merende presso la locanda del villaggio di Machaby.
Il 29 ottobre mi ritrovai all’Osteria del Medale, perché ero direttore di un breve corso di perfezionamento in arrampicata dell’ARCI. Dopo le chiacchierate teoriche, la mattina del 30 andammo a salire la via Bonatti alla Corna di Medale: con me erano due ragazzi di Savona, uno dei quali, Fulvio Scotto, vidi subito essere molto portato. E infatti Fulvio fece e fa tuttora la sua grande strada in alpinismo, con centinaia di prime ascensioni, anche invernali e solitarie, e come storico. Sono lieto di aver contribuito alla sua formazione. Lui del resto mi adorava, non fosse altro perché ero stato il primo salitore di uno dei suoi miti, la parete nord-est dello Scarason.
Dopo questa parentesi lavorativa, andai ancora in Piemonte per Rock Story. Il 3 novembre 1982 riuscii a combinare un’arrampicata per me di grande significato assieme a Gian Piero Motti e ad Anne-Lise Rochat. L’unione di questi due personaggi non poteva che essere esplosiva per la mia sensibilità. Con il primo ormai da tempo avevo in corso uno scambio di lunghe chiacchierate che ormai da tempo si rivelavano sempre più formative. Parlare con Gian Piero era viaggiare con la mente, era un continuo aprirsi di porte su insondabili misteri e grandiosità del nostro essere. E tornare con lui ad arrampicare, anche se solo per una mattinata, fu lo zenit di ogni possibile emozione. Con la seconda cominciavo a intuire che potesse nascere qualcosa di davvero travolgente. Insomma, una di quelle giornate tra le più “pericolose” della mia vita, dove senti che davvero stai scegliendo il tuo destino e non ne hai paura.
Andammo dunque noi tre alla Parete Nera di Caprie e ripetemmo la via dei Tempi Antichi (che lo stesso Gian Piero aveva aperto assieme a Ugo Manera): fui capocordata a due persone tra le più care che io abbia mai avuto.
Il giorno dopo, infaticabile, avevo appuntamento con gli amici valsusini Franco Salino e Renzo Luzi. Con loro scalammo il bellissimo Pilastro San Marco all’Orrido di Caprie, una via superba in un ambiente davvero selvaggio. Saremmo stati soli se non ci fosse stato, dall’altra parte della profonda gola rocciosa, l’amico Gian Carlo Grassi che apriva un nuovo itinerario con un compagno. Notammo che lo faceva calandosi dall’alto e chiodando a spit “… P’rché or’ mai tuti a fan parèj” (perché ormai tutti fanno così)…
Il 5 novembre andai con Claudio Persico e un giovanissimo amico di Gian Piero, Marco Scolaris, alla Sbarua: dove salimmo l’Integrale al Bimbo e lo Spigolo Bianciotto. Non contenti, Marco ed io proseguimmo ancora sullo Spigolo Ellena e sulla Variante della Vena di Quarzo, sempre esposta e pericolosa come sempre. Il giorno dopo, ancora con Franco Salino all’Orrido di Foresto, a fare due vie belle pepate: la via Ogliengo e la Via del Super Tetto.
Nel weekend del 20 e 21 novembre mi concessi vacanza da Rock Story, quindi andai a Finale Ligure con Giuliana Scaglioni e con Vittorio Neri. Primo giorno a Rocca di Perti, con Convalescent srl, Il Sacrificio e Ombre blu con uscita Due Generazioni; nel secondo, Monte Sordo, Pilastro Franco e Ketty, via Oliva e Placca di Mou (quest’ultima con il solo Vittorio). Sulla Placca di Mou feci conoscenza con il giovanissimo (e già allora ben simpatico e promettente) Roberto Vigiani.
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Una serie infinita di salite e di personaggi che appartengono ai miei riferimenti di quegli anni ma talmente più bravi e visionari da sembrarmi inarrivabili… e in effetti era proprio così.
Tra tutto emergono un’energia inesauribile, una passione quasi messianica e un approccio serio e metodico al proprio “lavoro ”
Bello
Off topoc. Se sei “quel” Valagussa che ha scritto Arrampicate classiche e dimenticate nelle Dolomiti, mi scuso se son fuori tema ma volevo ringraziarti per le splendide salite fatte in tua compagnia.
Per #3: No Carlo non esiste, che sappia io, e sarebbe importante per le nuove generazioni conoscere la storia della evoluzione tecnica e tecnologica. Io ho tentato questa estate in una mostra del CAI nel profondo Nord Veneto ma non è stata minimamente considerata… Hanno apprezzato solo i ragazzini del Camp estivo dimostrando più attenzione degli alpinisti maturi.
Avrei voluto dirlo io.
Ho apprezzato molto l’articolo, perchè, anche se non posso dire di conoscere personalmente i protagonisti (a parte Annelise Rochat) mi sono care molte delle montagne e delle vie descritte (su qualcuna delle più facili ho persino messo le mani; come Pinerolese, infatti, frequanto -ancora, direbbe mia moglie- la Sbarua). Devo constatare, ancora una volta, che come in altri suoi libri, Alessandro è una persona generosa, dato che, oltre a manifestare schiettamente l’affetto per i vecchi amici che hanno arrampicato con lui, non esita di manifestare la sua stima per gli altri alpinisti, quando sono bravi: atteggiamento che non è proprio scontato tra i grandi…e nel quale mi riconosco (si magna licet componere parva, diceva un mio antico maestro). Grazie e (visto che siamo in contesto) vale!
È vero, si leggono sempre volentieri questi stuzzicanti racconti che fan girare il sangue.
A me la foto di un giovane Gogna con già i capelli bianchi ricorda come ci si legava un tempo. Gli “antichi “un nodo in vita e via andare (credo più per tirar su la corda che osare oltre). Poi è venuto lo scomodissimo imbrago completo che tanto mi sentivo sacco di patate ( e mi sembrava sempre di essere al lavoro con l’imbrago SPISAL ancora oggi l’unico riconosciuto). Poi adesso con i nuovi imbraghetti leggeri, comodi, sicuri….ti fan quasi venir voglia di farci un volo!!!! Solo di recente, mi pare, ufficialmente accettato dal C.A.I.
Esiste uno studio sull’evoluzione e la storia degli imbraghi?
Io di loro ho solo letto. Ma questi post ti fanno sognare salite, ti rimettono l’appetito di andare.
Soprattutto, fanno ricordare anche il tuo piccolo.
All’apparenza noiosi, questi racconti sono invece coinvolgenti. Sarà che conosco quasi tutti i protagonisti, ma è così. Grazie.