Su suggerimento di Massimo Silvestri, proponiamo questa intervista del 2014 al grande regista Ermanno Olmi, allora 83enne, scomparso ad Asiago giusto due anni fa il 7 maggio 2018.
La lettura di questo articolo è emblematica della visione che sul tema immigrazione è stata propria di Ermanno Olmi, qui a tutto campo alla vigilia delle elezioni europee del 25 maggio 2014. «Escludere i cosiddetti “straccioni” è incivile, non solo antidemocratico: mortifica la storia… Oggi dire che l’uomo bianco è migliore del nero è una bestemmia». E ai bergamaschi dice: «riscoprite le vostre radici».
Nato a Bergamo il 24 luglio 1931, tra il 1953 e il 1961 Olmi realizza decine di documentari per la Edisonvolta di Milano, dove era stato assunto: in queste opere, in nuce, c’è già tutto il suo cinema. Il suo primo lungometraggio è del 1959, nel 1978 ha vinto la Palma d’Oro a Cannes con L’albero degli zoccoli, nel 2008 ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.
Salviamo l’Europa dalle politiche razziste
Intervista a Ermanno Olmi
di Franco Cattaneo
(pubblicata su L’Eco di Bergamo il 24 maggio 2014)
Ermanno Olmi è in grande forma. Nell’appartamento a Milano sorride e giganteggia con quel fisico severo che si posa con misurata lentezza sul piccolo divano azzurro, mentre la moglie (sempre una presenza più che discreta) rincasa con il giornale in mano. Non gli piace come vanno le cose, ma trova anche motivi di speranza.
Qualche sera fa è stato a parlare di teologia e del cardinal Martini, il che lo ha reso felice, poi è in partenza per la sua Asiago. Sull’Altopiano ha appena finito le riprese di Torneranno i prati. Una faticaccia da pastori lunga sette settimane, lassù in val Formica, a quota 1800, con quattro metri e mezzo di neve che hanno cancellato le trincee.
Esatto, parliamo di trincee della Prima guerra mondiale e in quell’inferno c’era anche papà Olmi. Storia di fantaccini, di povera e brava gente, di uomini orfani della gloria ufficiale e catapultati in tragedie governate dai generaloni, ma per il Maestro anche un ritorno a quando era giovane. Prima Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, il suo grande amico ormai scomparso e dirimpettaio di casa al limitare del bosco, il film che portò Olmi negli anni ’60 a stabilirsi ad Asiago. E poi I recuperanti, la narrazione di quegli ultimi che, dopo la Grande guerra, per sopravvivere rischiavano la vita appunto per recuperare i residuati bellici. Esistenze silenziose e umiliate nel mattatoio trincerato, ordine europeo disintegrato: tutto si lega, dal personale al collettivo. Poi, però, «torneranno i prati», ma sotto cosa troveremo? L’universo simbolico del regista e il suo schema narrativo, ovvio, mica sono la piccola patria alpina ma l’Europa democratica e solidale, l’epopea popolare, oggi minacciata («Guarda cosa oso dire», scandisce, alzando il tono della voce) da «politiche criminali» in chiave razzista.
Un’attualità ruvida che Olmi osserva, dal microcosmo del bosco asiaghese degli urogalli alla metropoli lombarda, con lo stupore e l’innocenza di un bambino, alla maniera della descrizione dell’amatissimo Tolstoj dei Quattro libri di lettura che il regista porta sempre con sé: «Toccasse a me – dice con lo slancio dell’umanista che sa di andare controcorrente rispetto al becerume imperante – proporrei questa raccolta di favole come il testo per formare il cittadino europeo».
Lei è un europeista da sempre: che cosa ci può dire l’intellettuale di oggi?
«È chiaro che l’Europa si deve fare: ce lo chiede la storia, non possiamo fermare i percorsi che la storia stessa sceglie ancor prima di noi. Oggi non è più concepibile nemmeno un’Europa di nazioni, ma deve esserci una sovranazione e in questo caso la parola nazione va virgolettata: indica un’area con gli stessi fini e, tenendo conto dell’esperienza di ciascun Paese, lì dovrebbe nascere un dialogo democratico in un’Europa di uomini per trovare la via migliore nel dare a tutti quel che gli è stato tolto e quindi mettendo in atto un equilibrio di giustizia che non può essere ignorato. In caso contrario, i problemi generati da questa trascuratezza finiscono nelle piazze, con la rivolta di popolo».
In giro, infatti, c’è parecchio malumore.
«C’è chi in Italia, la Lega in primis, pensa a microrealtà dove dentro ci vivono quelli che hanno avuto la pelle marchiata da un sigillo per così dire di autorizzazione e quindi si sentono padroni di quel territorio. Ma nessuno può essere padrone della terra: tutti devono imparare e insegnare, prima di tutto a se stessi, ad essere collaboratori di una terra, una terra intesa come patria».
Lei, quando si riferisce all’Europa che viviamo, parla di una terza fase.
«Sì, l’iniziale è stata quella delle case imperiali che ci ha portato alla Grande guerra, poi il conflitto ideologico con la Seconda guerra mondiale e ora l’Europa dei giorni nostri. Ma c’è chi vorrebbe tenere a bada la storia, anzi di mortificarla con piccole e compatte unità: uno spirito non solo antidemocratico ma incivile, quello di voler tener fuori chi non è ritenuto all’altezza, chi è considerato “straccione”. Voler tornare alla dilatazione del concetto nazione-ideologia genera le differenze razziali. Oggi dire che l’uomo bianco è meglio del nero è una bestemmia: lo è sempre stata, ma ora abbiamo le condizioni per capire che è una bestemmia».
Torniamo al punto di partenza: l’Europa ce la chiede la storia.
«Non si può non prendere atto del momento storico in cui i vecchi assetti stanno scomparendo e altri s’impongono. Io, veramente, qualche volta mi sento imbarazzato nel dichiarare che sono un bergamasco, quando invece Bergamo ha una storia di altissima qualità e di altissima disponibilità ad aprirsi agli altri. Non è vero che il bergamasco è chiuso, diciamo piuttosto che ha un caratterino – e qui sorride in modo candido – con il quale bisogna giustamente dialogare con estrema attenzione. Bergamo è fra le più avanzate in termini di progresso tecnologico e scientifico, riuscendo a mantenere salde le sue radici dentro la terra contadina».
Però oggi l’Europa è diventata una faccenda esclusivamente economica, piuttosto arida.
«Faccio un esempio di come il passato possa essere utile al presente. La Bergamo contadina ci diceva che la civiltà rurale aveva il rispetto della terra, in quanto da lì si generano la vita e quella religiosità di chi ha la consapevolezza di come il miracolo della vita che si rinnova non sia soltanto un discorso affidato alle braccia del contadino ma alle forze della natura. Per questo si ringraziava Dio. Ad un certo momento è stata fatta una scelta fra Dio e mammona, fra poesia ed economia, fra sentimento e opportunismo. Bisogna recuperare il sentimento della realtà, quello dei campi che a primavera vanno in fiore: i nostri contadini dicevano che la “terra va in calore”. Ecco, questo sentimento della realtà lo abbiamo trascurato, anzi calpestato rispetto al valore che abbiamo dato al denaro. Potrei fare una domanda a L’Eco di Bergamo: avete mai fatto un’inchiesta sui sentimenti dei cittadini? Se manca il sentimento, tutto il resto diventa motivo di conflitto. Siamo arrivati a un tale livello di stupidità e di intontimento, perché ci hanno intontito, da pensare che con il denaro si possano comprare pure i sentimenti. Quindi, cari bergamaschi ricordiamoci: basta voltarci indietro un po’ e vedere come eravamo».
Europa, guerra e pace: qual è il messaggio del suo film sulla Grande guerra?
«Insegna che per la prima volta la trincea ha fatto convivere i borghesi e il popolo bue, la carne da macello: hanno dialogato e hanno capito che nessun conflitto può giustificare la morte di un solo individuo».
In quella barbarie c’era pure suo padre.
«Sì, mio padre ferroviere, originario di Rovato e poi trasferito a Bergamo, bersagliere degli Arditi. Ragazzi, magari ingenui, che credevano all’amor patrio e poi traditi: pensa che vergogna questi monumenti che celebrano i generali, questi criminali. La storia non ha ancora fatto atto di pentimento in tal senso».
Il titolo, «Torneranno i prati», vuol dire che a un certo punto ritornerà la vita?
«Diciamo che tornerà la pace. Nel frattempo bisogna capire se fra la tragedia e la nuova esistenza non è cominciata una nuova suddivisione razziale e fra le categorie dei ricchi e dei poveri. Dobbiamo chiederci se sotto i prati, oltre ai morti, non ci saranno per caso fermenti che avvelenano la storia futura. Dobbiamo vigilare tutti, specie nei confronti di chi porta dentro il dialogo democratico motivi razzisti».
Maestro, osservo che nella sua analisi storica lei insiste, parlando dei tempi nostri, di democrazie fasulle.
«Beh, basta vedere quel che succede sul piano giudiziario per capire qual è il tradimento di questa falsa democrazia: c’è l’atto democratico del voto, poi succede quel che succede. Adesso, per restare a noi, c’è questo giovanotto Renzi al quale do il massimo credito, perché quanto meno è venuto a rompere quella situazione stagnante e nauseabonda che per 20 anni ci siamo portati addosso: il signor Berlusconi, infatti, più che un politico è stato il padrone del Paese».
Una domanda che ci riguarda da vicino: il suo stato d’animo dopo la bocciatura di Bergamo capitale europea della cultura?
«Appena finisco tutto il lavoro che devo ancora sbrigare, tornerò a Bergamo perché vorrei con il sindaco, chiunque sarà e nel segno di una collaborazione fra uomini perbene, riprendere questo obiettivo, perché è vero che le giurie erano libere, ma pure la prospettiva che doveva vincere una città del Sud. Ecco, intenderei riallacciarmi a questo discorso per la nostra dignità di bergamaschi: dobbiamo fare della nostra città un luogo esemplare per valore di cultura. Che ci venga riconosciuto o no».