Sardegna, terra di scoperta
di Gianni Battimelli
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 48, gennaio-febbraio 1982)
«È ormai pienamente avviata l’esplorazione dell’isola dal punto di vista alpinistico: si attendono tutte le nuove informazioni per poter aggiornare la situazione (Informazioni alpinistiche, RdM n. 42)».
«Colpisce, nell’arrampicatore, la contraddizione che esiste tra l’ardore del desiderio di contatto con l’elemento naturale e quello con cui si affretta a «culturizzare» questa natura, classificandola, attrezzandola, definendola come percorso, fissandola come tracciato… Si tocca qui la duplice molla dell’alpinista: vincere la natura e offrirla all’uso degli altri, Icaro e Prometeo; conquistare l’inutile e renderlo utilizzabile…
Come spiegare questa fondamentale ambiguità dell’alpinista, quella che consiste nell’essere al tempo stesso uomo d’ordine e avventuriero? (Bernard Francou, Passage n. 4)».
Piove. Il ponte è tutto bagnato. Quel poco che riesco a vedere tirando la testa fuori dal sacco a pelo sono nuvole scure e gonfie d’acqua. Pure, più forte dell’odore della salsedine e della puzza familiare, tipica di tutte le navi, c’è questo inconfondibile profumo che viene dalla terra bagnata, che sa di ginepro, rosmarino e granito, e non ho bisogno di guardare meglio per sapere che sono ancora una volta a Golfo Aranci.
Il caffè, nel bar affollato di gente che cerca di riscuotersi da un sonno poco convinto, ha il solito sapore di plastica, ma fa parte del rituale. Ecco, quello là sotto è l’autobus che mi porterà a Dorgali. Lontano, confuse tra le nuvole nella luce incerta dell’alba, si vedono le pareti di granito della Gallura. Perché non sono mai venuto ad arrampicare in Sardegna?
Le pareti di calcare grigio sono sempre state lì, scoperte e invitanti fin dal primo momento. Ma tra l’urgenza della voglia di toccare la roccia e la spinta a scoprire e capire altri aspetti di questa terra ha sempre prevalso, per lungo tempo, l’idea che le pareti sarebbero sempre rimaste lì, ugualmente intoccate e invitanti, che non ci sarebbe stata competizione, che prolungare il momento di distacco tra desiderio e azione avrebbe permesso di penetrare più a fondo, di capire meglio e, un giorno, di arrampicare con più serenità. Così per molti anni la Sardegna è stata per me altre cose, lunghe giornate vagando per gli altopiani tra Dorgali e Baunei, le grotte e i bivacchi, il gioco delle luci e delle ombre sulla pianura di San Pietro, l’inquietante abisso del Golgo, la scoperta delle sorgenti nelle còdule che portano al mare. E amici, fuochi di ginepro intorno al grande carrubo vicino al pozzo di Cala Sisine, il vino e le risa e l’allegria, e la moto di Giorgio sull’Orientale sarda con le ventate d’aria calda che portano i profumi della primavera. Ogni volta era la scoperta di qualcosa di nuovo, e un rapporto che diventava più ricco e complesso a misura che crescevano, insieme, la familiarità e la soggezione. Le pareti, le conoscevo ormai bene, avevo tracciato le mie vie, pensato i miei movimenti; ma c’era altro da fare. Potevano attendere.
Massimo e Olimpia sono a Dorgali alla fermata dell’autobus. Con la vecchia 500 raggiungiamo il campeggio a Cala Gonone. Dio mio, l’allegria pasquale! Tutto fradicio, l’acqua nella tenda, le pentole sporche sparpagliate intorno, piene di un liquame indefinibile. Fabrizio e Valeria fanno finta di cucinare qualcosa. «Niente Su Gorropu, stavolta, con tutta l’acqua che ci sarà». Ma è Pasqua, messeri, e noi siamo qui per arrampicare. E così ce ne andiamo (cielo nero, mare livido, roccia bagnata) a vagare, sciolti, sulle placche di Serendippo. Eccola, la montagna facile (montagna?…) di chi viene dalla città per qualche giorno a cercare le difficoltà. Ma chi ci vive, in questa terra difficile anche senza costruirsi problemi artificiali? Su queste distese brulle, queste pietraie taglienti, appena di che mantenere qualche capra e qualche porco. Chissà se con questo tempo Salvatore sarà con le bestie al suo cuile, lassù sull’altopiano di San Pietro.
Salvatore Piras, classe 1938, Baunei. In altra Pasqua di qualche anno fa, eravamo appena arrivati e stavamo preparando il campo — un fuoco che stenta ad accendersi, pulire per terra dagli escrementi delle capre, un fornello che scalda la minestra — e sono apparsi sulla soglia della baracca e hanno cominciato a parlare, con l’urgenza e la difficoltà di comunicare di chi vede abitualmente solo pietre e alberi e bestie, e hanno preparato il fuoco, un vero grande falò intorno al quale abbiamo mangiato e bevuto e parlato, del Golgo e della strada per Cala Sisine, noi e Salvatore e l’altro di cui non abbiamo mai saputo il nome. Il giorno dopo, Pasqua non è Pasqua senza l’agnello, e Salvatore ha sgozzato l’agnello pasquale per noi.
Soffrivamo a vedere l’animale che si contorceva negli attimi prima di morire, e i pastori hanno detto qualcosa in sardo, una parola si è capita, «làstima». Làstima vuol dire lacrima, dolore e, ci spiega Salvatore, è il dolore che noi proviamo per la sofferenza dell’animale che lo mantiene in vita più a lungo. Non bisogna soffrire per chi sta morendo, ci spiega, perché questo prolunga la sua agonia, e io non so dove siano le radici remote di questa idea, ma questa immagine di imperturbabilità di fronte alla morte che non è cinismo, làstima e distacco, è sempre rimasta associata alla combinazione di calma e di durezza che per me è la Sardegna.
Non c’è certo làstima oggi, col sole che scalda la roccia e il calcare bianco intorno, solido e tagliente, la corda e gli amici. Massimo ha fatto un bel tiro, sotto, e ora io cerco apposta le difficoltà lungo questa fessura per vedere se riesco a inventare qualcosa di ancora più bello, esco a sinistra nel sole e me ne sto in spaccata a godermi il caldo e la roccia, tra le gambe vedo il casco rosso di Olimpia, ciao Salciccia è bello arrampicare così.
«Andiamo a fare un’altra via?» Ancora l’indecisione, la voglia di toccare di nuovo la roccia e il desiderio di rilassarsi e aspettare. Ma no, oggi è il momento giusto. «Facciamo lo sperone al centro delle placche della Poltrona».
Al momento giusto, la roccia e i movimenti sulla roccia hanno qualcosa di speciale, conoscete quello stato particolare che capita, talvolta, quando gli appigli sembrano aprirsi sotto le dita, la difficoltà è annullata, e tra ideazione e esecuzione non c’è soluzione di continuità ma semplicemente si sale, e non protestare Massimo se sto andando piano su questo tiro, no, non è difficile, ma capisci questo è un po’ un appuntamento lungamente rinviato e non programmato, e l’incontro è infine avvenuto, per caso questo pomeriggio lungo la linea più bella, sullo sperone al centro delle placche della Poltrona.
Un altro giorno, un’altra parete. Questa volta non ci sono le case del paese, in fondo, e il mare, e segni di presenza umana (una cava, una strada) ma, nell’entroterra, verso il Supramonte, solo le rocce e i ginepri e il vento. Abbiamo scelto una linea, sulla parete lungo la valletta, e siamo a una sosta sullo spigolo, Olimpia sonnecchia sdraiata al sole, io filo la corda per Massimo che è da qualche parte là sopra, destra o sinistra, terzo superiore o quinto meno, che importanza ha.
Così, sono finalmente venuto ad arrampicare in Sardegna. La roccia è come sempre in questi giorni, il più bel calcare che abbia mai visto (quante volte me lo sono già detto? In Calanques, in Verdon…). Mi viene in mente che questa zona ha tutte le potenzialità per diventare un centro di arrampicata come il Verdon. Lo desidero? lo so solo che se c’è una parola che mi viene alla mente ora a caratterizzare il mio rapporto con queste rocce e questa terra e il modo con cui vorrei venisse conosciuta, questa parola è rispetto. È ridicolo parlare di rispetto, e non c’è dietro questo solo il malcelato egoismo di chi vuole mantenere per sé (ma è un’illusione) un’esperienza privilegiata? Dillo allora, è questo, alla fine, che ti fa parlare, dietro la falsa modestia, l’esclusiva del possesso? Forse c’è anche qualcosa di simile. Ma questa terra, dietro la scorza dura delle pietre su cui veniamo a cercare il nostro piacere, ha una sua storia e una sua dignità e una sua gente. Non vorrei vederla diventare un circo. «Molla tutto!» «Sveglia Salciccia, si arrampica».
Di ritorno verso Olbia, una trattoria trovata aperta per miracolo, cerchiamo di buttar giù le relazioni delle vie (chissà che fine ha fatto quel foglietto di carta). Il terzo tiro va a destra in un diedro, quarto superiore… Veramente tutto questo non ha senso. C’è una sola ragione per pubblicare da qualche parte le relazioni tecniche delle salite che abbiamo fatto, ed è la piccola vanagloria di vedere il proprio nome nella cronaca alpina (ah, tu sei quello che ha fatto la via tale), e sarebbe ben ipocrita negare che questa sia una spinta significativa. Ma infine, tutto ciò qui sarebbe semplicemente fuori posto. Per chi vuole scoprire e capire e arrampicare sulle pareti di Sardegna c’è veramente una sola relazione tecnica utile: venite, e guardatevi intorno. Le vie, è facile trovarle, e se terrete gli occhi bene aperti troverete anche qualcos’altro.
Qualcosa abbiamo fatto, tanti progetti restano da realizzare. Forse verrà qualcun altro, a fare le grandi vie di Su Gorropu. Torneremo. Saremo i primi, i secondi, i ventesimi… è veramente importante? La sospensione desiderio/atto, progetto/realizzazione, continua. E insieme l’altra, parlare o tacere, mantenere tutto per sé o comunicare ad altri: perché fermarsi da qualche parte a metà?
Come Bernard Francou, anch’io «evitando di rispondere, preferisco pensare all’eroe (il buono) del western, quest’altro colonizzatore, amante e padrone dei grandi spazi, che ama la libertà, è mosso dalla gratuità, l’innocenza, la purezza e il disinteresse, e che allo stesso tempo è al servizio dei giustizieri, massacra i selvaggi, gioca al fuorilegge mentre prepara il terreno alle leggi, ausiliario fedele dell’esercito e amico degli sceriffi; una volta arrivata la legge, con la ferrovia, egli abbandona il paese delle leggi, parte verso il limite della Frontiera, verso le contrade nuove e senza leggi, raggiunge la sua terra d’elezione dove insegue il suo sogno. Ma arriva un momento in cui, fatalmente, non c’è più frontiera da far arretrare…».
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@4. Grazie a te, Marcello. Sono passati più di quarant’anni, ma quel giorno in cui siamo sbucati all’inizio del Doloverre di Surtana e abbiamo visto tutta quella roccia sapendo che forse nessuno ci aveva mai messo le mani, resta tra i momenti più intensi che ho mai provato in giro per montagne. Siamo solo stati fortunati ad avere trent’anni allora, e un mondo intero a portata di mano tutto da “scoprire”. Le virgolette sono d’obbligo, perché naturalmente non abbiamo scoperto niente; è solo il nostro sguardo di “conquistadores” (vedi commento @6). Abbiamo solo cercato di essere un po’ meno “conquistadores”.
Per chi non lo avesse ancora letto e volesse aprire una bella sottile finestra sulla gente sarda e come questa vede i “continentali conquistadores”;
La teologia del cinghiale
di Gesuino Nemus anno 2016
Plurivincitore di premi vari …
L’età che avanza ci porta saggezza.
Forse.
Ero troppo giovane per capire la profondità di articoli come questo quando uscivano e volevo solo sentir parlare di avventura e difficoltà. Ho capito dopo, io che in quella Sardegna sono cresciuto, ma meglio tardi che mai. Grazie.
Hai ragione, ma era troppo forte il fastidio, non ho resistito. Avrei dovuto farlo
E perchè lo dici qui? Togli l’effetto rinfrescante!!
Grazie Gianni per questo rinfrescante racconto, che ci porta lontano dai contorcimenti – mi spiace ma subisco l’effetto di averli appena letti sul blog – di chi trasforma le vittime in carnefici e l’Ucraina fa male a difendersi, quasi che gli ucraini debbano morire perché Zelensky ha la villa a Forte dei Marmi. A chi insulta altrui dandogli del “Vigliacchi e schifosi”, vada un mesto “Penosi”.
Qui non ci si rende conto che il povero popolo russo pagherà per decenni i danni economici provocati dalla follia del suo presidente; e non parliamo nemmeno dei morti