Extradiario – 13 (13-24) – Scarason – 1 (1-3) (AG 1967-002)
(scritto nel giugno 1967 e febbraio 1969)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(4)
Scarason! Nome di leggenda, nome di un altro mondo, dove la parola può assumere i significati più vari. Uno di quei vocaboli che non furono mai annotati su alcun dizionario e per questo non appartiene al mondo moderno. È invece patrimonio dei montanari e dei valligiani, come tanti altri nomi delle montagne delle Alpi Liguri e Marittime. Corborant, Ischiator, Ubac, Tenibres, Enciastraia, Sautron, Gelas, Lorousa, Marguareis… Fa uno strano effetto pronunciare queste parole, e poi pronunciarle ancora, fino a che non si «sente» qualcosa, che giunge da molto lontano e che non parla il nostro linguaggio, ma ci affascina con la semplicità misteriosa delle così antiche: come il silenzio, l’orgoglio, la paura, il vivere quotidiano del pastore, le rocce a picco, il fiorire della primavera e dell’estate, la neve dell’inverno. Tutto è sempre un po’ triste nelle Alpi Marittime. Anche quando i colori sono più belli del consueto, c’è sempre la solitudine e la quieta rassegnazione della gente. Una musica con uno sfondo di rassegnato dolore accompagna le visioni incantevoli di queste valli. Un dolore accettato, intrinseco. Scarason vuol dire “pino nano”. Ecco: ho tradotto e ho distrutto la sua misteriosa meraviglia. Scarason non vuol dire proprio niente. Scarason «è» il pino nano. Ma neanche così va bene, perché si rimane delusi. Non era più bello, prima?
Scarason è una zona, un posto. Pastori, cacciatori avevano notato che in quel posto crescevano delle sterpaglie, un segno di vegetazione, se pur misero, in mezzo al deserto delle Càrsene, un versante tutto a grandi gobboni e profondi avvallamenti, per lo più ricoperti di detriti e lastronate rotte. È un mondo morto, molto simile al Carso. Fenomeni di carsismo dappertutto, pozzi a neve, caverne, doline e fenditure che penetrano profondamente nelle viscere della montagna, grotte con torrenti sotterranei e laghetti; è uno spettacolo strano, un fenomeno estremamente solitario di origine oscura, benché si possa presumere dovuto all’azione combinata della erosione meccanica, glaciale, idraulica e chimica. Avete sentito la scienza? Non ne sa ancora nulla. Cos’è più fertile dell’immaginazione di un popolo semplice? Così prova un primitivo, quando scruta nel buio di un pozzo stretto e profondo e si sente alitare in faccia un vento freddo e umido? Niente, ha paura. Poi si volta attorno e cosa vede? Rocce, sassi, solchi. Terre brutte, scura erba, regno delle streghe. Improvvisamente si accorge che un po’ più in là ci sono dei piccoli arbusti verdi e tenaci. Poi, un orrido precipizio. Pauroso. E passerà alla tradizione come «scarason», il luogo degli alberelli secchi. E le rocce su cui nascono questi alberelli, che a settentrione sono così paurose e buie, Rocche Scarason.
Nel 1940 è giunta l’ora per le Nord. Sandro Comino e Armando Biancardi sono gli artefici di questa rivoluzione. Cadono tutte, o quasi, Nord della Punta Emma, Cima Bozano, Nord direttissima del Marguareis, Tino Prato (con bivacco); anche i colletti tra le varie punte sono meta di vie difficili dal Nord, che verranno superate in seguito da cordate in prevalenza monregalesi; così le pareti nord delle punte meno rilevanti, come la Piero Garelli, la Testa del Duca, la Cima dell’Armusso, il Castello delle Aquile.
Inaugurazione del rifugio Garelli (1969). Il Castello delle Aquile e lo Scarason. Foto: Hacker
Armando Aste porta la tecnica del sesto grado sullo spigolo della Punta Tino Prato, lo spigolo nord, fino allora tentato invano. Ma il sesto grado era già stato raggiunto da Sandro Comino e Armando Biancardi sulla parete nord della Cima Pareto, nel 1940, dove i chiodi per trazione, le staffe, i lanci di corda, gli appigli che si sgretolano, le fessure che «s’avvitano a strapiombo” sono segni inequivocabili di difficoltà d’ordine estremo. Comino tentò la parete nord (per la precisione nord-est) dello Scarason e non fece niente. Qui si chiudeva la storia del Marguareis, con la più bella pagina ancora da scrivere, e Armando Aste rimandò, e così Alberto Marchionni di Torino. E forse altri. Non si sa. Il rifugio è fuori mano. Posti di osservazione non ce n’è. L’unica cosa che si sa è che la parete è ancora inviolata.
Sulla guida del Marguareis di Sandro Comino c’è una foto, in complesso chiara, e in essa si vede bene tutta la parete. Però ci sono molti punti oscuri. Ci sono alcune macchie nere e non si capisce se siano tetti di parecchi metri sporgenti, oppure pendii verticali d’erba. La lente non aiuta molto e anzi confonde ancora più le idee. La guida esce nel giugno 1963. Al centro si vede un’evidente fessura che sale fino a metà e poi si perde. L’altezza della parete è di 400 metri esatti. Sotto di essa pendii di detriti e di roccette molto ripidi, coperti di neve fino a luglio. Sotto questi ancora c’è la valle del torrente che nasce dal Laghetto del Marguareis e che, più in basso, al Pian delle Gorre, si unisce al Pesio. La parete ha una forma molto tozza, somiglia molto a un quadrato.
Marzo 1964. Prendo in mano la Guida del Marguareis. Anche se l’anno prima avevo più volte rischiato la pellaccia sui massi dell’Appennino e nelle varie palestre di arrampicata, mi sento in grado ugualmente di fare grandi progetti. Voglio copiare questa guida, perché non ho i soldi per comperarla. Il Marguareis non gode troppo favore negli ambienti alpinistici, perché è marcio e non c’è niente da fare. E cosa importa? È sempre roba che prima o poi bisognerà andare a vedere. E poi cosa stanno a fare qui queste vie “estremamente difficili” e “molto difficili”? Non se le saranno mica inventate! E questa parete inviolata?
E poi l’anno prima c’ero stato nel Marguareis e avevo salito il Canalone dei Genovesi, e visto pareti bellissime. Una parete inviolata in pieno 1964? La lente, presto!
Mi cadono subito le braccia. È pane troppo duro per i dentini. E poi sono un dritto, ho letto che in montagna bisogna andare per gradi. E non voglio saltarli questi gradi. Il segreto, per far presto, non è buttarsi allo sbaraglio, bruciando le tappe; invece si devono digerire tutte le tappe, ma con la massima velocità. E così l’estate 1964 è passata a fare salite di quarto grado con passaggi di quinto in Dolomiti, non trascurando la tecnica di neve e ghiaccio, e facendo anche tantissime solitarie (per la mancanza di compagni). La prima salita di quinto è del settembre del 1964 sulla Est della Punta Maria, nelle Alpi Marittime.
Il 1965 è tutta una serie di salite di quinto con puntate frequenti ai “sesti”, cosiddetti, che mi affretto a precisare essere salite “ED inf”, estremamente difficile inferiore. Le Grigne mi diventano una palestra abituale e con me sono sempre Gianni e Lino Calcagno. Nel 1966 la Via Buhl alla Roda di Vael corona una bellissima attività precedente. Sono pronto per lo Scarason? Credo di sì.
Dal Gias Sestrera inferiore su parete nord-est dello Scarason (Alpi Liguri)
Superata la barriera psicologica della parete, rimangono però tutti gli ostacoli pratici. Anzitutto il compagno, poi i mezzi, poi il tempo a disposizione. Colgo l’occasione di una gita sociale nel Marguareis, per incaricare Gianfranco Negro e Giuseppe Grisoni di fare alcune fotografie. E’ il 25 settembre.
Nella notte piove a dirotto e il mattino, alle prime luci di fine settembre, la parete si presenta ai due in uno stato decisamente sconfortante. Lavagne nere si alternano a pendii erbosi ripidissimi… strapiombi marci e bagnati, colate d’acqua.
Prendono le foto e vanno anche all’attacco, in esplorazione. Al loro ritorno, Gianfranco è visibilmente impressionato. Per lui è “impossibile”, però “chissà che quei diavoli non ci riescano”. Comunque lui non tornerà più certamente in quei posti.
A novembre c’erano alcune feste, e si poteva già cominciare ad andare a vedere qualche metro. Ma sia il brutto tempo, sia la mancanza di compagni non mi permisero di muovere un passo sulla parete. In compenso ero riuscito a “creare” il problema e a ottenere quindi, come aiuto, i soldi per la fabbricazione di 45 cunei. La parete infatti, a un esame delle fotografie, presentava parecchie fessure e camini, magari strapiombanti, ma pur sempre con la caratteristica necessità di chiodatura “grossa”; 45 cunei erano un bel peso, anche da trasportare all’attacco, ma con l’aiuto di alcuni immaginari portatori che per il loro buon cuore sarebbero intervenuti per darci una mano, le così si sarebbero senz’altro facilitate. Rimaneva sempre però il problema del compagno. I Calcagno non potevano disporre di tanto tempo libero. Ma nell’inverno ci fu la conoscenza con Paolo Armando, di Torino: Dente del Gigante, via Ottoz-Viotto, poi Uja di Mondrone, parete nord, via Chironna-Rossa, ambedue salite in prima ascensione invernale (in seguito scoprii che sulla salita al Dente ci avevano preceduti, NdA), ci affiatano e ci allenano. Certo prevediamo “grandi imprese”, e lo Scarason deve essere la prima.
Che cosa è rimasto oggi per portare più avanti il limite delle umane possibilità sulle Alpi? Pagine e pagine sull’argomento, ma qui basterà solo dire dell’idea con cui Paolo voleva salire lo Scarason. Arrampicare sul “settimo” grado era la sua fissazione, e voleva a tutti i costi vedere se fosse stato possibile arrampicare su difficoltà ancora superiori alle massime, già da tempo riconosciute tali. Non che fosse convinto, voleva solo provare e ci scherzava sopra.
Invece io ero convinto che su quella salita avremmo conosciuto il sesto superiore. Il massimo cioè delle possibilità tecniche in libera e in artificiale. Fino ad allora avevamo fatto salite di sesto inferiore e sesto, e ritenevo che il sesto superiore potesse essere trovato soltanto in una prima ascensione.
Quindi c’era una determinazione: cercare di ottenere il massimo da noi stessi, impegnarci veramente a fondo, su una parete che molto probabilmente lo avrebbe richiesto. C’era la consapevolezza che sarebbe stata dura, molto dura; pericolosa, sfibrante. Partire alla ricerca del “settimo” grado era un sogno troppo bello e l’entusiasmo che dava era pari soltanto alla grandezza del desiderio.
Quando si ha la coscienza di fare qualcosa di veramente grande, non soltanto per noi, ma grande per tutti, la spinta interna aumenta. Ci si vede già con un piede sul punto più alto della vetta e con un sorriso stanco; ci si vede superare con difficoltà tratti “impossibili”, azioni eroiche, fatiche disumane. Il tutto scorre nelle menti come un veloce filmino. Un filmino su cui non c’è la parola fine, perché non tardi ci si ricorda che è tutto soltanto un pio desiderio e che sarebbe meglio moderare la fantasia.
Ma è bello lavorare con essa, lasciarla correre, farsi trascinare; il segreto sta poi nel non chiedersi se mai quelle così diventeranno reali. Sognare ad occhi aperti è una delle debolezze più congenite all’alpinista; sognatore folle, che segue costantemente un folletto inquieto, per creste, canaloni, rocce a picco. Raggiungere il massimo, toccarlo, averne paura: alla conquista del “settimo” grado!
La parete nord-est dello Scarason
Non ricordo più per quale motivo un giorno di fine inverno Paolo viene a trovarmi a Genova. Io lavoravo una volta alla settimana presso un magazzino dalle parti di corso Sardegna (vicino allo stadio di Marassi): mi prendeva una mattinata impegnativa in cui scaricavo, assieme ad altri disperati, un intero Tir di pannelli di panforte, piuttosto che di compensato o di truciolare. In tre o quattro prendevamo con cautela un numero variabile di pannelli (dipendeva dallo spessore e dal peso del singolo) che un robusto manovale in piedi sul camion ci faceva scivolare in mano. A braccia distese e camminando faticosamente di lato per una ventina o trentina di metri portavamo il carico ingombrante (più o meno 3×4 m) fino ad impilarlo dove ci era stato indicato. Il tutto si svolgeva nel silenzio che c’è tra operai che non si conoscono, a parte i “belin” e le madonne quando qualcosa non andava come doveva andare. Non c’era neppure il tempo per il “mugugno”. Il tutto sotto l’occhio vigile che ci pagava a ore e che quindi non transigeva su lentezze e riposi. Al massimo permetteva due pause sigaretta. Così questa volta porto con me Paolo, anche lui ha bisogno di soldi. Naturalmente andiamo a piedi da casa mia: ricordo che Paolo si guardava attorno e vedeva quanto tutti sembrassero assai operosi (bancarelle di un mercato, traffico, donne con le “sporte”, posteggi selvaggi, vociare). Probabilmente fa il raffronto con la sua Torino e a un certo punto se ne esce con quel suo sorrisetto: “Genova ha proprio quell’aria indaffarata tipica delle città che non fanno un cazzo…”. Dopo aver “camallato” il carico di due Tir uno dietro l’altro torniamo stancucci a casa, dove finalmente possiamo mangiare qualcosa e fare gli elenchi delle cose da portare allo Scarason.
Dopo lettere e telefonate finalmente partiamo. Con noi è anche Ilio Pivano, che ci accompagnerà all’attacco e ci aiuterà all’inizio della salita. Ma questo tentativo si arena miseramente ancora prima di scendere dall’automobile. Una bufera di neve ci blocca prima del Pian delle Gorre, e siamo costretti a tornare a San Bartolomeo, dove dormiremo in un fienile.
22 aprile 1967. Il tempo è molto migliorato; e di nuovo Paolo ed io ci troviamo a Mondovì. Con noi è anche Alfredino Marengo, un amico diciannovenne di Paolo. Ridendo e scherzando, alle cinque di sera arriviamo al “Salto” 1184 m, località dove si lascia l’auto per procedere poi a piedi. Il cielo sereno mette di buon umore tutti e così non pensiamo troppo al peso degli zaini, che è veramente fuori dal comune. La parete di qui non si vede ancora. Per Paolo e per Alfredino questa è ancora un mistero; si divertono a sfottermi, dicendomi che in fin dei conti non sarà poi quel gran che, e che senza dubbio non ci sarebbe stato bisogno di tutto quel materiale.
– Vedrete, vedrete! – io ero sicuro di me.
– Ma non sarà mica di più che la mia via alla Parete dei Militi! – diceva Paolo – quella via è marcia e strapiombante; sei voli catastrofici in tre tentativi, e non ho più il coraggio di andarla a fare. E questo qua mi viene a dire del grande problema. Lo so io dov’è il grande problema…
Soffocando un grugnito per il peso oppressivo dello zaino, io non rispondo.
Quando si fa una marcia d’avvicinamento di questo genere, con zaini di 30-35 chili, ognuno è sempre fermamente convinto di avere il peso maggiore. Non crede all’onestà dei compagni e vorrebbe sempre provare, con aria da bilancia imparziale, i pesi degli altri zaini. Quanto poi i giudizi emessi siano oggettivi lo si capisce dal fatto che, per coincidenza, il peso maggiore corrisponde sempre al sacco del giudice. L’altro naturalmente è proprio convinto del contrario; così ambedue propongono di fare uno scambio e, con aria conciliante, ognuno propone di prendere il sacco che ha sulle spalle l’altro. In questi trastulli e giochetti passa il tempo e la fatica si sente meno. C’è poi il fatto che un sacco, anche se più pesante, si porta magari meglio di un altro, perché ha gli spallacci migliori, oppure è meno ingombrante. Anche questi elementi non vengono trascurati dai portatori, i quali anzi prestano molta attenzione a tali finezze, da cui dipende l’arrivare più o meno scoppiati al rifugio.
Camminiamo in una bellissima abetaia, con lo scroscio del torrente vicinissimo. Qualche macchia di neve qua e là cede in seguito il posto a un lenzuolo uniforme. Il sole al tramonto fa risplendere questa valle meravigliosa, la più bella forse delle Alpi Liguri. Le belle giornate invernali rendono questi luoghi incantevoli, ma forse un po’ senza vita, con luce fredda anche se molto luminosa. Ora invece i colori sono caldi e splendenti; si sente che sta arrivando la primavera, con i suoi mille odori di bosco e di prato, che d’inverno scompaiono; poi verrà l’estate, che qui è molto calda e afosa, che distruggerà l’ultima chiazza di neve e riempirà l’atmosfera di insetti e i prati di fiori. Nessuno dei tre pensa a questo; lo si fa sempre dopo, rielaborando quelle sensazioni e quelle visioni che, anche se non propriamente avvertite al momento, rimangono però nell’animo e non occorre sforzarsi troppo per rivivere quei bellissimi momenti.
Momenti in cui il sudore colava giù dalla fronte negli occhi e li faceva bruciare; momenti in cui le spalle facevano male, segate quasi dalle cinghie; però era bello affondare gli scarponi nella neve, sentire il proprio peso; lo scricchiolio delle suole e lo sfregamento di esse sulla neve. Ormai il sole se ne è andato e, anche se l’atmosfera e la luce sono limpidissime, la vita stessa se ne è andata e l’inverno è ancora padrone. Siamo noi gli unici uomini nel raggio di parecchi chilometri; infatti non abbiamo visto tracce sulla neve. Dopo un errore di percorso nell’abetaia, arriviamo al Gias Sottano di Sestrera, una povera casupola, dove i pastori d’estate vivono e il loro bestiame pascola nei dintorni. Non è una grande radura; anzi è un prato ottenuto artificialmente con il taglio di parecchi tronchi, di cui si vedono ancora i resti marciti. C’è una fontana e beviamo.
Gabriele Canu sui primi metri della via Armando-Gogna, 14a ripetizione, 13-14 luglio 2009. Foto: Lorenzo Fanni
Ma la nostra attenzione è tutta per la parete, che ormai si vede, ma non è illuminata. È tetra e opprimente, proprio come l’avevo immaginata. Lo sognavo questo incontro così violento. Lo volevo. Pensavo che sarebbe stato bello vederla così, con le sue tinte più fosche. Quando le ombre salgono dal bosco verso l’alto e tutto sembra diventare del medesimo colore nel silenzio più profondo, le pareti sembrano brutte e cattive. Ma un alpinista le ama, anche se ne ha paura; sente che da esse avrà belle soddisfazioni e grandi avventure; e poi le ama perché il cattivo e il brutto hanno la loro bellezza terribile; la loro grandiosità si esprime con colori sempre diversi, ma è sempre la stessa. Siamo noi che diamo il valore di brutto allo scuro e il valore di bello al chiaro. La nostra sensibilità è fatta in determinato modo, ma non esclude altre sensibilità. Le montagne hanno vita anche per il colore, che cambia continuamente, che sempre aggiunge effetto a effetto. Non ci si stancherebbe di guardarle, se non ci fosse in noi quell’irrequietezza che non ci lascia vivere profondamente mai nulla; noi che, se siamo in un luogo, vorremmo essere in un altro, sempre, continuamente tesi verso qualcosa di diverso da ciò che si è appena raggiunto. Così ci stanchiamo presto di guardare quella macchia grigia e riprendiamo a camminare.
A volte mi dispiace di non saper vivere bene. Vorrei avere la capacità di godere più intensamente ciò che ho di mio e che ho appena raggiunto. Tutto passa così presto davanti a me e dentro di me e non so quanta traccia lasci; credo di non saper vivere il presente e mi consolo pensando che i ricordi sono per me molto importanti e a volte mi stupisco di ricordare qualcosa che non avevo quasi notato sul momento. Ma vedo che anche gli altri sono come me e che l’eccitazione non favorisce certo il godimento dei beni presenti. Ma la molla che abbiamo dentro a parer mio è magnifica; pochi l’hanno così. Nessuno come gli alpinisti è sempre così costantemente teso all’ideale dell’azione; sublime è poi il momento della liberazione: quando la molla è stata a lungo compressa, finalmente si è liberi…
Oltrepassiamo un ponticello di neve e ci troviamo sull’altra riva del torrente. Se prima eravamo molto ciarlieri, ora siamo al contrario taciturni. Sarà forse la differenza d’ambiente e il sole che non c’è più, o forse la maggiore stanchezza. Verso i 1500 metri di quota dovrebbe esserci una malga, addossata a un masso. Troviamo questo, ma non la costruzione, che invece vediamo più distante e più bassa. Entriamo nel Gias Balmass alle ultimissime luci, affondando nella neve. È una misera casetta in muratura, munita di un tavolato con paglia. Ha persino una panchina su cui ci si può sedere, un tavolino su cui far da mangiare.
Accendiamo la candela, e come per incanto l’atmosfera buia e triste scompare per lasciare luogo a una freddolosa intimità. Infatti, fa freddo. Siamo alla fine di aprile, eppure abbiamo freddo. Non abbiamo molta scelta nel prepararci da mangiare. Abbiamo dato la precedenza al materiale di ferro e di corda e ci siamo un po’ dimenticati delle esigenze alimentari. Comunque non andiamo a dormire proprio affamati, anche se poco soddisfatti. Ma c’è l’allegria che rimedia a tutto. Alfredino è proprio in forma e ci fa ridere per parecchio tempo prima di cadere improvvisamente addormentato.
– Già, beato lui. Domani non avrà pensieri come noi. Ma qua, chi è che riesce a dormire?
Ci rigiriamo nei sacchi piuma (vecchi e logori), cercando la posizione giusta.
– Paolo, perché dormi sul fianco sinistro?
– Perché, cosa c’è di male a dormire normalmente sul fianco sinistro?
– Il maschio nel 90 per cento dei casi dorme sul fianco destro, e io, per esempio, non faccio eccezione. Vuol dire che tu hai delle tendenze inconsce…
– Cretino, lasciami dormire, tu e le tue idee…
Ma il tempo passa lentamente e in questa catapecchia il freddo aumenta ancora; abbiamo i piedi gelidi, mentre Alfredino ci offre uno sconcio spettacolo di menefreghismo con uno spettacoloso russare. Alle 3.45 non ne posso più e sveglio Alfredino. Per Paolo non ce n’è bisogno. Bene o male un po’ di tepore il sacco ce lo aveva dato e adesso fuori è un dramma. Sentiamo il freddo invaderci a poco a poco e scacciare quel poco calore che ci aveva tenuto compagnia per tutta la notte. Fuori è ancora notte e il freddo ancora più intenso. Verremo poi a sapere che in tutta Italia c’è stata un’ondata di bassa temperatura con punte veramente rigide. Però il tempo è bellissimo. La colazione si riduce a quattro svogliati bocconi di marmellata gelida, con quattro sorsate di tè tepidiccio molto zuccherato.
Ci avviamo silenziosamente sulla neve durissima, superando dei bellissimi gobboni sul fondo valle, fino a che puntiamo direttamente verso l’alto. La neve dura ci dà il piacere di risalire e ci fa dimenticare di avere zaini molto pesanti. Andiamo incontro al sole, che già indora la parte alta della parete e la conca sottostante. Arrivati sull’orlo inferiore della conca, possiamo vederla bene. È proprio bella e affascinante e Paolo non parla più di Parete dei Militi. 400 metri, rispetto alle grandi pareti di 1000, possono sembrare pochi, ma a nostro avviso presentano un tale concentrato di difficoltà, difficilmente riscontrabile altrove.
L’impressione che la parete ci voglia cadere addosso è qui vera più che mai. La repulsione che ispirano quelle placche gialle e nere, quelle strisce, quelle chiazze d’erba verticali, ci fa pensare e ci fa vedere la parete con grande rispetto e timore. Cerchiamo di carpirle il segreto, cerchiamo di indovinare come si possa passare nel modo più intelligente.
Si riuscirà a passare?
La parete presenta due grandi sistemi di fessure. Il primo, al centro, prosegue con discontinuità fino a metà parete. Per esso si svolsero tutti i precedenti tentativi. Il secondo più a destra, all’inizio fortemente strapiombante, però continuo fino all’uscita in cresta. Certo la soluzione ideale era passare per le fessure centrali, ma arrivati a metà che cosa avremmo potuto fare, senza voler fare uso dei chiodi a pressione? E anche con i chiodi a pressione chi ci garantiva di trovare roccia adatta? Si potevano benissimo trovare delle zone talmente marce, che il piantarvi i nostri chiodini a pressione non sarebbe servito a niente. Il che dimostra forse che con il chiodo a espansione la parola «impossibile» non è stata ancora cancellata.
Lorenzo Fanni sul traverso a sinistra della prima lunghezza. Telefoto: Gabriele Canu
Decidiamo quindi di attaccare 90-100 m a destra, ma anche qui i punti interrogativi sono tanti. Dapprima la fessura, strapiombando, obliqua a sinistra per circa 180 metri, poi a destra per altri 200 metri, e infine prosegue verticalmente per 100 metri fino in cresta. Molte sono le interruzioni, gli strapiombi dall’aria impossibile, i collegamenti problematici. Il colore è poco rassicurante; placche compatte si alternano a tratti orrendamente sfasciati.
Mentre camminiamo con il naso all’insù, attraversiamo la conca e risaliamo il pendio di neve dura, a 40° gradi, che porta all’inizio delle rocce. Quando già pensiamo di dover far sicurezza in pieno pendio al primo che sarebbe salito in parete, vediamo alla base di essa una bellissima terrazzetta nevosa, larga anche tre metri, sotto l’enorme strapiombo che costituisce l’attacco. Se non altro staremo comodi e potremo manovrare bene le corde e il materiale. Ma la nostra baldanza scompare subito dopo aver dato un rapido sguardo alla fessura d’attacco: su quindici metri strapiomba di quattro; è larga da dieci centimetri a un metro, ed è tutta piena di sassi in bilico e incastrati uno con l’altro.
Mai abbiamo visto una costruzione così in montagna. Non ci è stato mai dato di vedere un equilibrio così instabile, un così evidente pericolo, una sfida così provocante al nostro buon senso. Se si togliesse un sasso, crollerebbe tutto; una frana grandiosa, che ci travolgerebbe in pieno. Se si piantasse lì in mezzo un solo chiodo, si correrebbe lo stesso pericolo. Il colore giallastro dei sassi e rossiccio delle labbra della fessura ci fanno ribrezzo. Non ce la sentiamo di attaccare; io ho paura a guardare quella trappola. Ho paura di cercare il modo di evitarla. Svuotiamo gli zaini con poca convinzione. Sinceramente io ero più ottimista nel giudicare; e pensavo di essere già molto pessimista… Siamo rimasti di sasso, la parete ci ha immobilizzati subito. Quella fessura era disumana, inaffrontabile.
Il primo a riprendersi è Paolo. A destra della fessura vede un diedro, che s’innalza obliquamente a destra, per poi perdersi in alto, sotto enormi soffitti e lavagne nere. Si potrebbe fare una quindicina di metri nel diedro, traversare a sinistra e ricongiungersi alla fessura, dove questa perde le sue così vistose caratteristiche da brivido. Ma la traversata è pressoché impossibile. Di qui non si scorge alcuna fessura e in libera non se ne può neppure parlare. Anzi Alfredino e io ci diciamo alquanto scettici, mentre Paolo comincia a legarsi con quel suo caratteristico sorrisetto da prete, che sembra dire: “Vedrete, vedrete, il grande Armando all’opera”. Il grande “pilastro dall’alpinismo mondiale” si muove e il primo passo è già salato; è buffa la scena. Vedere un ammasso di chiodi e moschettoni tintinnanti che si trascina dietro tre corde. I primi movimenti sono impacciati, si deve arrampicare sul lato destro del diedro, quindi su placca. Subito però si scopre che bisogna già usare i chiodi, altrimenti non si può progredire. Il primo chiodo, piantato a tre metri dalla neve, dà il segnale del vero inizio della lotta. Ora il sole ci scalda bene e tutto è ben illuminato. A noi sembra di assistere a una prodezza, come a volte succede in qualche palestra, quando uno dice: “Eppure quel passaggio si può fare!”. E dopo infiniti tentativi, ecco che il passaggio è fatto. Tutti ammirano chi è riuscito, qualcuno tenta di ripetere la prova… e il pomeriggio passa, tra le risate e i progetti per l’indomani.
Qua lo stesso. Nessuno pensa che dopo i primi venti metri ce ne sono altri 380 di dislivello, 460 di sviluppo. Tutti pensano a quei venti metri, quasi che dopo non ci fosse altro che la sommità del masso e un albero per la corda doppia.
Alpi Liguri, panorama dai pressi di Castel Frippi sul Passo Scàrason e sul Marguareis
Paolo intanto, dopo il primo chiodo, fa un bel passaggio sulla placca e si alza di altri cinque metri. Due chiodi uno dopo l’altro, con staffe, danno il segnale che il diedro sta diventando cattivo. Siamo al dunque. Domando ansiosamente a Paolo se pensa che si potrà passare.
– Mah, io penso di sì.
– E dopo com’è?
– Dopo? Ah, IV e V.
Del suo IV e V ho poca fiducia, perché per vederlo devo storcere il capo in maniera assai poco simpatica. Paolo è in piedi sulla placca e sta trafficando con le mani sulla faccia sinistra del diedro, che dovrà attraversare per cercare di collegare il diedro con la fessura famosa.
Gli mandiamo su dei chiodi con la terza corda e col cuore in gola seguiamo la manovra. Riuscirà a passare o dovremo tornare subito con le pive nel sacco? Il chiodo entra, molto faticosamente, nella roccia e Paolo vi si appende con tutto il suo peso. Il passaggio è molto brusco, infatti ora si trova in pieno strapiombo e in traversata. Dicono che l’arrampicata artificiale sia meccanica e quindi facile. Per me non v’è niente di più sbagliato. E come prova io farei vedere a quelle persone come arrampica Paolo in artificiale.
Con finezza e tocchi da maestro, senza peraltro usare nessun preziosismo (chi più nemico di Paolo dell’eleganza?), vediamo il suo corpo, non più caracollante e goffo come prima, bensì felino e padrone perfetto del movimento, stendersi in delicatissimo equilibrio verso sinistra. Nessuno si accorgerebbe dello sforzo che fanno i piedi per mantenere la posizione verticale. Ma quello che Paolo sta facendo adesso è contro tutti gli equilibri, è vera dimostrazione di bravura e di ardire. Miracolosamente per noi, un altro chiodo entra dentro, a furia di martellate. È veramente incredibile; io avrei proprio detto che di lì non saremmo mai passati. Dopo aver messo la staffa, Paolo vi sale con precauzione; e ricomincia il faticoso lavoro di chiodatura. Ora è ancora più in posizione strapiombante, pianta altri due o tre chiodi in posizioni inverosimili, su roccia friabile. Lo sentiamo ansare dicendo che aveva raggiunto la zona di arrampicata libera. Sale sull’ultimo gradino della staffa, cerca di fare il passaggio ma rinuncia, perché si sente stanco. Gli diciamo di scendere, e così molto attentamente ritorna indietro. Quando arriva all’inizio della traversata, lo caliamo giù di peso, sui due ultimi chiodi della placca. È raro che gli faccia i complimenti, perché spessissimo li sottintendo. Ma questa volta, glieli devo proprio fare, perché è passato dove io forse mi sarei perso d’animo.
Dopo avergli espresso i miei dubbi sul suo IV e V, mi lego e, aiutato dalle corde, risalgo al punto massimo da lui raggiunto. È un lavoro formidabile, da maestro. Qui veramente non vi può essere nessun meccanismo, ma tutto intuito. Paolo ha trovato fessure là dove fessure non se ne vedevano, ha piantato chiodi lontanissimi… Alla meno peggio comunque arrivo a mettere il piede nell’ultimo gradino della staffa come aveva fatto lui. IV e V? Ci vuole un bel coraggio! Davanti a me c’è una zona arrampicatile sì, ma si vede subito che è all’estremo della difficoltà. Comunque, cerco di togliere il piede dalla staffa, aiutandomi con una specie di cengetta spiovente per le mani, su cui, prevedo, dovrò mettere anche le ginocchia. Ma sento che se facessi un movimento di più volerei, perciò non mi arrischio e cerco disperatamente, mentre le mani cominciano a tremarmi, il gradino della staffa. Finalmente lo trovo, e mentre vi introduco lo scarpone, sento un rumore di sassi che cadono. Li ha smossi il mio piede mentre cercavo il gradino. Sotto non si riparano neanche, tanto c’è lo strapiombo. La roccia qui diventa decisamente friabile. Se prima lo era già, però ci si attaccava ai chiodi, ora ci si deve attaccare agli appigli che si staccano, e la musica cambia.
Gabriele Canu all’inizio della seconda lunghezza della via Armando-Gogna alla parete nord-est dello Scarason. Foto: Lorenzo Fanni
Comincio a stancarmi di essere sull’ultimo gradino; d’altronde se metto il piede in quello di sotto mi stancherei ancora di più per via dello strapiombo eccessivo. Il piede comincia a tremare e dalla fronte calano gocce di sudore; ho anche parecchia sete. Bisogna mettere un altro chiodo; questo passo lo potrei fare anche in libera, ma dopo rimarrei incrodato, senza la possibilità di muovere né le mani né i piedi. Affannosamente metto un chiodo in una fessura. Non tiene niente, però mi può aiutare a fare il passaggio. Devo stare attento a sollecitarlo in una sola direzione, senza sbagliare di un solo grado l’angolazione, altrimenti esce e io vado giù. E se vado giù, chissà se tengono i chiodi di Paolo. Meglio non tentare e così provo a tirare il chiodo sempre nella stessa direzione. Fatto il passaggio proprio con il cuore in gola, mi trovo con i piedi su appoggi semoventi: mi fanno l’effetto di tegole di un tetto che stiano per scivolarmi di sotto. È una brutta sensazione, favorevole a un’unica cosa: il tremolio dei piedi. Ci manca anche questa! Eppure sono abbastanza allenato. Faccio uno sforzo di volontà per far cessare quel movimento che a poco a poco mi butterebbe di sotto. Cerco di piantare un chiodo, ma tutto è mobile, la roccia non tiene. Ho le mani distese sopra la testa e sento che sto per volare. Maledico il momento in cui ho voluto cacciarmi in questo pasticcio, in questo IV e V. Mezzo metro sopra di me c’è una cengetta orrenda (su cui non si può stare in piedi perché la parete strapiomba al di sopra). Devo raggiungerla, almeno con le mani. Poi vedrò di chiodare. Qui la posizione tra un po’ non la sostengo più. Il passaggio che segue è di quelli che poi si portano ad esempio nelle disquisizioni accademiche sul VI grado. Ho raggiunto con le palme delle mani aperte la cengetta con la speranza che ci sia un appiglio, anche friabile. Non c’è niente. Solo roccia liscia e terriccio. I piedi per fortuna non mi tremano più, ma non posso alzarli per riuscire a vedere se sulla cengetta ci sia qualche fessura. Col tatto cerco di sentire qualche incrinatura, qualche solco, qualche buco. Le mani mi si stanno stancando. Mi apro in spaccata e nel fare questo movimento cadono altre pietre dabbasso. Una volontà ostinata mi sta sorreggendo. Non voglio volare, e non posso tornare indietro, o per lo meno sarebbe un’impresa disperata. Raccolgo le forze e mi alzo sulle mani, trascinando i piedi inutili sulla parete. Cadono pietre di sotto. Mi pare vagamente che mi chiamino, ma non rispondo. Appena vedo la superficie della cengetta mi spavento, perché non c’è assolutamente la più piccola fessura. C’è un appiglio friabile, che io afferro in extremis e che mi permette di spostare i piedi un po’ sulla sinistra, su appoggi friabilissimi. Non mi fido a spostare il peso su essi e sono sempre su una mano. Di chiodare non se ne parla neppure, perché non riuscirei a tenere in mano il martello, che, anzi, mi sta pendendo tra le gambe e mi dà molto fastidio. Sposto il peso sul piede sinistro trattenendo il respiro; mi si sgretola in mano l’appiglio precedente: ho un attimo di smarrimento perché l’equilibrio è compromesso. Riesco a rimanere lì appiccicato. Sulla sinistra scorgo una specie di rampa erbosa, distante da me quattro metri.
Non riesco a disincagliarmi da questa posizione e ho la gola che mi brucia. Poi riesco a muovermi e traverso. Qui è tutto sesto, tutto al limite, tutto terribile. Sento un vago senso di malessere. Sono ben lontano dall’esaltazione che certa letteratura alpinistica attribuisce a chi sta facendo qualcosa di stupendo e sta rischiando il massimo. Cerco solo di raggiungere la rampa, in cui, penso, potrò piantare i chiodi nell’erba. Molto lentamente la raggiungo, ma subito mi aspetta una delusione; è ripidissima e spiovente; lo strato di terra sarà al massimo 5-6 cm. Impossibile sostare prima, perciò ci salgo sopra e subito mi trovo in posizione assurda. Accucciato, con i piedi che stanno per scivolare e con le dita aggrappate a ciuffi d’erba. Sento che sto ancora per volare. Questa volta sarebbe una tragedia. L’ultimo chiodo è a sette metri e non mi terrebbe certamente. Il primo chiodo un po’ decente è a dieci metri. Pendolando la corda mi farebbe crollare addosso una quantità di sassi. Urge piantare un chiodo. Facendo uno sforzo per resistere in qualche modo alla forza di gravità, metto il chiodo adatto a una fessura molto brutta e inutile. L’ancoraggio che ne risulta è l’esempio del chiodo “morale”. Ma la storia è troppo vecchia: troppi chiodi morali non sono serviti a nulla. Comunque almeno un dito nel moschettone ce lo posso mettere. Mi raddrizzo un poco e posso alzare la testa. Penosamente mi isso in cima alla rampa. Mi sta reggendo un appoggio per il piede sinistro di due centimetri quadrati. Le mani fanno attrito, completamente aperte, sulla parete liscia e friabile. Sono già esaurito ora e se potessi tornerei a casa. Ma sono qui, in posizione critica con i chiodi distantissimi. Tenendomi con la mano destra a una piccola scaglietta friabile, pressoché invisibile, riesco a mettere un extra-plat da 350 lire in una fessurina verticale. Il suono non è cattivo, ma la lama è troppo corta perché mi possa fidare. Ma almeno adesso ho qualcosa cui appoggiarmi. La mano destra sul chiodo, sollecitandolo verso sinistra, sono in posizione pressoché orizzontale con il corpo. Solo le gambe sono ancora verticali. Trovo un buchino, che mi sembra più profondo di quello che si direbbe. Infatti vi metto, con la sinistra, un chiodo grosso e lungo, su cui mi posso abbandonare completamente, distrutto dalla fatica e dalla tensione. Resto lì qualche minuto, incapace di pensare, contento solo di non essere volato. Guardo di sopra: sono sotto un enorme balcone staccato. Tra la parete e questo, una bellissima fessura da cunei m’invita. Ma l’idea d’instabilità è tremenda. Se io piantassi un solo cuneo, cadrebbe tutto. È un blocco di almeno dieci metri cubi. Una sensazione di rabbia m’invade. Come, sono arrivato fin qui; poco fa la prima cosa che avrei fatto, avendone la possibilità, sarei sceso in corda doppia: e ora che sono qui, saldamente ancorato a questo ottimo chiodo… Però lì a sinistra c’è una fessurina… ma no, è cieca! Però, e se… L’unica è tentare. Mi isso sulla staffa. Trovo un altro buco, un altro chiodo uguale al primo va a tenergli compagnia. Sono proprio sotto al balcone, su un placcone giallo e verticale. A sinistra, sotto, sopra e a destra tutto strapiomba. Proseguo sulla fessurina: non ho la classe di Paolo, ma qui lo vorrei proprio vedere, penso. Tutto si sgretola e i chiodi non entrano. Dopo innumerevoli tentativi ne metto uno passabile. Mi trovo completamente in strapiombo e le corde cominciano a scorrere male. Mi manca un metro e mezzo all’uscita dallo strapiombo, chiuso da ciuffi d’erba e terra aggettanti nel vuoto. E sopra cosa ci sarà? Non riesco a vedere niente. Cerco di gravare il meno possibile sul chiodo, ma non posso farci niente: ci sono sopra tutti i miei 70 chili. Chiedo dal basso altri chiodi, con voce atona. Dopo un po’ mi arrivano, ma non mi vanno. Ne prendo uno sottile e poco flessibile. Impiego dieci minuti a piantarlo, dopo avergli cambiato posizione tante volte. Poi ci salgo sopra dicendo agli amici di stare molto attenti. Con le mani sono alla terra e all’erba, che mi butta in fuori e mi riempie gli occhi di polvere. Attaccato all’erba, con il corpo completamente in strapiombo, salgo sull’ultimo gradino. Sopra c’è una specie di terrazzino, su cui potrei anche stare in piedi. Provo a passare in libera, ma è una pazzia abbandonare la staffa: cadrei di sicuro. Raccogliendo le ormai ultimissime forze, cerco di piantare un chiodo sul terrazzino, ma le forze mi mancano e non riesco a metterlo bene. Mi devo tenere solo con la sinistra e non ce la faccio più. Stringendo i denti, lascio la staffa e di scatto mi trovo sopra. Sto tremando. Ma sopra c’è un posto migliore, qui si sta appena sulle punte dei piedi. Dopo tre o quattro metri arrivo a un discreto terrazzino, dove pianto due solidi chiodi. Sono ormai nella fessura che abbiamo evitato all’attacco. Mi rimangono cinque metri per raggiungere una nicchia, dove potrò sostare. Qui l’arrampicata è uno strano misto di delicatezza e brutalità. Appigli e appoggi semoventi, radici, terra, erba, strapiombi. Arrivo in nicchia. Non c’è posto per fermarsi. Almeno così mi sembra. Pianto tre chiodi e metto delle staffe. Sono all’ombra, ormai.
– Sono arrivato! – urlo.
Sotto si erano pressoché addormentati, prima al sole, poi all’ombra; e l’entusiasmo è assai scarso. Recupero lo zaino, con la terza corda, e faccio molta fatica. Paolo fa i preparativi e poi parte. Quando gli si presentano davanti quegli otto metri senza un chiodo, io credo non impallidisca unicamente perché ha ancora fiducia nel suo IV e V. C’è un po’ d’artificiale? Ah, quello non mi preoccupa. C’è un po’ di libera? Sì, sì, ma oggi senz’altro Sandro non è molto in forma.
Dalle sue esclamazione di terrore, capisco che dev’essere duro. Io mi ci sono trovato a poco a poco, ho anche avuto modo di pregustarmelo l’episodio. Ma lui ci si è trovato improvvisamente lì in mezzo, con piedi e mani che scivolano… È disumano quel traverso, non c’è stato mai nulla di simile per me. Comincia a capire tutto il tempo che ho impiegato. Sono le 13.13, infatti, ed ero partito alle 9,30. Comincia a vivere “l’ambiente Scarason”. E pensare che attorno a noi è tutto così bello: la valle, la neve, le cime più miti che ci stanno di fronte, le belle pareti nord del Castello delle Aquile e del Marguareis! Arriva all’extra-plat. Pur allungandosi, non riesce a raggiungerlo e non comprende come ho fatto a piantarlo. Ci si getta sopra e da esso direttamente al chiodo buono. Poi lo strapiombo…
– Ma qui i chiodi si staccano…!
– Ma dài, che sei il dio dell’artificiale!
– Tieni, tieni!
Quando Paolo arriva allo strapiombo d’erba, sento annaspare e scalciare. Imprecazioni soffocate, ma la staffa è ricuperata; non capisce come abbia fatto io a passare; mi raggiunge. Sotto, Alfredino è allibito. Prima tutto silenzio, ora la tragedia è scoppiata improvvisa. Forse temendo di vedersi arrivare in testa i due alpinisti, ci saluta e se ne va, non prima di averci mandato su il saccone.
Coscientemente decretiamo di proseguire questa salita sulla parete che qualcuno di mia conoscenza ha soprannominato “Il cimitero dei Kamikazen”. Il che è tutto dire. Sono le 14 e Paolo comincia a chiodare sulla sinistra, per uscire dalla nicchia; una parete sfasciatissima, con blocchi che basterebbe toccare per farli uscire dal loro instabile alveolo. Con la schiena scontra alcune lastre che mi cadono addosso; le evito e le prendo in pieno. Ma niente di male. Il lavoro prosegue accanitamente. Subito scompare dalla mia vista e il picchiettio del martello o mi tiene compagnia per un bel pezzo.
Si tratta di parete con fessurine e buchetti distanti tra di loro. Ma la roccia è in complesso salda e non c’è molto pericolo. Con la terza corda gli passo sempre del materiale e lui pian piano prosegue. Sono le 17.15 e si sarà alzato di circa dodici metri. Scende in staffe e piazziamo la corda di discesa. Ci caliamo in corda doppia e pendoliamo fino alla terrazza di neve. Domani risaliremo la corda, che lasceremo qui, fissa.
Lasciamo qui tutto il materiale e scendiamo per il pendio di neve. Arrivati alla conca ci voltiamo spesso per vedere la parete. I risultati di oggi sono assai scarsi. Scendiamo giù alla nostra baita. Fa molto freddo e non mangiamo neppure tanto d’appetito.
– Questo Scarason, se continua così, sarà la mia salita più difficile.
– Ah, senz’altro anche per me.
E così con discorsi laconici di questo tipo, ce ne andiamo a dormire. Senza quel trombone di Alfredino e con una stanchezza tremenda addosso, ci troviamo benissimo.
(continua)
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grazie per le tue considerazioni … sono stato 2 volte sotto lo SCARASON essendo piemontese di Torino e mai visto dal vero la RODA di VAEL…lo Scarason era una salita chiaramente fuori dalla mia portata….io come max ho salito la via Gagliardone quella del 1941 sul Torrione di Saint Robert al Viso…come terzo di cordata..poi mi sono dedicato alle ” rocche di Tufo ” esistenti nel Roero.regione compresa fra Bra e il corso del Tanaro .non so se le conosci .dove ho vissuto la fanciullezza con i nonni paterni…simili anche se di ridotte dimensioni rispetto delle guglie della Monument Valley dell’Utha..pero’ con rischio di minore tenuta delle pareti….iera gia’ un poc fol..ero gia’ a quei tempi un po svitato ..un caro saluto Giancarlo
Caro Giancarlo, come dice Benassi, siamo su due piani più che diversi direi opposti. La salita di Maestri fu il culmine di un periodo, quello delle vie direttissime, che ritenevano “estetico” salire per la linea direttissima senza badare a quanti chiodi a pressione fossero necessari. Anzi più se ne usavano, più tempo ci voleva a terminare l’ascensione, come se la sua maggiore o minore durata ne determinasse il “successo” mediatico. Sia detto senza demonizzare nessuno, i tempi erano quelli. Sullo Scarason c’è stato il rifiuto di tutto questo, con la pervicace volontà di non usare alcun chiodo a pressione.
secondo me non c’è il minimo “incontro” tra le due vie. Siamo su due orizzonti completamente diversi.
Alessandro Gogna..UN ALPINISMO DI RICERCA –Uno dei primi libri di montagna che ho letto a meta’ anni 70..e li incontrai lo Scarason—con la via Gogna-Armando del 67–essendo un fan di Cesare Maestri–cercai di comparare la vs. salita con la” sua ” di pochi anni prima prima alla Roda di Vael dedicata a Toni Egger scomparso nella famosa salita al Torre del 59–possono esserci analogie..Lui fece grande uso di chiodi ad espansione..nella vs. relazione se non ricordo male non vi e’ menzione..sono nel giusto paragonando le 2 salite ?mi farebbe piacere un Tuo pensiero…un caro saluto Giancarlo
concordo con Andrea… avrei preferito uscire direttamente oggi piuttosto che bivaccare in attesa del proseguimento del racconto…
a me sinceramente istiga. Sarà che siamo abituati a certe… vie apuane.
Già l’estate scorsa mi era venuta in mente. Per la prossima estate è un’idea. Qualche ripetizione l’ha avuta e avranno fatto un pò di pulizia oltre a mettere qualche buon chiodo.
Forse più che altro terrorizzante… non credo che faccia venir voglia di ripetere qull’exploit! Magari oggi le condizionio saranno migliorate per via delle nuove protezioni, ma evidentemente la cilindrata del motore deve essere quella giusta.
Un racconto molto appassionante, mi sudano le mani solo a leggerlo… E molto bella la parte introspettiva iniziale!