Extradiario – 15 – Scarason – 3

Extradiario – 15 (15-24)  – Scarason – 3 (3-3) (AG 1967-003)
(scritto nel giugno 1967 e febbraio 1969)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(4)

Ancora una volta te­miamo di non passare e per la prima volta vedo nell’immagina­zione due corpi legati alle stesse corde precipitare nel vuoto, strappando via tutti i chiodi. Per fortuna le immagini terrifi­canti non mi tormentano molto spesso, altrimenti rinuncerei a molte cose. Spesso, anzi spessissimo, ho la percezione netta del pericolo e, in base a questa, mi sforzo di attuare tutte le misure che mi permetteranno di evitare quello o quei pericoli. La paura vera, o terrore, subentra sempre quando si collegano in me il mio personale istinto di conservazione, di cui in ve­rità non ho ancora avuto modo di sperimentare la tenacia e che però, presumibilmente, dovrebbe essere piuttosto spiccato, visto il comportamento mio in certi momenti isolati, e la percezione del pericolo. Quando cioè sento che il pericolo non è più sol­tanto avvertito, ma ha afferrato, ha conquistato l’istinto di con­servazione e la volontà di vita e di riuscita. Il terrore è dato quindi dal mio rendermi conto che non ho più mezzi di difesa validi e con probabilità di riuscita, e dell’immediatamente suc­cessiva lotta per ristabilire l’equilibrio scosso. Il vedere quindi le due figure che precipitano nel vuoto non mi ha colpito mi­nimamente perché non le ho collegate a noi. Mi hanno sempli­cemente avvertito che bisognava, occorreva stare attenti ai chiodi.

La tensione continua. Paolo non sa su che chiodi appen­dere le staffe e d’altronde appenderle al cordino non lo aiute­rebbe molto in altezza. La lentezza dei movimenti, il continuo succedersi dei soprassalti per ogni rumorino sospetto, ogni gesto compiuto con precedente deglutizione di saliva e la consta­tazione di non progredire d’un centimetro. È un’ora che siamo così, in questa posizione, lui un metro e mezzo più alto di me. Sale sull’ultimo gradino, e si sposta nello stesso tempo, con il corpo, a destra. Il chiodo oscilla, eppure l’aveva più volte so­stituito per cercare di metterlo nel miglior modo possibile. Le mani frugano su un piccolo balconcino terroso, che non si ca­pisce se possa reggere o no il peso d’un uomo. Questa è lotta pura, senza barare con mezzi artificiali, l’eterno misurarsi del­l’uomo con la natura, dove giocano, in un precipitoso e frenetico alternarsi, conservazione e orgoglio. Ma nel momento preciso in cui l’uomo, dopo i tentativi e le riflessioni, attacca risolu­tamente, quando ormai l’istinto di conservazione non spinge più verso il basso, perché l’orgoglio lo ha convinto che la sal­vezza è verso l’alto, istinto che può tacere per un attimo prima dell’attacco, per riprendere immediatamente a far sentire ancora più forte la sua voce appena il corpo sarà a metà passaggio ed occorrerà la fusione completa dei due fattori (uscire per sal­varsi e uscire per vincere), allora non vi sarà più lotta interiore, ma solo vittoria, solo affermazione magnifica della volontà co­sciente.

La parete nord-est dello Scarason (Alpi Liguri)

L’umorismo affidato alle parole è una caratteristica del Pao­lo, senza nessuna mimica.
– Uno a zero per lo strapiombo! – esclama, dopo aver cercato disperatamente l’ultimo gradino della staffa, che un at­timo prima aveva abbandonato. Io che l’ho visto e che l’ho seguito posso dire che sarà avanzato di venti centimetri. Se fosse caduto avrebbe strappato tutti i chiodi e di nuovo ho l’immagine brutta nella testa.
– Due a zero per lo strapiom­bo! – E con ciò riassumo un’altra penosa avanzata fino al li­mite precedente, in lotta con la paura.

Mi distraggo per un attimo. Penso a cosa succederebbe se dovessimo tornare indietro per non tornare più: ma un rumore soffocato, un raspare di scarponi, mi fanno voltare verso l’alto e vedo Paolo in piedi sul balconcino erboso; senza dire una parola comincia a introdurre tremando un chiodo in una fes­sura e a martellare come un pazzo. Non ho visto il superamento dello strapiombo e non me ne dispiace. Penso che ora voglia tornare indietro, perché dev’essere sfinito. Ma evidentemente pensa che questo tiro dev’essere tutto suo e continua. L’av­vicinamento sistematico al cespuglio è sfibrante, anche perché pensiamo che tutti questi sforzi potrebbero essere assolutamente inutili. Quel cespuglio è veramente pauroso, con i suoi ten­tacoli contorti e rinsecchiti; sembrano le spire di qualche brutta bestia senza vita.

Paolo arriva al cespuglio. Immediatamente comincia a chio­dare sulla destra. Altri tappezzamenti, altre costellazioni. Chio­di, chiodini, chiodoni. La schiena sfiora quei tentacoli, che si muovono lentamente. Sale per tre metri, poi si arresta per due ore. Due ore interminabili per mettere un chiodo neppure passabile, il successivo ritorno a sinistra nel vivo delle spire vege­tali e nella loro parte superiore. Ansiosamente chiedo a Paolo cosa c’è al di sopra.

– Eh, ce n’è ancora, e non so se ce la farò.
Questo tiro sta diventando disumano. Paolo non lo vedo più, ma sento il rumore dei chiodi e vedo lo scorrere lento delle corde. Due pietre inavvertitamente smosse mi passano a un metro di distanza, nel vuoto. Sei ore è stato Paolo su questo tiro e finalmente mi urla che posso mandargli su il primo zaino. Lo lego al cordino raddoppiato e lo zaino sale diritto al cespu­glio, in cui inevitabilmente s’incastra. L’altro me lo metto sulle spalle e, data la voce, parto. La lunga sosta sulle punte ante­riori dei piedi e sulle staffe mi ha reso incapace di arrampicare. Con facilità tolgo tutti i chiodi, eccetto uno, che lascio, il più sicuro, per un’eventuale discesa. Lo strapiombo lo faccio tirato senza pietà e al limite-volo; arrivo al cespuglio togliendo i chiodi più miserabili, e poi m’installo su una staffa per cer­care di disincagliare lo zaino. Mi viene in mente che finora cu­nei ne abbiamo usati pochini, e dietro ne abbiamo una grande quantità. Inoltre le nostre riserve di chiodi si stanno decisa­mente assottigliando. Il sacco è disincagliato a prezzo di un’e­norme fatica che mi prostra veramente. Infatti proseguo senza molta lucidità, cercando di stringere i denti e di non farmi sof­focare dal maledetto cespuglio. Un tratto di libera estrema mi risveglia, un camino bagnato fradicio e strapiombante mi obbliga a contorsioni acrobatiche. All’uscita dal camino per poco non volo giù trascinato dall’improvviso spostarsi del baricentro. Rag­giungo Paolo, che sta tremando di freddo, incuneato in una nicchia, nel fondo del camino, con tutto il corpo nella neve, in mezzo a una storica insalata di corde e cordino. Qui non si può bivaccare, perciò proseguo subito. Siamo sempre nel pri­mo tratto della fessura direttrice della salita, cioè nel tratto obliquo a sinistra. E in effetti il diedro che mi si presenta è obliquo a sinistra ed ha due pronunciatissimi strapiombi, uno all’inizio e uno alla fine, di roccia alquanto nerastra. Cerco di evitare il primo sulla parete a sinistra, ma dopo alcuni sterili tentativi, non mi rimane che cercare la risalita diretta. Un chiodo discreto comincia a tenermi compagnia nella battaglia contro abisso e bivacco su staffe. Un cordino allacciato su un sasso incastrato mi fa superare il primo strapiombo. Continuo nel die­dro, di roccia buona, il primo tiro dove finalmente si possa «ar­rampicare” e non “salire al meglio”. Un cuneo mi fa avvici­nare al secondo strapiombo che supero tutto in spaccata molto elegante, se non fosse per l’ora e l’ambiente e, con l’aiuto di un altro chiodo, mi trovo su una falsa nicchia, con i piedi su due piccolissime zolle erbose ricoperte di neve sporca e le mani alla ricerca delle solite fessure per cercare di equipaggiare un punto di sosta per lo meno decente. Due chiodi entrano e mi tranquillizzano. Sopra di me un immane strapiombo a tetti consecutivi. Il lettore, penso, si sarà ormai stufato di leggere sempre gli stessi vocaboli, monotoni. Purtroppo la sua sensi­bilità ferita è paragonabile solo alla nostra. Anche noi eravamo stufi di essere sempre “sotto”. Nell’ultimo tratto del diedro, Paolo si aiuta proficuamente con una corda fissa. Siamo al punto in cui la fessura direttrice volta decisamente a destra. Ma qui c’è molta indecisione sul dove passare. A destra, rocce orrendamente sfasciate e biancastre ci suggeriscono l’idea d’im­possibilità e, sopra, i tetti sopraddetti ci disgustano non poco. L’unica è tentare a sinistra e che il sesto ce la mandi buona. Parte Paolo, scendendo un poco e traversando poi a sinistra. Quindi risale su difficoltà non eccessive (e qui vedo finalmente la corda scorrere un po’ più velocemente), fino a un im­provviso arresto. Non vedo niente, vedo solo sassi che piovono giù dal tetto sopra di me. Paolo però sta traversando a destra, cerca cioè di collegarsi di nuovo con la fessura direttrice della salita. Nonostante che la traversata sia in artificiale, va assai veloce e dopo non molto, sono però ormai le 18.30, raggiunge il fondo del diedro obliquo a destra, che continuerà fino a circa cento metri dalla cresta finale, salvo eventuali e non auspicabili interruzioni. Ancora circa dieci metri. Un urlo di gioia!

Lo Scarason e il Marguareis a sinistra, salendo verso il passo del Duca

– Sandro, c’è una grotta formidabile! – Pensavamo or­mai di dover bivaccare su staffe, e questa grotta, di cui non immaginavamo neppure l’esistenza possibile, arriva proprio a puntino. Paolo dunque entra e la seconda occhiata conferma il giudizio della prima. Per evitare sorprese di ogni tipo, due chio­di entrano cantando nella roccia. Attrezzato l’ancoraggio, posso partire. Purtroppo dovrò schiodare, se no i chiodi li esauriamo subito. Anche in questo tiro non sono stati usati cunei e così il loro peso continuerà a romperci le scatole. Rapidamente ar­rivo alla traversata. Dopo aver lasciato un chiodo, tolgo gli al­tri quattro o cinque, entro nel diedrone e su difficoltà non ec­cessive arrivo al buco in cui è appollaiato Paolo. Dentro c’è parecchio sterco di corvo, ma tutto sommato non è malaccio. Il fondo è un po’ in pendenza, ma ci potremo ancora siste­mare decentemente; e poi cosa vogliamo di più, se poco fa immaginavamo già i piaceri di una notte sulle staffe?

Non è tardissimo e decidiamo di proseguire ancora un tiro nel diedro. Mi slego dal cordino e parto. Occorre traversare un poco sulla parete del diedro, poi su diritti. Un primo chio­do di assicurazione, seguito più su da un altro. La roccia, gri­gia, è buona. Ogni tanto un ciuffo d’erba rammenta che non siamo a quattromila metri (per fortuna). Il tiro sembrava poco impegnativo. Invece sono a venti metri da Paolo, ho già messo tre chiodi e non c’è un passo inferiore al V grado. Ovvio che le difficoltà non diminuiscono. Altro chiodo, paretina liscia che sembrava poco difficile. Ancora V e V superiore. Finalmente arrivo dove la pendenza diminuisce un poco, ma non aumentano le fessure. Per piantare due chiodi su cui piazzare la corda fissa e fare una doppia, impiego quasi mezz’ora. Alla mia sinistra un enorme nicchione, giallastro, pauroso, con fes­sure marce. Di lì l’avanzata è impossibile, dato che la roccia non reggerebbe gli arrampicatori. Alla mia destra il vuoto, come d’altronde sotto. Sopra c’è un pilastrino, su cui si potrà stare in piedi. Sopra questo non riesco a vedere se ci sarà pro­secuzione. Mi sembra di no. Non posso andare a vedere, seb­bene sia abbastanza vicino al pilastro, perché non ho più corda e sta diventando buio. I due chiodi su cui faccio la doppia non mi piacciono proprio per niente. Ho fatto una stupidag­gine. Ho sistemato una corda fissa, che, nelle intenzioni, non toglierò dai chiodi di sotto. E l’altra mi serve per scendere da Paolo. In questo modo rimango slegato. E se precipito vado fino in fondo. Così ritorno su dai chiodi, mi lego alla corda fis­sa, che stacco. Man mano che scenderò, attaccherò ai chiodi la corda su cui scendo. Poi invece, durante la discesa, mi regolo diversamente e per la verità non mi ricordo come. Comunque riesco ad arrivare in fondo al tiro sano e salvo, facendo anche in modo da poter risalire l’indomani più comodamente con l’aiu­to di una corda fissa.

Entrati definitivamente in grotta, mentre Paolo fa il tè con la poca neve che siamo riusciti a racimolare sotto il buco, io riordino il cordino, che, con i suoi 150 metri, mi porta via un bel po’ di tempo. Questo non mi dispiace perché qui il tem­po occorre farlo passare in qualche maniera. Il pasto è assai magro, perché prevediamo un altro bivacco. Non ci rimane che sistemarci per la notte. Io ho il sacco-piuma e giacca a vento imbottita. Paolo il duvet. Gli darò la mia giacca imbottita per mettersela sulle gambe. Io in maglione, dentro il sacco, non starò poi male. Ci accucciamo vicini uno all’altro, mentre, guardato per l’ultima volta l’orologio, cerchiamo di dormire. Siamo stanchis­simi e ci addormentiamo.

Non è certo un sonno continuo, anzi è interrotto più volte durante la notte e per svariate ragioni, tipo crampi di posizione, movimenti del compagno, freddo. Comunque la notte passa e non si può dire che alla mattina siamo distrutti in pieno. As­sicurato da Paolo, scendo per cercare un po’ di neve. La trovo tutta sporca, mista a terra ed erba. La raccolgo lo stesso, tanto la faremo bollire e la roba si depositerà sul fondo.

– Io non ne bevo di quella roba lì – dichiara Paolo – ma non ti fa schifo?
– A me no, io ho sete; e poi vedrai che quando sarà fatto il tè non farà schifo.

Ancora la parete nord-est dello Scarason

Detto fatto, monto il fornello e sbatto la neve nella pen­tola. Ai primi bollori vediamo galleggiare alla superficie di tut­to: sterco, pagliuzze, terra. Una porcheria. Nel frattempo masti­chiamo un nauseabondo pezzo di formaggio senza pane. Nel tè buttiamo giù tanto zucchero, in relazione alle nostre scarse riserve. È risaputo che il tè, essendo fatto d’acqua, non ha mol­to valore nutritivo ed energetico. Non che lo zucchero possa sostenere, ma un po’ di energia la dà: da dove la si tiri fuori poi non si sa.

Assaggio il tè, che è pestifero. Anche Paolo ci si avvici­na, lo lecca appena e poi mi porge tutto quanto. – Bevi tu, va’!
Siccome ho sete me ne bevo almeno mezzo. Poi dico, spe­ranzoso:
– Non ne vuoi proprio?
– No! Beh, fammi assaggiare ancora.
Assaggia e butta giù come olio di ricino, imprecando che almeno avrei potuto dargli la sua parte di zucchero. Per la cro­naca riferisco che neppure una goccia di tè andò sprecata.

Il tempo è brutto. Tutto il cielo è coperto e tira aria di neve. Bisogna però dire che c’è molto vento e forse terrà. Decidiamo di proseguire (anche perché non so cosa avrem­mo potuto fare d’altro). Parto ancora io, che già conosco il tiro. Mi lego a una corda e al cordino, mi tiro su con una mano sugli appigli e l’altra sulla corda fissa. Dopo notevole fa­tica e un buon risparmio di tempo sono ai chiodi. Come ginna­stica mattutina non c’è stato male e mi sono sgranchito a do­vere. Il vento qui soffia forte e non posso stare in maglione.

– Paolo, legati e vieni su!
Non sente niente, perché il vento soffoca tutto. Do degli energici strappi alla corda. Raggiungo il pilastrino, mi ancoro con cordini a uno spuntone e velocemente faccio sicurezza a spalla. Paolo aiutandosi con la corda fissa, sale molto velo­cemente. C’è da recuperare uno zaino, che si lascia tirare su docilmente.

Il vento qui sul pilastrino è fortissimo. Inoltre c’è un’e­sposizione eccezionale. A destra c’è uno strapiombo unico fino alla base. Non ci stiamo in due qui sopra, per cui deci­diamo di sgomberare. Non sono molto fiducioso però sulla possibilità.

Sopra a noi c’è una placca grigia e verticale, di circa dieci metri. Poi due fasce consecutive di strapiombi. Se si riescono a passare questi, si vede più in alto un’enorme grotta buia, nella parte alta della quale, però, si vede uno spiraglio di luce. Quella grotta, se sarà arrampicabile, evita una fascia di strapiombi pro­prio immani, tali da farci senz’altro retrocedere.

Ma per il momento interessa arrivare alla grossa canna fu­maria. Le due fasce di strapiombi sono marce, ma non come al solito: peggio! Lì non si possono piantare chiodi a pressio­ne, perché non reggerebbero. Da lì non si potrebbe scendere a corda doppia, perché si rischierebbe di prendersi una frana in testa. E poi dove scendere? Nel vuoto più orrendo, visto che dalla grotta superiore, se si scende e ci si trova vivi per aver evitato le frane o perché la corda non s’è tranciata, la posi­zione geometrica dell’alpinista, sarebbe la seguente: a 5 metri dalla parete e a 8 metri dal pilastrino. Allora dovrebbe pen­dolare. Quindi la corda smuoverebbe altri quintali di pietre lì appiccicate. Ma è inutile pensare alla discesa, quando ancora non siamo saliti.

Paolo prova a mettere un chiodo nella parete, un metro a sinistra di dove sono io. Dopo innumerevoli prove il chiodo non ne vuole sapere di entrare dove non ci sono fessure, ma rimane lì: il peso della staffa lo regge (bello sforzo!), ma vediamo se regge anche il peso di Paolo. Evviva! lo regge! Sto stringendo le corde per bloccare il volo probabilissimo. Sale sui gradini e cerca di chiodare dopo. Niente. Tutto liscio e compatto. La mia proposta iniziale, quella di far piramide, viene accettata (sempre in mancanza di altre soluzioni). Dunque io sono in bilico su uno spuntone. Vuoto da tutte le parti. Paolo si ar­rampica su di me, mi sale con le ginocchia sulle spalle, poi con i piedi. Poi mette un piede sul mio casco. Scende. Risale. Dieci minuti su e giù. Sopra non c’è la più piccola fessurina. An­cora in piedi sulla mia testa. Tutta la costruzione oscilla, an­che per via del vento. D’un tratto non sento più il peso, ru­more di scarponi sulla parete: ed ecco Paolo con le punte dei piedi su un appoggetto. Sta tremando violentemente. Come ha fatto a passare non si sa. Quell’appoggio infatti era l’unico che avesse a disposizione ed era all’altezza delle sue mani. Scimmiescamente, ma è passato. Sesto. Il tremolio cessa un po’. C’è un buco: cinque chiodi entrano dentro, prima di ottenere una discreta solidità. Staffa. Un chiodino entra nella roccia di so­pra, ma Paolo non ci sale neppure sopra. Poi un altro chiodo un po’ più discreto, un po’ d’erba; è raggiunta la prima fa­scia, solcata da un camino, di 4 metri, a perpendicolo sulla mia testa. Altri chiodi di assicurazione, di cui uno buono. Il camino è superato alla meglio, lo strapiombo finale bisogna evitarlo sulla destra. I movimenti là dentro non sono facili e prima di mettersi in posizione di uscita, alcune pietre inevita­bilmente mi cadono vicinissime. Con sforzi inauditi Paolo pianta un chiodo sull’orlo dello strapiombo e con un volteggio esce fuori, si gira ancora, guarda a destra. D’improvviso mi arriva giù una scarica di sassi violenta. Ne prendo uno sul casco e uno sulla schiena, che mi fa anche parecchio male e, siccome ho anche freddo, mi metto la giacca a vento imbottita. In­tanto la lotta di sopra continua. I sassi ora cadono un metro alla mia destra. Ma ora non sono più sassi, sono macigni interi, di almeno 10-20 chili. Bisogna raggiungere la seconda fascia, sempre andando in diagonale a destra. Una stanga di ferro entra, ma non completamente, dentro una fessura. Un cuneo enorme anche. Un pezzo in libera, prima di fare il quale Paolo ha esitato un quarto d’ora. Altro artificio: una staffa è messa su una radice secca, che però tiene. La seconda fascia è rag­giunta. Se si passa, non si torna più indietro. Un chiodo, un altro, un altro ancora. Tutto balla, tutto insicuro. Abbiamo per­sino paura che si rompano i chiodi. Vedo Paolo che spenzola dallo strapiombo, attaccato ai chiodi e alle staffe. Sento il ru­more dei ferri che entrano. Livanos direbbe che sembra di pian­tare i chiodi in una bara. Paolo riesce a passare. Un’ultima pa­retina ed è all’imbocco della grotta. Mi conferma che si può salire. Sono le 12.30. Ha impiegato cinque ore.

Lorenzo Fanni sul (marcio) dodicesimo tiro della via Armando-Gogna allo Scarason. Foto: Gabriele Canu

Sopra, sento che martella furiosamente. L’ancoraggio de­v’essere formidabile, perché è probabilissimo che mi si stacchi­no i chiodi. Oltretutto la sosta, lassù, non è delle migliori.

Recupero degli zaini: prima uno e poi l’altro. Si prova uno stringimento al cuore e alla bocca dello stomaco, quando si vede uno zaino descrivere certe traiettorie nel vuoto. Il vento poi, l’aria di temporale, il freddo, l’assoluto isolamento. Gli zaini fanno dei pendoli di venti metri. Poi Paolo li tira su. È qui che abbiamo l’idea ben precisa di ciò che vorrebbe dire scendere di qua. Mentre lo zaino sale, viene sommerso di pie­tre e pietruzze. Per l’altro poi, quando vedo staccarsi un pezzo di roccia grosso, penso che non ci sia più niente da fare. In­vece lo sfiora e così non perdiamo niente del nostro materiale.

Ora tocca a me. Con l’aiuto della corda supero il primo tratto fatto con la piramide. Velocemente arrivo al camino stra­piombante. Lascio qualche chiodo, i migliori. Qui ho paura se­riamente che crolli tutto, chiodi, roccia e buona notte. Riesco a uscirne, faccio la diagonale, m’attacco alla radice e allo strapiombo seguente. Finalmente sono fuori. Ci guardiamo in fac­cia. Non sarà più grossa di noi questa faccenda?

Bando agli indugi. Comincio a portarmi nell’interno della grotta. È proprio una specie di cilindro vuoto, con apertura verso l’alto e verso il basso, diametro circa 4 metri. Arrampico sulla parete di fondo; la roccia è buona e sembra di arrampicare in grotta. Più in alto però è viscida e metto dei chiodi di assicurazione. Verso l’uscita, dopo una staffa, c’è del vetrato, ma me la cavo perché le difficoltà negli ultimi metri non sono for­ti. Non ho mai avuto bisogno di pila, perché, nonostante il condotto sia alto più di venti metri, l’illuminazione non è scarsissima. Sono le 14, mi assicuro a due chiodi e tiro su gli zaini. Paolo segue veloce.

Abbiamo evitato una fascia strapiombante decisamente in­superabile. È stato un vero colpo di fortuna, come pochi ne capitano.

Tocca a lui proseguire. Un diedro grigio va verso l’alto. Certo sarà estremo, ma mai come sotto. Lo vedo arrampicare per circa venti metri, poi non più. Tipica arrampicata mista. Una staffa, un pezzetto di libera estremo, un altro chiodo e staffa, cunei. Cerchiamo di far andare i cunei, se no li avremo dietro fino in cima e non avremo più chiodi. La roccia non è male; poi dopo quella di sotto, ci sembra una meraviglia. Il diedro è verticale, ma intercalato da continui piccoli stra­piombi, che molto spesso Paolo supera in libera. La corda è filata tutta o quasi e non ha ancora trovato dove fermarsi. Il tempo è stazionario sul brutto, ma finora non precipita. Oggi è il 1° maggio, la festa dei lavoratori. Ma se qui si sciopera, non si ottiene niente, bisogna darci dentro. Un posto di sosta più o meno decente deve essere stato preparato, altrimenti non mi direbbe di attaccare gli zaini. Ne attacco uno; l’altro lo porterò sulla schiena. Molte volte inciampa, ma poi, grazie ai tiraggi dal basso e dall’alto, lo disincagliamo. Parto e lo rag­giungo. Siamo in una fase non decisiva e forse stiamo un po’ addormentandoci. Dovessi infatti dire di ricordarmi esatta­mente passaggio per passaggio tutto questo tiro, direi una bu­gia. Ma forse Paolo se lo ricorda meglio di me. Proseguo. Chiodi e staffe, non c’è verso di fare altrimenti. Azzardo ogni tanto qualche passo in libera, ma sono sempre estremi. Metto anche dei cunei, ed è un piacere liberarsene. Un ultimo passaggino mi ferma cinque o sei minuti, ma “di brutto” riesco a pas­sare. Sono uscito su una bella terrazzetta di circa due metri qua­drati, coperta di neve, adattissima a un bivacco. Sono le 17.30. È ancora un po’ presto.

Gli zaini pesano sempre e recuperarli è una fatica bestiale. Con violenza Paolo riprende ad arrampicare per raggiungermi. Bisogna assolutamente far presto, per arrivare a bivaccare alle cosiddette cenge.

Lorenzo Fanni nel camino finale (quattordicesimo tiro) della via Armando-Gogna allo Scarason. Foto: Gabriele Canu

Dal basso e in fotografia avevamo visto infatti che a circa cento metri dalla cresta terminale c’erano delle cenge, o per lo meno dei terrazzi un po’ inclinati. Ad occhio dovremmo es­serci molto vicini, però non si può dire. Per intanto uno sguardo verso l’alto ci terrifica ancora. Un diedro grigio, marcio da far veramente paura, con blocchi interi protesi sul vuoto, pronti a staccarsi in caso che l’alpinista ci si attacchi. Venti metri di questo tenore, poi non si vede niente. È veramente terribile. Tocca a me, perché il tiro di sotto è stato troppo breve.

Paolo vorrebbe fermarsi qui, ché c’è neve e spazio. D’al­tronde una volta saliti non si può rischiare di scendere qui, se no i sassi ci crollerebbero in testa, scendendo in doppia.

Piramide. Salgo sulle spalle di Paolo e pianto un chiodo. Finora la roccia non è pessima. Con la staffa vado avanti ed entro nel fondo del diedro. Qualche passo al limite-volo, con la paura di non poter piantare più chiodi. Sono a dieci me­tri da Paolo. Sforzi immani per non fare crollare niente. Cerco di mettere un chiodo che mi dia fiducia, in mezzo alla frana generale. Ci riesco, ma non mi piace: ho paura che con il peso si stacchi tutto il blocco. Procedo ancora in libera, ansando. Giù non posso più tornare, non ne sarei capace. Mi trovo in spaccata molto aperta, senza potermi muovere. Dovrei andare un po’ a sinistra, perché a destra strapiomba ancora di più. A sinistra dovrei fare un passaggio su lastre mobili, far crollare qualche macigno e da lì riuscire ad attaccarmi a dei ciuffi d’erba gelata che spuntano al di là dello strapiombo. Per in­tanto comunque non riesco neppure a traversare. Pianto due chiodi discreti (se terrà la fessura) sulla destra, ci attacco una staffa e con l’aiuto di questa, tenendomi con la mano destra, traverso di un metro. La staffa non mi serve più, traversata a corda non la voglio fare, perché non posso appoggiare i piedi che in un solo modo. Appena ho lasciato la staffa, una pietra levigata, di circa 6-7 chili mi si sposta sotto la mano. Il corpo è in strapiombo. Se cade, cade sui piedi e io vado giù. Oltre tutto può cadere sulle corde e farne macello. Non posso trat­tenere la pietra ancora di più.

– Paolo! Quando ti dico via, fai saltare verso l’alto la corda libera.
– Perché, cosa fai?
– Faccio cadere un pietrone enorme. L’altra corda è a posto, perché è più attaccata alla parete.
– Eh già, passa nei chiodi…
– Allora, sei pronto?
– Sì.

Paolo è a posto, ma io no. I piedi tremano. Moccoli e im­precazioni. La mano sinistra l’ho attaccata disperatamente a un ciuffo d’erba, con le unghie conficcate nella terra e nella neve. I piedi non li posso muovere, se no volo e sbatto la schiena quattro o cinque metri a destra. Lascio andare la pie­tra, cercando di calcolare al millimetro: deve passare tra la cor­da alzata da Paolo e i miei piedi.

– Pronti? Via!
Un fracasso immane, la pietra, più in basso, è saltata in mille pezzi, che hanno proseguito il volo nel vuoto. Tutto è andato bene, ma non riesco a controllare il tremito. Di rabbia mi butto di sopra, quasi lanciandomi, affondo le mani nell’erba ghiacciata, punto i piedi che poi scivolano, annaspo, sono fuori dallo strapiombo.

Ora scivolo giù, ora scivolo giù. Non posso stare così. An­cora un altro lancio di scatto, un colpo di reni, mi attacco a un sasso nella terra, cercando di schiacciarlo, di non farlo uscire dal suo alveolo. Poi incastro i piedi nella fessura di destra, la pendenza diminuisce e, con i piedi sul pendio erboso e ge­lato a 65° gradi, arrivo in cima alla maledetta rampa. Da qua posso vedere le cenge. Sono tutti piccoli pendii erbosi a 65° gradi. Non c’è niente cui attaccarsi. Ma ormai è buio o quasi e non vedo niente. Mi sembrano ancora cenge. Urlo di gioia: – Ci siamo, delle cenge meravigliose, fantastiche!

Pianto due chiodi, mi attacco a un albero nei pressi, l’u­nico di tutta la via, a parte il famoso cespuglio secco. Paolo mi fa ricuperare uno zaino, poi, con corda fissa, viene su. Sento grattare senza misericordia, pietre che cadono, confusione in­descrivibile.

Le Càrsene, l’altopiano a doline e campi solcati sul versante sud-ovest del Marguareis

– Presto, presto.
Ormai è notte. Mi viene accanto, io sono sulle staffe.
– Dove sono le cenge?
– Là, a sinistra, vedi quelle macchie scure…
– Ma…
– Dai, non perdere tempo, va’!
– Veramente…
– Beh?

Un rumore improvviso: per poco uno zaino non va giù. Paolo mi sorpassa, raggiunge una specie di terrazza, coperta d’erba e quindi comodissima. Vedo che si aggira con circospe­zione.

– Ma cosa aspetti, sei orbo? Non vedi che sei su un terrazzo?
– Ma qui non c’è nessun terrazzo, te lo sogni. C’è un pendio d’erba.
– Ma sei cretino? Ma guarda un po’ che razza di com­pagno…
– Ma vieni a vedere prima di dar del cretino.

Aguzzo ancora di più la vista. Ho scarsa fiducia nei mezzi ottici del Paolo, tanto più al buio. Intanto quello si leva lo zaino e cerca di posarlo da qual­che parte. Io di sotto credo di vedere che lo sta posando su una specie di pulpitino comodissimo e non capisco perché non si fidi a lasciarlo lì.

– Ma cosa fai, non vedi che ci sta, cosa ti preoccupi?
– Idiota, tu e le tue cenge…

Litighiamo di brutto. Ma proprio un orbo mi doveva capi­tare come compagno di cordata. Ma guarda se è possibile…
– E cosa fai adesso, non ti fermi lì?
– No, qui non si può.

Con tanta voglia di picchiarlo, continuo a tener le corde.
– Dove vai?
– Sta’ zitto, tu e le tue cenge. Era meglio di sotto. E la corda intanto mi sta filando.
– Dove vaaaaiiii! – con voce iraconda.
– A cercare un posto da bivaccareeeee!

Il tracciato della via Armando-Gogna alla parete nord-est dello Scarason

Parola mia, quando lo raggiungo gli do un pugno che se lo ricorda!
– Sandro, sono arrivato.
– Ma dove sei arrivato, che non vedi niente e vuoi an­cora andare avanti! Bel capocorda!
– Sono arrivato ti dico, qui ci si sta.

Al che mi convinco che, se è capace ancora di distinguere i posti migliori da quelli peggiori, forse non ha del tutto perso il senso dell’orizzontale. Al buio pesto mi trascino su. Arrivo all’altro sacco, abbando­nato lì. Mi accorgo di essere su un pendio a 60° di terra ed er­ba. Pronto alle scuse, vado su per un diedrino, a tentoni, rag­giungo Paolo, che non ha neppure messo un chiodo perché non si vede niente. Il cielo è tutto nero. Dal sacco tiriamo fuori una lampadina, e piantiamo i chiodi, che serviranno anche per la notte. Poi io scendo, assicurato, a prendere anche l’altro zaino.

Organizziamo il bivacco. Dopo aver piantato i chiodi neces­sari, scegliamo i posti. Ci sono due piccolissimi terrazzini, su cui si può stare seduti. Sono distanti due metri e uno è un po’ sopra all’altro. Da mangiare, presto, se no qui crepiamo di fa­me. Cena magrissima, roba come un pezzo di cioccolata a te­sta e pochi biscotti con un po’ di marmellata. Facciamo il tè con la neve e stavolta non è nauseabondo. Abbiamo soprat­tutto sete. Berremmo volentieri tanto vino. Facciamo un se­condo tè, che beviamo semifreddo e pochissimo dolce, per­ché nello stesso tempo è finita la bombola e lo zucchero. Ci ritiriamo a dormire. Sulla pianura padana infuria il temporale. Lampi e tuoni. Le folgori sono visibilissime. Mi dispiace non avere una bella macchina fotografica. Il vento è cessato. Ecco, tra un po’ arriva anche qui. Non siamo al coperto, sarebbe un’in­fradiciata senza precedenti. Verso le 23 però si allontana e noi siamo ancora asciutti.

Domani come sarà? Certo dal basso si vedevano dei cami­ni. Nei camini di solito in qualche modo si va su. Beh, ve­dremo.

Entro nel mio sacco piuma, legato alle corde, per non sci­volare nel sonno. Paolo di sotto ronfa, la sua posizione è mi­gliore. D’altronde io, col sacco, sono più al caldo. Ma poi dor­mo un’ora anch’io. Verso le 2.30 ci svegliamo. Fa più freddo. Scendo vicino a lui. Ci si starà più male, ma almeno si può cantare.

E cantiamo, lui m’insegna delle canzoni che non ho mai avuto l’occasione d’imparare. E quale occasione è migliore del bivacco per certe cose? Cantiamo senza tregua, montagna, al­pini, beat, fino all’alba, assai livida ma con promessa di un po’ di sole.

C’è un ultimo pezzo di cioccolato. Lo dividiamo a metà. Siamo un poco infreddoliti, ma potrebbe andare peggio. Ve­diamo dove siamo. Siamo su una specie di pulpito roccioso, sovrastato da un grosso strapiombo; a destra la parete è solca­ta da un’enorme rientranza, con in fondo delle fessure; a sini­stra lo stesso. Non si vede bene, ma ci sembra che a sinistra sia più facile che a destra. D’altro lato, però, a destra sembra che in due tiri si esca. Dall’altra parte ce ne vorranno tre. Però a sinistra la via è più diretta e più vicina alla vetta. La distanza in linea d’aria tra le due soluzioni è di circa 50 metri.

Il sole sta uscendo e noi ci leghiamo. Ricognizione a destra. A me non va tanto. Mi sembra troppo difficile. Paolo si arram­pica per una specie di zoccolo e constata che effettivamente, se si passa, l’è dura. Allora vado anch’io a vedere e trovo che non c’è niente da fare. E così sono già le sette di mattina e non abbiamo ancora concluso niente. Mancano cento metri al­l’uscita e dei più duri. La roccia non accenna a migliorare. Pao­lo allora scende dove ieri sera avevamo lasciato lo zaino, tra­versa un po’ a sinistra, sale verso il gran caminone. Orrido a ve­dersi, perché anche qui tutto è sfasciato. Paolo l’attacca sul fondo, poi pian piano si sposta un po’ a sinistra, in una fessu­ra parallela. Nove chiodi, uno dopo l’altro, poi cunei.

È lentissimo e non lo vedo. Chissà che difficoltà orrende, sempre le solite. Prima di mettere un chiodo, mezz’ora per vol­ta. Ma se si può usare la tecnica artificiale, si va. Poi, dopo essere uscito dallo strapiombo, gli si presenta una parete d’er­ba. Un’ora e mezzo per quattro o cinque metri. Un chiodo, sen­za staffa. Queste poche parole riassumono una situazione assur­da. Un Paolo che non riesce né a salire né a scendere. Io mi spazientisco, ma non gli dico niente, è ovvio. Ormai, al terzo giorno, abbiamo il diritto di essere un po’ ipertesi. Paolo arriva a mettersi a cavalcioni di una sella erbosa sfuggente. Come an­coraggio un chiodo che balla e un cuneo nella terra.

Recupero gli zaini, ostacolato da un violento litigio circa i metodi da usare. Poi le contrarietà sono appianate e io posso salire. Il tratto d’artificiale non mi preoccupa poi tanto e sul­l’erba, con la corda dall’alto, me la cavo onorevolmente. A tre metri da lui, mi faccio passare il materiale, poi obliquo a de­stra, verso il fondo del caminone. Tento di passare una plac­ca, ma i chiodi non entrano. Paolo mi raccomanda di non vola­re, o almeno di mettere un bel chiodo. E qui invece niente. Alla fine riesco a piazzarne uno e passo: o la va o la spacca. La va. Sono con un piede su un appoggio degno di tale nome. Una fessura riceve un chiodo, veramente ottimo. La cordata così non precipiterà fino alla base. Traverso ancora un poco, e ne piazzo un altro sul fondo del camino. E ora sono più tran­quillo. Sopra di me il camino-diedro va su e si perde nel cielo. Se non sapessi che sessanta metri sopra c’è l’uscita, di qua non lo direi proprio.

Vado su lungo il camino per 32 metri, sudati fino all’ulti­mo. Chiodi, cunei, soprattutto cunei. Cordini incastrati, altri passi di estrema arrampicata libera. Il tempo diventa sempre più brutto e stavolta precipita. E ’sto camino non finisce mai. Tutto V e V+, A1 e A2. Non ce la faccio più a sopportare questa continuità, o per lo meno non ce la farei, se non sapessi che la meta è abbastanza vicina. Corda non ce n’è più. Devo fermarmi e sono per fortuna in un punto dove c’è un po’ di neve incastrata nel camino. Pianto due chiodoni enormi di sosta e recupero gli zaini. Comincia a nevicare, subito forte, poi un po’ meno. Ma la roccia si copre immediatamente di neve e di una crosta ghiacciata. Paolo di sotto è anche lui al limite-volo e devo tirare come un pazzo. Lasciamo parecchi chiodi e tutti i cunei, tanto tra poco usciamo. La nebbia c’in­veste e non vediamo più niente.

– Qua bisogna far presto, Paolo!
Di sotto un rumore, la faccia che esce da uno strapiombo superato in libera.
– Come hai fatto a passare?
– Dai, vieni, in spaccata.

Il passaggio è difficilissimo e ora che è bagnato, ti saluto. Mi raggiunge, riparte immediatamente salendomi sulle spalle, supera una placca vetrata praticamente con le sole mani. L’ulti­mo camino: uno strapiombo non difficile ne difende l’accesso. È superato d’un balzo, poi la corda mi scorre veloce.
– Siamo fuoriiii!
Sento appena quello che dice, perché c’è di nuovo un ven­to infernale.
– Vieniiii!

Parto immediatamente, raspando sulla placca, con le mani un po’ fredde. Il camino lo faccio di corsa, e raggiungo Paolo sulla cresta terminale, a un forcellino. Al di là le rocce e le ghiaie del versante sud-ovest. Ci diamo la mano e ci abbracciamo.

Più o meno sono le 14.30 e siamo usciti fuori dalla bu­fera. Su questo versante, è strano, c’è poco vento e non ne­vica. Diamo uno sguardo alla cresta nord-ovest, facile e bana­le, che porterebbe in pochi minuti sulla vera vetta dello Sca­rason.

Non abbiamo la forza di andare su: parlo di forza morale s’intende. Chi ce lo fa fare? Tanto la via finisce qui, dove pas­sa già la via della cresta nord-ovest.
– Scendiamo, scendiamo!
Le corde sono fatte su alla svelta, chiodi, moschettoni, tut­to è cacciato alla rinfusa nello zaino.
– Da dove si scende? – chiede Paolo.
– Non ti preoccupare, ci penso io.

E in effetti, pur nella nebbia e pur non avendo mai vi­sto il posto, arriviamo al punto esatto in cui bisogna scendere nel vallone, da cui eravamo venuti. Questo passaggio si chia­ma “Passaggio delle Rocce di Scarason”. Appena siamo sul­l’altro versante, di nuovo vento e bufera. Ma ormai si tratta solamente di un canalino di neve che, se anche in qualche punto ci dà delle preoccupazioni, ci lascia scendere slegati.

Lettera di Sandro Comino, l’uomo del Marguareis per antonomasia
(in risposta ad una mia lettera)
Mondovì, 11 maggio 1967
Caro signor Sandro, la sua graditissima e gentile lettera per comunicarmi la sua grande vittoria sulla Nord dello Scarason mi ha procurato grande gioia ed assieme anche grande commozione. Gioia, nel senso che la vittoria hanno saputo guadagnarsela due giovani ben provveduti, tecnici e tenaci, nonché forti e valorosi; commozione, per il suo cortese ricordo che nell’ora del suo raggiante rientro in famiglia dopo la straordinaria impresa, con le mani ancora brucianti per il lunbgo contatto con la pietra, molto benevolmente si è accinto a darmi, e tra i primi, la bella e fantastica notizia. Vede, io sono un sentimentale, anche adesso che sono vecchio: ci tenevo che lo Scarason si arrendesse a una cordata di giovani che potessero godere pienamente della vittoria così duramente conseguita e che resterà perennemente incisa nel loro cuore, come nel mio sono sempre vive le sensazioni provate negli anni buoni.
Vede caro amico Sandro (se permette), quasi trent’anni sono trascorsi dalle mie salite nel Marguareis. In questi anni l’evoluzione della tecnica e dei mezzi è stata notevole. Il Marguareis è sempre lo stesso potente masso. Ebbene, nel 1940 avevo anche posato gli occhi sullo Scarason, con tanta fede! Ma poi la mia attività si è dovuta arrestare al Colle dei Pancioni!

La coincidenza della sua abitazione a Genova, in via Lorenzo Pareto: non si sentirebbe per caso tentato di provare la salita della Nord di Cima Pareto? Chissà che con la progressione in artificiale, ai miei tempi sconosciuta, non si possa compiere la direttissima dalla base…? Cioè superando direttamente la fascia grigia di calcare compatto che ne forma la base (la via che suggerisce Comino è ancora oggi da aprire, NdA).
Non vorrei con questo dare dei consigli, è un’idea. E adesso non voglio più annoiarla. Sentivo il bisogno di esternarle ammirazione e con lei al suo amico Paolo Armando per questa importante impresa, con l’augurio che la passione alpina la “perseguiti” con il risultato di altre affermazioni. Mi perdoni il tono forse troppo confidenziale, ma quando si tratta del Marguareis, uomini del … e rocce del … per me formano una stessa famiglia. Con viva simpatia e cordialità, suo Sandro Comino”.

Il 2 settembre 1968 Sandro Comino mi scrisse: “Signor Sandro, con piacere ho appreso che presto verrà a Mondovì e sarò ben lieto di incontrarla e di poter sringerle con amicizia le sue portentose mani“. In effetti c’incontrammo a casa sua e fu un momento davvero commovente e indimenticabile.

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Extradiario – 15 – Scarason – 3 ultima modifica: 2019-03-19T05:57:43+01:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Extradiario – 15 – Scarason – 3”

  1. 2
    Fulvio Scotto says:

    Grande emozione per questo luogo del cuore…

  2. 1
    Fabio says:

    A distanza di tanti anni la via richiede ‘pelo’ e regala ancora emozioni intense !

    Salita nel 2013 con Saverio, abbiamo fatto anche noi il bivacco sulla cengetta 🙂

    Fabio

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