Il rapido aumento dei contagiati da coronavirus ha portato in primo piano scelte difficili, come quelle su chi curare per primo, in che modo, dove e con quante risorse. Le decisioni vanno prese con la massima trasparenza, esplicitando i criteri adottati.
Scelte in corsia: i criteri per guidarle
di Vittorio Mapelli
(pubblicato su lavoce.info il 27 marzo 2020)
Come decidere chi curare
L’epidemia da coronavirus ha portato alla ribalta un problema la cui soluzione, in tempi ordinari, società e politici preferiscono delegare ai medici: decidere chi curare per primo, come, dove e quante risorse spendere. A volte la scelta è drammatica, perché i valori sociali sottintesi sono antagonistici. La Siaarti, Società degli anestesisti-rianimatori , ha avuto il coraggio di esplicitare in un recente documento i criteri guida per l’ammissione e la sospensione in terapia intensiva dei pazienti colpiti da Covid-19.
Il merito del documento è di aver coinvolto l’opinione pubblica, uscendo dal chiuso della cerchia di esperti. Sintetizzarlo in poche righe è impossibile, se non a costo di grossi fraintendimenti (chi fosse interessato, può seguire il dibattito su quotidianosanità). Le quindici raccomandazioni fanno riferimento a un contesto eccezionale di medicina delle catastrofi, in cui vi è “enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”, per cui le decisioni devono “privilegiare la maggior speranza di vita”.
Con un ritardo di 30 anni anche nel nostro paese si inizia forse a prendere coscienza e a dibattere di temi cruciali per la nostra civiltà.
In un mondo ideale, il sistema sanitario dovrebbe poter curare tutti i malati con il massimo delle risorse. Purtroppo, la loro scarsità, di fronte a bisogni sanitari tendenzialmente illimitati, è strutturale. Nella la sanità pubblica le regole di accesso del mercato concorrenziale, basate sulla capacità di pagare (capacity to pay), non possono evidentemente funzionare e, d’altro lato, non si possono stabilire diritti individuali di proprietà nell’accesso alle risorse pubbliche: anche se ho pagato le tasse, non posso pretendere un quantum di cure pubbliche per me stesso.
La distribuzione delle risorse tra i cittadini richiede, quindi, criteri per fare le “giuste” parti tra tutti. Sapendo che, con un budget fisso, è matematico che se si destina “tanto” o “troppo” a qualcuno, vi saranno meno risorse per altri.
I criteri
In letteratura si trovano almeno 18 criteri, valori, principi che possono aiutare a fare le giuste parti, ma alcuni sono meri presupposti tecnici (efficacia, efficienza, appropriatezza, necessità), altri sono petizioni di principio (etica medica, giustizia, equità, solidarietà, democrazia) e i rimanenti veri e propri criteri distributivi.
Il criterio di casualità o dell’ordine di arrivo (first come, first served) appare come il più neutrale, ma di per sé non garantisce la migliore scelta (per esempio, i pazienti meno gravi possono precedere quelli più gravi), senza contare che con un budget “a silo”, i pazienti di fine anno rischiano di non ricevere i farmaci necessari.
Il criterio di eguaglianza è il più innato nell’essere umano, ma in sanità può risolversi in un’ingiustizia, perché fare la parti eguali tra diseguali (nel bisogno) conduce a un’ingiustizia, come affermava don Lorenzo Milani.
Il criterio del bisogno (severity) o della proporzionalità delle cure è il più condiviso e normalmente usato, ma pone seri problemi di comparabilità tra i bisogni: come confrontare e assegnare priorità tra un infartuato e uno schizofrenico?
Il criterio dell’utilità (capacity to benefit) affonda le radici nell’etica utilitaristica e asserisce che guadagnare più anni di vita è preferibile a guadagnare meno anni. È stato Jeremy Bentham a enunciare il principio che la società dovrebbe tendere a “the greatest happiness of the greatest number” (la più grande felicità del maggior numero di persone). Se il criterio di gravità guarda all’indietro, alle condizioni del paziente, quello di utilità guarda in avanti, alla prospettiva di sopravvivenza.
Il criterio del beneficio è la traduzione economica di quello di utilità: una persona che guarisce può lavorare e produrre reddito per sé e la società. La cura è un costo, ma si contrappone al beneficio del guadagno, per cui un intervento sanitario si giustifica se e solo se il rapporto B/C è ≥1; da cui discende che, tra più alternative di cura, è preferibile quella con il beneficio netto assoluto maggiore (Ba-Ca > Bb-Cb) o con il rapporto B/C superiore (ad esempio, l’alternativa 2,8 è preferibile a quella di 1,7).
Il criterio della regola di salvataggio (rescue rule) afferma che la società non può rimanere indifferente di fronte a una fatalità (per esempio, lo sciatore sotto la valanga, il bambino nel pozzo), ma deve mobilitarsi, a prescindere dal risultato che otterrà.
Il criterio del massiminimo o principio di differenza, enunciato da John Rawls, richiede che la società assegni priorità ai più svantaggiati, perché a tutti potrebbe succedere di cadere in quella condizione e, dunque, ai pazienti più gravi e poveri.
Il criterio del merito è chiaramente indimostrabile, ma per governanti e opinione pubblica può divenire criterio di scelta: i giovani prima degli anziani (o viceversa), gli italiani prima degli extracomunitari. Tra un camorrista e un carabiniere, feriti in un conflitto a fuoco, chi meriterebbe di essere salvato, se fosse libero un solo letto di terapia intensiva?
Infine, il criterio della lotteria sancisce che, avendo tutti gli individui la stessa probabilità di accedere alle cure, la selezione dovrebbe avvenire in modo probabilistico, attraverso il lancio dei dadi. È la rinuncia a decidere.
Criteri diversi in contesti diversi
I criteri di priorità nelle scelte in sanità sono numerosi, a volte in contrasto tra di loro, talché ne scaturisce una “cacofonia di principi”. Perché tra Ippocrate e Bentham esiste un irriducibile dissenso di prospettiva. L’etica ippocratica (fare il bene, non nuocere) e la deontologia medica (operare secondo scienza e coscienza) sono centrate sull’individuo e ispirate dai criteri di eguaglianza, dignità, bisogno, salvataggio, per cui considerano la vita umana come un tutt’uno da salvare, un fine in sé, a prescindere dalle risorse necessarie da mettere in campo. L’etica utilitaristica, invece, guarda al collettivo, conta gli anni di vita e considera anche i costi necessari alla cura, nell’assunto che le risorse spese per qualcuno rappresentino benefici potenzialmente persi per qualcun altro (costo-opportunità), per cui sarebbe immorale non tenerne conto. L’approccio individualistico rischia di essere un pozzo senza fondo, perché è sempre possibile migliorare la salute, se si ignorano i vincoli di budget; mentre quello collettivo è alla continua e brutale ricerca di un “giusto” limite di spesa (è giusto spendere mezzo milione di euro per guadagnare un solo anno di vita?), perché “troppe” risorse per un singolo paziente sottraggano potenziali anni di vita a un altro.
Il premio Nobel Kenneth Joseph Arrow ha dimostrato con il suo teorema che la società, muovendo dalle preferenze individuali dei suoi membri, non è intrinsecamente capace di pervenire a un’unica funzione di benessere sociale. Poiché non è conseguibile un massimo collettivo, sono possibili diversi ordinamenti di preferenze, che conducono a diversi livelli di benessere. Tradotto nelle scelte mediche, il teorema suggerisce che è legittimo usare criteri differenti in contesti differenti, essendo però consapevoli del trade-off sul benessere generale, associato ai criteri seguiti. È così che, in caso di catastrofe o in guerra, il criterio di utilità prevale su quello di gravità (nel triage si salvano i feriti che possono sopravvivere o i soldati abili a combattere, non i più gravi); nel caso dei trapianti d’organo il criterio di utilità (la prognosi più favorevole) supera quelli di lista d’attesa, eguaglianza, gravità, salvataggio; al pronto soccorso il codice rosso passa davanti al primo arrivato.
Per comprendere il trade off tra diversi possibili livelli di benessere, un semplice esercizio può aiutare. Con il budget di 1 miliardo di euro si potrebbero curare 4 mila pazienti molto gravi, al costo di 250 mila euro l’uno, oppure 20 mila pazienti con una malattia meno seria, ma fatale se non curata, al costo di 50 mila euro l’uno. Quale scelta offrirebbe il più alto livello di benessere sociale? Nel primo caso, la società risulterà più egualitaria, perché avrà offerto la stessa probabilità di sopravvivere anche ai pochi pazienti a rischio di morte, ma salverà meno vite. Nel secondo caso, la scelta avvantaggerà molte più persone, farà guadagnare molti più anni di vita e forse produrrà più ricchezza per tutti. Nella realtà concreta e nelle scelte cliniche, probabilmente, nessun calcolo utilitaristico riuscirà mai a convincere della superiorità della seconda scelta. A prescindere dal fatto che l’articolo 32 della Costituzione e l’articolo 593 del codice penale obbligherebbero alla prima opzione. In ogni caso, servirà essere consapevoli che con la prima scelta 16 mila persone potrebbero morire all’interno del sistema sanitario. Fortunatamente le scelte non si presentano sempre come un dilemma tra “mors tua, vita mea”, perché l’aumento di risorse può risolvere o allontanare il problema. Ma è pur sempre necessario, nelle scelte sulle risorse collettive, decidere con la massima trasparenza ed esplicitando i criteri adottati, anche a costo di critiche e dissensi.
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L’articolo è interessante per il suo rigore razionale. Sconta il limite accademico di molti contributi che escono sul sito lavoce.it , che seguo personalmente con grande attenzione. “Siamo tutti sulla stessa barca” bellissima invocazione morale che si fonda sulla rimozione. C’è barca e barca. L’emergenza non ha cambiato la società, per ora. Ci sono criteri di accesso alle cure che ancora vivono sotto traccia di cui non si parla in letteratura ma che sono attivi nella quotidianità. Gli economisti usano espressioni eleganti per definire due schifezze: “asimmetria informativa” e “capitale relazionale”. In modo meno nobile significa avere le informazioni giuste e conoscere le persone giuste, anche in un’emergenza collettiva, come già era accaduto durante la guerra.