Scialpinismo e fuoripista tra illusioni e preconcetti

Scialpinismo e fuoripista tra illusioni e preconcetti
(evoluzione del turismo invernale)
di Giorgio Daidola
(tratto, con adattamenti e aggiornamenti dell’autore, dall’articolo pubblicato su Rivista di diritto sportivo n. 2/2018, pagg. 354 -363)

La nascita del turismo invernale
La nascita del turismo invernale si fa risalire al 1864, quando un albergatore visionario di Sankt Moritz fece ai suoi ospiti inglesi una proposta rivoluzionaria: venire a provare una vacanza in Engadina in pieno inverno.

Il successo fu strepitoso e si svilupparono così nell’ordine lo slittino, il pattinaggio, l’hockey, il curling e infine lo sci, sport importato dalla Norvegia che ebbe un successo talmente grande da diventare l’asse portante del neonato turismo invernale. Si trattava di uno sci senza impianti di risalita: le montagne prima si salivano e poi si scendevano con gli sci. Si trattava di quello che oggi viene chiamato scialpinismo o, meglio, sci di montagna.

Anche nelle prime gare di sci di discesa, come il prestigioso Roberts of Kandahar, i concorrenti raggiungevano il punto di partenza a piedi. La prima gara di slalom, un’invenzione del grande Arnold Lunn, ebbe luogo a Murren nel 1922, l’inaugurazione del primo skilift a Davos nel 1934 e il debutto delle gare di discesa alle Olimpiadi a Garmish-Partenkirchen nel 1936: ebbe così inizio la progressiva separazione fra sci di discesa e scialpinismo.

Lo scialpinismo ieri e oggi
Ma cosa si intende esattamente per scialpinismo? Si tratta di “sci in montagna” oppure di “sci e montagna”? si chiede Philippe Traynard, una delle massime espressioni del forte sviluppo dello scialpinismo “classico” negli anni ottanta, nonché Rettore per molti anni dell’Università di Grenoble. La risposta è ovvia ma non per questo meno importante: scialpinismo significa “sci e montagna”. Dobbiamo però chiederci se oggi, a distanza di quasi 30 anni, è ancora così.

Ma andiamo per gradi. Dopo la cosiddetta età d’oro dello sci, iniziata nel dopoguerra e durata fino agli anni settanta, in cui le differenze fra sci da discesa e scialpinismo erano molto sfumate, spesso inesistenti, negli anni successivi esse si sono fatte via via più consistenti. Per rendere più sicuro e più accessibile alle masse cittadine lo sci da discesa, si è fatto di tutto, ad iniziare dagli anni ottanta, per eliminare i rischi, le difficoltà, le privazioni che sono proprie della frequentazione della montagna, fino ad annullare i significati più profondi dell’esperienza alpina, sostituendo le emozioni autentiche con le emozioni artificiali proprie dei lunapark bianchi.

Lo sci di massa, prodotto tipico del turismo invernale di quegli anni, ha per terreno di gioco le levigate piste autostrade di compatta neve artificiale, messe in sicurezza in un modo ossessivo, per evitare ogni responsabilità in caso di incidente: è lo “sci in montagna” nella sua espressione più aberrante e completa. Si tratta di uno sci in cui ai rischi tipici della montagna si sono sostituiti altri rischi, derivanti dalla sempre maggior velocità che esso permette, su piste spesso sovraffollate. Paradossalmente l’ossessione della sicurezza ha prodotto uno sci obiettivamente pericoloso, come dimostrano gli incidenti mortali sulle piste che si ripetono ogni inverno. Oltre che pericoloso è uno sci ripetitivo, noioso e insipido. E anche costoso. Si tratta insomma di uno sci che può avere ancora un senso solo dal punto di vista tecnico-agonistico mentre da quello ludico attrae sempre di meno: di qui il gran numero di pistaioli che, per reazione, scoprono lo scialpinismo, lo sci fuori pista, il freeride più o meno estremo. Questi nuovi adepti sono spesso atleticamente preparati ma, considerata la loro provenienza, mancano di esperienza di montagna e di sensibilità alla vera neve. Per alcuni di loro questo non rappresenta un grosso problema, perché continuano a seguire itinerari battuti, effettuando uno scialpinismo agonistico di velocità, molto simile alle corse in montagna. Per altri invece la prestanza fisica, le capacità sciistiche, le attrezzature sempre più performanti, li portano ad affrontare i rischi della montagna invernale senza un’adeguata esperienza. Di qui i numerosi incidenti dovuti alla overconfidence: si vedano in proposito gli studi del gruppo di studio del  Prof. Enrico Rettore, in Overconfident people are more exposed to “black swan” events: a case study of avalanche risk, Empirical Economics, Vienna 2018. Ritornerò più volte sul punto nei paragrafi successivi.

Per uscire da questa impasse ci può aiutare un’analisi dello scialpinismo del passato, per scoprire quali eredità ci hanno lasciato gli sciatori di montagna che non sono più con noi. Si tratta di un viaggio “sentimentale” sulle tracce della meravigliosa storia del grande sci, un viaggio che ha come risultato quello di rendere più consapevole, oltre che più piacevole, il rapporto con la montagna bianca.

I grandi sciatori di montagna
Come abbiamo visto lo scialpinismo è il frutto dell’unione di due grandi sport: l’alpinismo e lo sci, e tale dovrebbe rimanere. Questo modo di vivere lo scialpinismo è stato introdotto sulle Alpi a fine ottocento dagli eredi di Fridtjof Nansen, che con la sua prima traversata della Groenlandia del 1888 aprì nuovi orizzonti sull’uso degli sci sulle Alpi e non solo. Prima della pubblicazione nel 1890 del libro di Nansen su questa grande traversata la presenza degli sci sulle Alpi risulta assolutamente trascurabile.

Nel 1894 Conan Doyle, il padre di Sherlok Holmes, effettua con i fratelli Branger la non banale traversata Davos-Arosa e la descrive in un gustoso articolo sullo Strand Magazine. Si tratta di una delle prime traversate a quote medie destinate a fare storia.

Nel 1897 Wilhelm Paulcke effettua con quattro amici la prima traversata del massiccio dell’Oberland Bernese. È la prima traversata di più giorni a quote glaciali e Paulcke, grande ammiratore di Nansen, si rende subito conto del maggior potenziale che hanno gli sci rispetto alle racchette da neve per lo sviluppo del turismo invernale sulle Alpi.

Negli anni successi altri grandi sciatori di montagna sviluppano questo nuovo modo di vivere l’alpinismo invernale: dai padri nobili come Marcel Kurz e Arnold Lunn, ai fuoriclasse come Paul Preuss ed Ettore Castiglioni, per arrivare ai grandi esploratori degli spazi bianchi come Leon Zwinglestein e Piero Ghiglione.

Tutti questi scialpinisti utilizzavano un‘attrezzatura e una tecnica molto meno performanti di quelle attuali, un’attrezzatura e una tecnica con le quali i moderni scialpinisti non sarebbero in grado di fare nemmeno una curva. Non erano ovviamente dotati di apparecchiature elettroniche per garantire idonei interventi di soccorso in caso di incidenti causati da valanghe e allora non esistevano i bollettini e altri sofisticati sistemi per valutare le probabilità di stacco. Questo non significa che fossero incuranti dei rischi di slavine e valanghe, lo erano anzi molto di più degli scialpinisti di oggi, spesso caratterizzati da un rapporto non rispettoso nei confronti del territorio.

Ne sono un esempio gli studi che il sopra citato Paulcke, che era anche professore di geologia e Rettore dell’Università di Karlsruhe, pubblicò sui fenomeni valanghivi. Egli aveva capito che le valanghe sono meravigliosi fenomeni naturali che solo l’esperienza, l’osservazione attenta e l’intuito possono prevedere. Gli fece eco molti anni dopo, negli anni 80, il grande alpinista svizzero André Roch, studioso delle valanghe e membro dell’ICAR (International Commission for Alpine Rescue) dichiarando che in caso di dubbio in merito alla tenuta di un pendio, si sarebbe fidato di più della sua esperienza che delle sue conoscenze teoriche.

Per metterla sul provocatorio ricordo che Leon Zwinglestein, lo sciatore naif, lo ski boom degli anni trenta che per primo attraversò da solo l’arco alpino in solitaria con gli sci, scrisse nei suoi bellissimi diari, con un pizzico di humour, che le valanghe non erano mai state un vero pericolo per lui in tre mesi di traversata da Nizza all’Austria, i veri rischi erano stati ben altri: i cani e i gendarmi!

Il già citato Philippe Traynard che per oltre cinquanta anni non perse mai un fine settimana per fare uno scialpinismo di ricerca con la moglie Claude, mi disse, in una intervista del 1986, di non aver mai avuto incidenti causati da valanghe: il segreto era stato, non esistendo ancora l’Artva, non aver mai accettato livelli di rischio di tipo medio ed elevato. Anche per Traynard il saper rinunciare quando l’esperienza, l’intuito e la modestia consigliano di farlo, è stata la regola fondamentale per prevenire gli incidenti.

L’età d’oro dello sci
I miglioramenti delle attrezzature e della tecnica conseguenti allo sviluppo dello sci da discesa negli anni cinquanta, sessanta e settanta interessarono anche lo scialpinismo che rimase però, in quegli anni, una pratica per pochi, riservata ad una élite di alpinisti esperti, consci dei pericoli della montagna. Le principali innovazioni di quegli anni riguardarono il peso e le geometrie degli sci, la sicurezza degli attacchi e la sostituzione del cuoio con la plastica negli scarponi. A quei tempi come materiale di sicurezza nei tratti pericolosi per valanghe si utilizzava un lungo cordino metrato di colore rosso legato a vita.

I primi rilevatori elettronici per ricercare i sepolti da valanghe, inventati negli Stati Uniti negli anni cinquanta, entrarono timidamente nel mercato solo alla fine degli anni settanta e si può dire che fino alla fine degli anni novanta essi non fecero parte del bagaglio di sicurezza per così dire obbligatorio degli scialpinisti. Oggi, se non si ha l’Artva si vieni additati come irresponsabili dai compagni di gita, che considerano il rilevatore come l’ancora della salvezza, anche se poi la maggior parte di loro non lo sa utilizzare propriamente, soprattutto nei momenti di tensione in cui ce n’è bisogno.

Alla fine degli anni ottanta ho avuto modo di sciare molto con Patrick Vallençant, guida alpina e famoso sciatore estremo: devo confessare che casco, pala, Artva e sonda (i pesanti zaini con l’air bag non erano ancora stati inventati) non hanno mai fatto parte della nostra attrezzatura per affrontare itinerari tutto fuorché banali nella zona di Chamonix, magico comprensorio per lo scialpinismo e il fuori pista. Sicuramente abbiamo corso dei rischi, Patrick metteva però molta cura nello scegliere gli itinerari, che conosceva nei minimi particolari. Anche lui, tipo esuberante e coraggioso, sapeva rinunciare all’ultimo minuto, quando l’intuito glielo suggeriva.

Lo sci moderno
Non ci sono statistiche per dimostrare che dopo gli anni novanta gli incidenti da valanghe sono aumentati come percentuale sul numero di praticanti ma sicuramente si può dire che, soprattutto negli ultimi anni, essi sono sempre più numerosi in valore assoluto, circa un centinaio all’anno sulle Alpi secondo l’AINEVA, e hanno interessato un gran numero di scialpinisti e di freerider di alte capacità tecniche, ivi compreso un numero preoccupante di guide alpine. Anche gli escursionisti con le ciaspole, forse perché particolarmente inesperti di montagna invernale, aiutano purtroppo a tener alto il numero di incidenti.

Scialpinisti e freerider di estrazione pistaiola concepiscono per lo più la montagna come una palestra in cui dare libero sfogo alle proprie capacità tecniche e atletiche, talvolta anche ad una adrenalinica propensione al rischio. Per la maggior parte di essi si tratta di una ricerca quasi ossessiva della neve polverosa appena caduta, spesso la più pericolosa.

Sugli altri tipi di neve, come ad esempio sul meraviglioso e sicuro firn primaverile, gli stessi sciatori non si divertono abbastanza. Finita la breve stagione della neve polverosa preferiscono passare ad altri sport. Il fenomeno purtroppo interessa anche le guide alpine dell’ultima generazione che spesso per lavorare accettano le richieste di questa singolare tipologia di sciatori.

Alcuni incidenti da valanga degli ultimi anni
Simona Hosquet, guida alpina valdostana di 30 anni e azzurra di fondo perse la vita sotto una valanga il 14 febbraio 2007. Accompagnava due clienti stranieri in una discesa in Valtournanche che presentava un modesto rischio 2 in base al bollettino delle valanghe. Oltre all’Artva era dotata di Airbag nello zaino ma non fece in tempo ad aprirlo e morì sotto un metro di neve dopo essere stata trascinata per 300 metri lungo il pendio.

Adriano Trombetta, guida alpina piemontese di 38 anni perse la vita insieme alla maestra di sci Margherita Beria di 24 anni e ad Antonio Lovato di 28 anni nel canalino dello Chaberton in Alta Val di Susa, il 17 febbraio 2017, per il provocato distacco, a metà discesa,  di un placca dovuta ad un accumulo causato dal vento.

Emmanuel Cauchy, 58 anni, famosa guida alpina francese e medico specialista del soccorso alpino in condizioni estreme, sua la prima e unica traversata integrale con gli sci della Georgia del sud, perse la vita sotto una valanga durante una classica gita molto frequentata nel massiccio delle Aiguilles Rouges di Chamonix, il 2 aprile 2018. La valanga venne provocata da un gruppo di sciatori che si trovava più in alto.

Graeme Porteous, ricco banchiere inglese di 48 anni perse la vita l’8 febbraio 2015 in un classico fuori pista nei meravigliosi boschi di larici di Argentera nelle Alpi Marittime: era accompagnato dalle guide alpine francesi Matthieu Desprat e Bruno Roche, che furono condannati per omicidio colposo, in quanto il bollettino indicava un alto rischio di valanghe che però le due guide avevano pensato fosse minimo sciando nel bosco.  Da notate che Graeme azionò prontamente l’air bag e proprio per questo motivo finì violentemente contro l’albero che ne causò il decesso.

Sono questi solo alcuni esempi di incidenti mortali dell’ultimo decennio che hanno interessato professionisti della montagna.

Aggiungo ora, gennaio 2021, che purtroppo anche il nuovo decennio non smentisce il precedente: Etienne Bernard, 27 anni, una delle migliori guide della Val di Fassa, è stato travolto il 14 di questo mese nel canale Torre Roma nel gruppo del Sella, una discesa con tratti a 50 e 40 gradi con una strettoia di 15 metri, il tutto dopo nevicate molto consistenti  e neve lavorata dal vento. Etienne Bernard era dotato di capacità ben superiori a quelle necessarie per scendere questo canale ma probabilmente la già citata overconfidence lo ha tradito.

Il mese delle valanghe e le illusioni di sicurezza
Ogni inverno i quotidiani riportano, soprattutto nei mesi di gennaio e di febbraio, mesi critici anche secondo le statistiche della CISA-ICAR (Commissione Internazionale Soccorso Alpino – International Commission for Alpine Rescue) un gran numero di incidenti causati da slavine e valanghe sulle Alpi. I commenti che si levano di fronte a tali incidenti vanno dal celebre “valanga assassina” alla necessità di prevenirli attraverso un maggior regolamentazione, ossia attraverso divieti di vario tipo. Ma, a tale riguardo, non va dimenticato che la regolamentazione ha come effetto principale un aumento del piacere della trasgressione, soprattutto da parte dei giovani freerider. Inoltre sarebbe un errore “normare” attività come lo scialpinismo e il freeride che, come l’alpinismo, sono modi di vivere la montagna per loro natura rischiosi. Pretendere di eliminare il rischio insito in queste attività equivale a snaturarle del tutto.

C’è anche chi, andando contro l’evidenza, pensa che i rischi vengano meno grazie alla tecnologia, all’uso di gadget tecnologici sempre più sofisticati, dagli Artva dell’ultima generazione agli Air bag. Gli esempi riportati dimostrano che questi gadget non limitano il numero di incidenti ma semmai il numero di vittime. Inoltre non viene quasi mai considerato che essi possono essere la causa di molti incidenti per la falsa sensazione di sicurezza che determinano, facendo scattare la trappola psicologica di sentirsi protetti e padroni della situazione. E’ chiaro che non è così.

Sarebbe invece possibile ridurre gli incidenti con una corretta lettura dei bollettini valanghe, bollettini che hanno raggiunto un buon grado di affidabilità. E anche consultando le CLPV, le Carte Localizzazione Probabile Valanghe dell’AINEVA: è infatti rarissimo che una valanga cada dove non è mai caduta prima: consultando queste carte è quindi possibile scegliere gli itinerari più sicuri.

Si può anche applicare il metodo Munter, basato sul calcolo delle probabilità di incidente: il limite del rischio ragionevole è l’LM2, ossia un tasso di mortalità pari a 1 ogni 50.000 giornate di scialpinismo. Tale tasso viene determinato in base alla pendenza, all’esposizione, al grado di frequentazione, alla presenza di sovraccarichi di neve su di un certo pendio.

Tutti questi metodi, insieme ai gadget di cui si è già detto, sono senza dubbio utili ma al tempo stesso insufficienti. Nel senso che per raggiungere buoni risultati con gli stessi si dovrebbe convincere gli scialpinisti e i freerider a muoversi solo quando e dove il rischio valanghe è tendente a zero. E’ stato infatti dimostrato che la maggior parte di incidenti avviene con bollettini valanghe che indicano un rischio medio, pari a 2, rischio che evidentemente viene sciaguratamente accettato.

Quattro suggerimenti
Se è vero che la prevenzione degli incidenti da valanghe non può basarsi sulla regolamentazione, sui divieti, sui gadget personali e che i bollettini valanghe e la scala di Munter spesso non vengono presi in considerazione correttamente, che cosa dunque si può fare per limitare al minimo gli incidenti?

Ecco alcuni suggerimenti personali, derivati da riflessioni su comportamenti virtuosi degli sciatori del passato e su quelli decisamente meno virtuosi di molti sciatori del presente.

Secondo Arnold Lunn, sciatore alpinista eccelso (sua la prima salita e discesa in sci del Dom de Mishabel nel 1917, ancora oggi una scialpinistica per pochi) e al tempo stesso inventore dello slalom e dell’Arlberg Kandahar, la grande stagione dello sci non è l’inverno ma la primavera, quando la neve è più assestata e trasformata e il rischio di valanghe risulta molto ridotto. Si veda in proposito il suo Alpine Skiing at all heights and seasons del 1921. Non a caso il maggior numero di incidenti da valanga si verifica in pieno inverno, come abbiamo visto soprattutto in febbraio, quando il manto nevoso è particolarmente instabile, soprattutto a causa del vento che crea cornici e placche, con i classici cedimenti che provocano le valanghe a lastroni e, nel caso di molta neve fresca, le pericolosissime valanghe di neve polverosa. Da notare che anche inverni poco nevosi e molto freddi sono tutt’altro che sicuri. Con il metamorfismo costruttivo della poca neve e le basse temperature dell’aria si creano infatti nel manto nevoso sottili strati fragili a scarsa coesione che sovraccaricati possono provocare valanghe: non è quindi vero che quando fa molto freddo, nei canaloni all’ombra, i rischi siano bassi o inesistenti.

In tarda primavera, con neve trasformata in quota, se si parte presto la mattina, dopo una notte fredda e senza nubi, i rischi di valanghe sono praticamente inesistenti, anche sui pendii più ripidi. Le valanghe primaverili sono infatti quelle lente di pesante neve bagnata: molto pericolose ma facilmente evitabili se si concludono le gite prima delle ore calde del pomeriggio, oppure se si rinuncia dopo notti nuvolose, durante le quali la neve non rigela. L’assoluta sicurezza del firn primaverile viene spiegata non solo da Arnold Lunn, ma anche da Marcel Kurz, nel volume “Alpinismo Invernale” del 1925, che rimane il Vangelo di ogni vero sciatore di montagna. Si tratta purtroppo di opere sconosciute sia alla maggior parte dei moderni scialpinisti che agli attuali operatori del turismo invernale, che ignorano le differenze fra l’inverno alpino e quello di calendario. In conclusione sciare sulla neve primaverile trasformata vuol dire sciare in sicurezza oltre che in modo facile ed elegante, lasciando tracce argentee su di una neve simile al velluto.

La prevenzione degli incidenti da valanga nella pratica dello scialpinismo e del fuori pista cozza spesso contro gli interessi commerciali di produttori di attrezzature che basano il loro business sugli impatti mediatici di folli discese adrenaliniche, promuovendole e sponsorizzandole. La compiaciuta messa in rete di filmati o la pubblicazione di fotografie relative a performance esibizionistiche da far rizzare i capelli, sono delle istigazioni al suicidio sia per chi le compie che per chi le vede. Aziende come, ad esempio, The North Face, sponsor di molti film sulla falsariga di In to the mind, sono responsabili di pratiche di marketing che hanno effetti esplosivi per quanto riguarda il moltiplicarsi degli incidenti in montagna, ivi compresi quelli dovuti al provocato distacco di valanghe. Anche i film festival specializzati come quello di Trento dovrebbero evitare di selezionare e soprattutto di premiare opere che diventano spesso dei film culto di molti giovani apprendisti suicidi. Una buona parte degli incidenti attuali da valanghe interessa bravi sciatori che per emulazione giocano a fare gli eroi.

Tutto questo non significa sparare a zero sul freeride estremo che, per permettere di vivere a lungo, richiede anch’esso di saper leggere il terreno, valutare preventivamente ogni salto e ogni passaggio. Secondo Arno Adam, campione del mondo a Valdez in Alaska nel 1988, il freeride è “un’espressione artistica. Quando vedi le rotondità bianche di una montagna, le sue curve simili alle onde dell’oceano, devi entrare in armonia con loro, scegliere la tua linea di discesa… il freeride è straordinario perché permette di sviluppare una diversa filosofia dello sciare, al di fuori delle regole… la sola cosa che renderei obbligatoria è l’utilizzo da parte di tutti i freerider del cervello, nonché di quelle qualità troppo spesso dimenticate dalla nostra società che sono la modestia e il rispetto.”

Una ricerca della Accademia della Montagna del 2015, condotta dai professori Enrico Rettore, Paolo Tosi e Sara Tonini e ripresa nell’articolo  sull’Empirical Economics sopra citato, ha messo in evidenza che gli scialpinisiti sono consapevoli di svolgere una attività che li espone a rischi ma sono del tutto inconsapevoli del loro grado di overconfidence con il risultato che quelli della coda destra della distribuzione si espongono a una probabilità in incidente doppia rispetto a quanto credono.

Per diminuire i livelli di overconfidence e aumentare quelli di underconfidence della coda sinistra della distribuzione, non c’è altro mezzo che sensibilizzare ai valori dello scialpinismo di altri tempi, ossia la modestia e la prudenza. Senza dimenticare l’amore per la neve, che è fondamentale per capirla.

La consultazione di siti web come ad esempio Over the top, che riportano le relazioni postate da solerti scialpinisti subito dopo aver effettuato una gita, è senza dubbio molto utile quando si vuole scegliere un itinerario per il giorno successivo. E’ però normale trovare sovraffollati gli itinerari che risultano migliori. Con la conseguenza di trovare lunghe file di scialpinisti che progrediscono a zig zag in salita e che possono sollecitare con il loro peso il manto nevoso, aumentando i rischi soprattutto per quelli che stanno più in basso.

Inoltre, una gita descritta come sicura un giorno, non è affatto detto che lo sia il giorno dopo. Nelle situazioni di sovraffollamento si assiste purtroppo al verificarsi del pericoloso effetto gregge: la massa di sciatori sul pendio provoca una falsa sensazione di sicurezza mentre è vero il contrario.

Il futuro dello sci e del turismo invernale
Lo scialpinismo, il fuoripista, il freeride a tutti i livelli e le gite con le ciaspole rappresenteranno sempre di più degli elementi insostituibili nel quadro dell’offerta turistica delle regioni alpine. Osteggiarli, snaturarli attraverso divieti e campagne denigratorie sarebbe un gravissimo errore.

Si tratta piuttosto di riflettere sui quattro suggerimenti di cui si è detto e di ritornare a un rapporto più rispettoso e attento fra uomo e territorio, dando spazio nelle decisioni all’intuito e all’esperienza. Questo è possibile rimettendosi sulle affascinanti tracce degli sciatori del passato, evitando gli esibizionismi sempre più frequenti e limitando la pericolosissima overconfidence.

Soprattutto occorre evitare gli itinerari adrenalinici in neve polverosa appena caduta. Accontentarsi di itinerari facili e sicuri quando i rischi di valanghe sono moderati non è una pratica di cui vergognarsi.

Bisogna saper rinunciare quando si nutrono dei dubbi circa la sicurezza di un pendio. Non bisogna mai dimenticare che la valanga assassina dovuta alla sfortuna è l’eccezione alla regola.

Gli incidenti da valanghe sono quasi sempre la conseguenza di errori umani.

“Sciatore esperto, stai attento, la valanga non sa che tu sei esperto”, usava dire il grande alpinista ed esperto di valanghe André Roch.

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Scialpinismo e fuoripista tra illusioni e preconcetti ultima modifica: 2021-02-15T05:37:00+01:00 da GognaBlog

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63 pensieri su “Scialpinismo e fuoripista tra illusioni e preconcetti”

  1. Peccato che ormai in pianura surriscaldata non arrivino piu’nevicate come nel’29…’85..non ci sarebbe pericolo di valanghe ma uno sci di fondo agonistico o escursionistico su terreno orizzontale di  decine di chilometri di argini fluviali o terreni agricoli in riposo..ti stroncherebbe.. softly..

  2. Non credo che ci sia qualcuno che disprezza il CAI come tale, ma una parte del CAI.
    Quella parte costituita da persone mediocri, intellettualmente e moralmente e  non tanto alpinisticamente, prive in realtà di autostima e forza, con un gran bisogno di riconoscimento, conferma e gratificazione, che pretendono che le proprie opinioni siano verità assolute e di imporle a tutti, senza ascoltare mai, per poter continuare ad illudersi e essere giustificati davanti a se’ stessi.
     
    Chi si crede superiore agli altri per quello che pensa o per quello che fa può essere solo compatito. Difficilmente può essere aiutato…meglio ignorarlo.

  3. Anche in questo risvolto siete caduti in un equivoco clamoroso, imputabile alla superficialità con la quale leggete i testi. Prima di esprimervi dovreste documentarvi a puntino, sennò rischiate di parlare di aria fritta.
    A parte che mi assumo sempre esplicitamente la responsabilità individuale delle miei  prese di posizioni che espongo in pubblico, quando mi capita di fare riferimento all’ambiente CAI da cui provengo, non parlo in generale del CAI nel suo complesso, ma dello specifico ambiente del CAI torinese in cui mi sono formato e ho poi operato come istruttore (anche Direttore in un certo periodo). Stupisce che facciate, ancora una volta, un minestrone, a maggior ragione perché, con riferimento alla Scuola in questione, è uscito un articolo qui sul Blog pochissimo tempo fa (esattamente l’8 febbraio).
     
    Prima di  sparare a zero, sarebbe bene che tutti (ri)leggessero detto articolo, altrimenti non sapete di cosa state parlando:
    https://gognablog.sherpa-gate.com/uno-dietro-e-laltro-avanti/
    Non mi va di fare il solito panegiroico, tuttavia ricordo che se una istituzione esiste da 70 anni senza soluzione di continuità operativa e ha girato i “numeri” umani cui ho già accennato nei giorni scorsi, è difficile pensare che sia solo “cartavelina”.
    Il retroterra culturale da cui provengo è rilevante per la mia “visione”, sul piano etico prima ancora che (sci)alpinistico, per questo invito gli interessati a documentarsi in proposito.
     
    Tuttavia le prese di posizioni ideologiche che assumo pubblicamente, qui sul Blog come in mille altre occasioni (articoli, conferenze, libri), sono assolutamente personali, non voglio cioè coinvolgere necessariamente i miei colleghi né di questa scuola né di altre scuole di cui faccio oppure ho fatto parte (per ragioni che sono le più varie).
     
    E’ vero che, anche all’interno di questa scuola torinese, io appartengo all’ala ideologicamente più radicale, ma è anche vero che 50 e passa istruttori non potrebbero stare sotto lo stesso tetto se avessero “visioni” oggettivamente contrastanti.  Buona giornata a tutti!

  4. Dino io sono un istruttore CAI  dal 1984 ma non mi rivedo negli insegnamenti che Crovella sventola con tanto di bandierla CAI 

  5. Vorrei pregare chi interviene di piantarla a disprezzare pesantemente chi opera nel CAI. Il fatto che alcuni di voi non si siano trovati bene non autorizza a generalizzare. Crovella esprime opinioni personali e quindi rappresenta solo se stesso.Dino Marini

  6. Mah… sono convinto da tempo che apparteniamo a due mondi umani che sono addirittura antagonisti. Il dialogo è come fra sordi cronici: voi non capirete mai me e il mondo cui appartengo, io non riuscirò mai ad approvare il vostro modo di ragionare perché troppo estraneo ai miei valori (di vita prima ancora.che di montagna).
     
    L’unica cosa che mi viene da dire, chiosando, è che sono felice che i ragazzi/giovani che ho avuto per le mani in  tutti questo decenni siano stati formati da alpinisti “mediocri” come me: stanno con i piedi per terra, non vivono voli pindarici  ma alla sera tornano a casa dai rispettivi cari. Questo a me basta: mi sento a posto con la mia coscienza da istruttore. Speriamo che questa sia una caratteristica che ci accomunera’ tutti, a prescindere dalla mentalità in cui ci riconosciamo. Buona serata a tutti!

  7. Nel punto di morte, quello dell’estrema solitudne, ci si dedica al pensiero più caldo, che sia la mamma o chi per essa.
    Linus trovava nella coperta il medesimo conforto psicologico.
    Secondo le medesime dinamiche, l’ossessionato come il posseduto, rimugina sul medesimo oggetto, sola sede in cui si sente vivere, in csente la sua – presunta – azione nella realtà. Seppur indirizzata alla patologia.
    Reiterare, ribadire, ridondare è trattare con una promessa fatta a se stessi per riconoscersi in essa e distinguersi dai kafiri, magari sotto l’egida di un cronico complesso di Edipo mai sciolto.

  8. stai a vedere che il Crovella alla fine, con le sue granitiche certezze ed esemplare perseveranza, riesce a far saltare il banco…

  9. Mi stupisce che vi stupiate: non sono idee che ho elaborato ieri e che vado diffondendo da oggi, ma da decenni…

    mica siamo tra tuoi discepoli che hai plasmato…!

  10. Tedeschi e anglosassoni non sono affatto come dice Crovella. Io ne frequento parecchi e non sono così. Mi sa che stare in un ambiente così chiuso e autoriferito come un certo Cai, non faccia tanto bene. 
    Leggo ancora interventi del nostro per poi scriverne una visione personale, che sarà ovviamente criticata dal nostro. Ma sto prendendo appunti per smontare, a fin di bene, questo castello di lucida follia. Vediamo se ci riuscirò.

  11. Ma non sono mica un perito incaricato dal tribunale… (inoltre non ho detto che mi piace leggere perizie giuridiche anglosassoni, ho detto che mi piace il modo di pensare, in generale, degli anglosassoni). E’ evidente che non  esprimo perize tecniche, ma delle mie “opinioni”, pero’ come tu concludi non è cosa illegittima. Se infastidisce, beh… questo è un altro discorso,… pero’ non puoi condizionare il comportamento degli altri. Nella vita al di fuori della montagna mi batto aspramente contro il politically correct oggi dominante nella società, perché lo considero molto ipocrita. Lo stesso penso nei confronti del tema “compassione” qui sollevato… io amo essere schietto: le frasi che hai riportato le penso veramente (non solo con riferimento al fatto di specie) e sono lucidamente convinto che il mondo della montagna farebbe un salto di qualità se si liberasse dell’ipocrisia e si mettesse a ragionare in un modo più distaccato (mi verrebbe da dire in modo più “s-pietato”). Cmq io queste cose le dico esplicitamente da decenni sia nella mia attività didattica che nei miei interventi pubblici (articoli, conferenze ecc). Mi stupisce che vi stupiate: non sono idee che ho elaborato ieri e che vado diffondendo da oggi, ma da decenni… Invece io sono stupito del fastidio che esprimete. Se vi interessa il dibattito, la differenza di pensiero dovrebbe attirarvi  non infastidirvi… Boh… Ciao! 

  12. Dici bene, Crovella: bisognerebbe prendere ad esempio le analisi sugli incidenti che vengono fatte nel mondo anglosassone.
    Bene: dimmi se ne trovi una sola, di quelle analisi che prendi a modello, dove vengono usate le parole che tu hai usato: “ma figurati se uno al top non va a ficcarsi in un canalastro repulsivo e sottovento…mica si “abbassa” a trastullarsi sulle piste come l’esercito di banali scialpinisti”, “la foga che prende chi non sa ragionare, almeno in quel preciso istante”, “In quel momento la mente era ottenebrata”, ecc.
    Va bene essere spietati, ma qui (e nel caso di Valentina Mora) sei andato oltre. Qui non c’è soltanto la lucida analisi dei fatti (che sarebbe non solo legittima, ma anche utile), ma c’è anche un giudizio morale, di pancia, uno stigma. C’è quasi disprezzo.
    E’ questo che infastidisce tanti lettori, tra cui me. Tu ovviamente rimani liberissimo di scrivere quello che vuoi, così come chi ti legge. Opportunità è la parola chiave.
    Buon proseguimento.

  13. E con questo oggi siamo a 7 interventi su 15 su questo articolo, per un totale di 162 righe.
     
    Non ti pare di esagerare un minimo? Magari potresti farti un blog tuo… 

  14. Scusate intervengo solo perché, nel frattempo, ho maturato  l’impressione che ci sia un equivoco strutturale, che però è un dato fondamentale dei ragionamenti e quindi va chiarito. Ovvero: la mia valutazione critica nei confronti degli errori commessi in montagna è del tutto indipendente dall’esito fatale che ne deriva.
     
    Di conseguenza andare su un pendio ripido e completamente sottovento dopo una settimana di precipitazioni e soprattutto molti giorni con vento forte dalla Francia (come era appunto accaduto nell’episodio) avrebbe attirato le mie critiche anche in totale assenza di incidente.
     
    E’ un classico esempio di errore strategico: quel giorno lì non ci si doveva proprio ficcare in quel particolare versante, a prescindere dal fatto che sia poi accaduto un incidente. A maggior ragione perché proprio di fronte c’è il comprensorio di San Sicario (con piste chiuse come sappiamo), dove si poteva godere di una splendida giornata di scialpinismo in totale serenità.
     
    Specie nei mie scritti (e nelle mie conferenze) mi capita di utilizzare abitualmente esempi tratti dai fatti di cronaca. Mi serve per farmi comprendere meglio dagli interlocutori. Purtroppo un evento, se arriva sulle pagine dei giornali, è perché ha comportato dei problemi o addirittura un esito fatale. Ma non ragiono così solo sugli incidenti riportati dai giornali. Per esempio quando sono in gita con allievi e vedo una traccia “cazzuta” (magari un taglio da urlo), fatta da altri e ancora visibile, la indico esplicitamente ai mie allievi e dico “ecco quello è un esempio di cosa NON dovete MAI fare in montagna”. E’ il mio modus operando abituale.
     
    Nella mia vita mi è capitato di frequentare gruppi anglosassoni o tedeschi (specie del Nord) e ho verificato che la s-pietatezza è la loro condizione abituale. Mi sono chiare le motivazioni ideologiche (che travalicano la montagna in senso stretto), ma non utilizzo altro tempo per illustrarle. E’ una questione di mentalità generale.
     
    Invece la mentalità imperniata sulla “compassione” purtroppo non consente di evidenziare con oggettività questi insegnamenti agli occhi degli allievi, che, specie se giovani di età, possono ancora essere plasmati e indirizzati in una o nell’altra direzione, a seconda dei formatori che incontrano. Questo è il punto specifico sul quale sono molto sensibile e sono arciconvinto da decenni che la  mentalità della “pietà” produca danni nella testa dei giovani, non effetti positivi. Altre riunioni mi attendono per cui saluto. Ciao!

  15. @44: il 46 coinvolge anche le tue osservazioni.  La mia posizione ideologica su tutti gli incidenti di montagna (dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri) è che essi al 95% derivano da errori umani (solo il 5% è fatalità e tra l’altro mi pare che quest’ultima sia una percentuale “ideologica” riportata anche dai manuali del CAI).
     
    La propensione alla compassione è caratteristica mediterranea. Ci sta, ma dovete accettare che esistano posizioni diverse: per esempio, in generale i nordici (tedeschi ecc) e in particolari gli anglosassoni hanno un approccio diverso dal vostro.
     
    Io personalmente sono convinto che occorra utilizzare gli episodi di cronaca per insegnare ai giovani a evitare gli errori compiuti, a iniziare da quello strategicamente più grave e spesso determinante, cioè quello compiuto a tavolino sulla scelta dell’itinerario dove poi si andrà. Ciao!

  16. @42 chi mi conosce sa che sono così (s-pietato) in tutti i risvolti dell’esistenza. Non c’è nulla di preconcetto né verso di te né verso gli episodi. Ciao!

  17. Un giornalista una volta chiesero un commento a un esperto in merito a un incidente in montagna.
    “Non c’ero”. Rispose.

  18. intatnto si scrive “temo du ti debba” e “non temo ti devi”.
    si chiama consecutio temporum e dovrebbe appartenere in via naturale a chi millanta esperienza quarantennale di pubblicista, giurista scrittore e quant’altro.
     
    Il problema in realtà non è la compassione, che può anche non esserci ma proprio l’inopportunità che un qualcuno che non era presente, che non ha visto i luoghi che nulla sa sulla dinamica (me lo detto a mmmmio cugino però…), che non sa nulla delle valutazioni fatte da chi era sul campo si permetta di pontificare da distante sulla cialtroneria da squalo di chi è morto (e che aveva una competenza specifica quale milione di volte superiore a quella di scrive con toni, su CAla Cimenti e VAlentina, che lo qualificano come un misero anche umanamente).
    Allora questo pontificatore da strapazzo, che ormai passa le sue giornate appoggiato al bancone di quel metforico bar a aprlar solo di e cons e stesso, ben potrebbe da oggi cominciare a s c rivere di quanto fossero imbecilli e non rpesenti a se stessi ma alla propria pancia 
    lionel etrray
    patrick berahul
    erand loretan, 
    matteo bernasconi
     
    matteo pasquetto
    renato casarotto
    guido machetto
    lorenzo pomodoro
    Franco Piana
    tutte persone dalla esperienza e competenza smisurata morti in luoghi banali facendo una cazzata.
     
    Allora non è un problema di squali è che nella vita si sbaglia e si muore. Accade, è connaturato all’uomo. 
    E potrebbe tranquillamente accadere anche a te o a me, se il signore o il fato o il karma a seconda delle inclinazioni, a deciso che da qualche parte c’è una valanga un pietrone, un lastrone o un autobus che ci aspetta. Alla faccia di qualunque presunzione caiana da quattro soldi. 
    Continuare a voler generalizzare e dividere fra buoni e cattivi, fra chi si salverà perché razionale e chi morirà perché istintivo è un’operazione stupida, becera, priva di senso e prima di tutto squallida.
    E tossica per questo blog, ormai più morto  del mar dei sargassi. 
    Soprattutto verso gli amici e i cari di quelle persone che potrebbero leggere i tuoi deliranti borbottii.
     Detto ciò, perchè mi andava di dirlo, vi saluto e seguo le orme di PAsini.
     
    Alla fine ne rimarrà uno solo, come un highlander del bar dello sport. 
     
     
     
     

  19. Carlo, non si tratta affatto di stile di vita, che è personale.
     
    Ripeto: si tratta di compassione verso i morti.
    Beninteso, ferma restando la possibilità di criticare i loro errori, posto che ne abbiano commessi, però usando un tono appropriato alla situazione. E la situazione è quella di una tragedia.
    … … …
    Ho detto tutto ciò che volevo esprimere sul tema. Ritengo di averlo fatto in modo chiaro e rispettoso. Dopo di che chi vuole capire capisca.

  20. c’è chi ha dei sentimenti e li antepone a tutto nei rapporti umani. Comportandosi con rispetto e delicatezza nei confronti di chi è  coinvolto direttamente e direttamente (amici e parenti) in eventi tragici.
    Chi invece questi sentimenti e questa delicatezza non li possiede,  ritiene chi li ha dei deboli. Non si fa scrupoli di  sputare  sentenze e commenti truci senza porsi minimamente il problema di mancare di rispetto di chi non c’è più, ne di rigirare  il coltello nella ferita del dolore a chi è rimasto.

  21. Fabio guarda, solo per spirito di “amicizia” ti rispondo, spero traspaia un clima di pacatezza e cordialità, ma non voglio ricominciare questa solfa come con Pasini. Sul punto incidenti in montagna penso così da tempo, anzi da sempre ho un approccio “spietato” (“s” privativa della pietas latina) e non solo con riferimento a questi tre personaggi. Così mi è stato insegnato e così io insegno da decenni.
     
    Può starci che il mio stile di vita non ti piaccia, ma fa parte della libertà di ciascuno. Lungi da me pormi l’obiettivo specifico di innervosire te in particolare, ma non posso pensare di modulare le mie idee solo perché Tizio non approva o Caio è innervosito o Sempronio biasima… bhe… non andrei da nessuna parte, sarei prigioniero della gabbia costituita dalle valutazioni degli altri.
     
    C’è sempre qualcuno cui non si piace, a volte sono “molti”, ma se uno è davvero convinto delle proprie posizioni ideologiche, non si fa scalfire dal “mood” dell’ambiente. Non ti chiedo di stravolgere la tua scala di valori, però tu non chiederlo a me. Evidentemente anche su questo punto le nostre  visioni sono antitetiche, non ci capiremo mai e non riusciremo mai a convincerci l’un l’altro. Però se questo è uno spazio di dibattito, ci deve essere spazio anche per idee che infastidiscono, sennò questo non è più un dibattito ma è un organo di stampa di un certo orientamento ideologico… Può starci una scelta del genere, ma non credo che spetti a noi lettori prendere questa decisione, l’ho già detto più volte.
     
    In ogni caso, anche se con una modalità “en passant”, il commento 26 già introduceva il tema che quell’incidente non l’azione della montagna assassina, ma la conseguenza di scelte personali. Io sono convinto da decenni che fare l’osanna di questi (presunti) eroi “ingiustamente ghermiti dalla montagna” è sbagliato e soprattutto è fortemente antididattico verso le giovani generazioni. Questo punto qui è quello cui sono estremamente sensibile: difatti io agli allievi faccio un discorso diametralmente opposto. Però ognuno porti avanti le sue idee, ci mancherebbe. Buona giornata!

  22. Carlo, io biasimo la freddezza che traspare nei tuoi commenti verso tre poveri morti in montagna (comprendo pure Valentina).
    Ammesso ma non concesso che essi abbiano commesso errori, a loro è dovuta compassione, prima di ogni altra cosa.
    Poi si potranno analizzare eventuali sbagli, ma anche in questo caso adoperando parole appropriate.
     
    Ripeto: delicatezza, rispetto, pietà.

  23. @36 temo ti devi rileggere il mio precedente commento. I miei conoscenti (in genere conoscitori della specifica zona dove è avveuto l’incidente in questione) la pensano come me, ci siamo sentiti ovviamente nei giorni successivi. Uno può avere quattordici palle, ma se sul punto specifico si fa prendere in modo irragionevole. Quel giorno – dopo tutto il vernto che aveva tirato – era irragionevole andare proprio “lì”, in un ripido e repulsivo canale completamente sottovento… é irragiobevole in assoluto, doppiamente se si valuta che proprio di fronte – al sole, su bellissimi pendii placidi e sciistici a meraviglia – c’era il ben di Dio… Al sole e al sicuro poteva far su e già anche per 5000 m disl in giornata, sempre su itinerari facili, piacevoli e goduriosi. E sarebbe tornato a casa alla sera. Se preferire la scelta che espongo io significa essere malato di mente, misero e conformista, preferisco mille volte esser un misero malato di mente che un himalayanista di punta!!!!!!
    A maggior ragione stride un errore del genere commesso da uno che aveva la sua esperienza. Le considerazioni che molti tuoi colleghi esprimo sull’importanza dell’auto-responsabilizzazione valgono per tutti, ma a maggior ragione per i “forti”. Della serie: Caro “estremo”, vuoi fare così? Per carità fai pure, ma io ho il diritto di esprimere il mio dissenso verso scelte scellerate sul piano ideologico.
    Bisogna avere il coraggio di dire apertamente queste cose: anzi non solo non mi strappano la patacca, ma spesso anche le istituzioni si congratulano con me perché il “vero” istruttore CAI non dice le cose che piacciono a voi, ma l’opposto (cioè, più o meno, quelle che esprimo io). Probabilmente è questo che vi manda fuori dai gangheri. Però dovrebbe farvi riflettere…
     
    In ogni caso, anche se fosse fondato il fatto che sono misero, spocchioso, stupido, spelacchiato, vecchio e…caiano (mai negato di esser tutto ciò, anzi…) resta il punto che, se in questo sito può parlare chiunque, non si capisce perché dovrebbe essere censurato un poveretto di mente come me… Buona giornata!

  24. Crovellla, continui a parlare della morte di persone in montagna senza conoscere nulla, e tranciando giudizi dal basso della tua ideologia preconcetta. 
    Scrivere  pubblicamente con una tale volgarità di quel che passava per la testa o per la pancia di Cala Cimenti in quel momento è un atto stupido che solo un poveretto può compiere pubblicamente senza provare vergogna. 
    Permettersi di valutare le scelte di uno che in montagna aveva quattordici palle in quel momento è un atto umanamente e tecnicamente scellerato che ti qualifica e mi fa senso  che non ti abbiano ancora stracciato il miserrimo distintivo che porti perché ti squalifica come individuo e come istruttore caiano  (ma non mi stupisce perché io la patacca  l’ho data indietro molti anni fa proprio perchè non mi riconoscevo nell’anima ipocrita  del “sodalizio”) e mi fa ancora più senso che chi quarantanni fa scriveva di nuovi mattini non ti chieda fermamente e pubblicamente di piantarla  con questa porcheria.

  25. @29: non provo nessuna vergogna perché sono 40 anni che penso, scrivo e diffondo queste idee… di che dovrei vergognarmi? della scala dei mie valori etici ed esistenziali? Se avessi tempo, andrei a recuperare nell’archivio cartaceo (allora non esistevano neppure i PC… scrivevo a mano su un block notes) i mie primi articoli di opinione, parliamo degli anni ’80 e questa filosofia era già ben delineata. Sia nella mi attività sul terreno che in quella didattica (con un numero di allievi che ho già quantificato nei giorni scorsi, non voglio ri-citare il punto, ma mi limito a dire che non si tratta a 3 o 4 persona in 40 anni) sia nei mie scritti, libri e conferenze…questa ideologia ho sempre manifestato e diffuso. I tentativi di offendere, non solo da parte tua ci mancherebbe, rientrano nel meccanismo de “Il Re è nudo”.

  26. Guardate che la platea di persone che la pensa come me è numericamente sterminata, probabilmente superiore a quella allineata con la vostra visione della montagna. E ciò accade anche fra i lettori sistematici di questo sito. Solo che non amano lasciar traccia. Nessuno immagina quanta gente mi scrive in separata sede per esprimermi sostegno in questa mia azione politica (politica, non partitica) di diffusione di una concezione opposta a quella oggi dominante (quest’ultima è quella che io chiamo del No Limits).
     
    Quando ricevo queste mail, io rispondo loro che mi fanno molto piacere le loro manifestazioni di sostegno, ma li invito a lasciar anche loro traccia con dei commenti, per far capire a tutti che la mia non è idea isolata, di un “pazzo” che urla la vento. La risposta in genere è del tipo: “ma no…, figurati se ho voglia di ficcarmi nelle polemiche, pensaci tu che hai la personalità giusta per queste cose…”.
     
    Nessun mio problema psichiatrico, quindi. Trattasi del fatto che voi partire da un assioma errato, ovvero che chi va in montagna la pensa solo come voi. C’è una concezione a voi opposta che è numericamente molto diffusa, anzi per l’esperienza che ho io (guardando l’ambiente umano che incontro sui monti o che frequento istituzionalmente) è di gran lunga più numerosa della schiera che la pensa come voi. E’ gente che parla poco sui siti di montagna, specie se alla moda, perché non ama parlare proprio sui siti oppure non ama farsi risucchiare in polemiche con interlocutori come voi, ma non significa che non esista. Anzi.
    Quanto all’alpinista mediocre (riferito alla mia persona), mi pare che (nonostante la mia mentalità “conservativa” – della propria vita innanzi tutto), di cose in montagna ne ho fatte da togliermi la voglia, sia quantitativamente che qualitativamente.  Preferisco avere la mia mentalità conservativa e aver fatto quello che ho fatto – anche su livelli “mediocre (?) – piuttosto che esser stato un estremo di cui ora si parla la passato…
    Inoltre non pare che vi sia chiaro su questo Blog  sia riconosciuto spazio anche a escursionisti ecc. Lo dico con il massimo rispetto verso questi ultimi, perché probabilmente faccio parte anche io di questa categoria, quindi non ho proprio intenzione di “sminuire” gli escursionisti, anzi. Il punto è che qui non è richiesto di saper “chiudere” un certo grado per potersi esprimere, chiunque può farlo. Mi pare che questo principio  sia chiaro ed è stato ribadito più volte dalla redazione. In ogni caso, il padrone di casa può decidere come vuole, ci mancherebbe, ma non mi sembra che, sulla “selettività” del diritto a esprimersi in questo Blog, sia allineato con i vostri desiderata. Forse è proprio questo che vi manda in bestia (vedi commento 30).
     
    La vostra irritazione mi sa tanto che dipenda dal fatto che “dovete” demonizzare uno che, contrapponendosi alla vostra ideologia, dice a tutti “Il re è nudo”. Se non mi demonizzate, la massa dei lettori si accorge che la realtà è come dico io, e questo farebbe crollare il vostro castello di carte. (Cmq il tema specifico è stato introdotto dal commento 26…). Voi non avete idea di quanta gente la pensi come me, anche sull’episodio specifico dell’incidente citato. Altro che malati di mente… Buona giornata a tutti!

  27. «[…] la foga che prende chi non sa ragionare, almeno in quel preciso istante. […] In quel momento la mente era ottenebrata. […] ha dominato la pancia
     
    Senza parole.
     

  28. Manca davvero il sempice buon gusto di  dover sempre avere obbligatoriamente  l’ultima parola indipendentemente dalla bontà dell’argomento e dei pensieri fatti. 
    Sono problemi psichiatrici di disturbo della personalità curabili (e probabilmente provocati) solo da eventi traumatici e non da medici. 
    Una costante posizione simile disgrega anche i pensieri positivi che a volte possono esserci dietro. È incredibile che l’autore continui a non rendersene conto. Sic.

  29. “ma figurati se uno al top non va a ficcarsi in un canalastro repulsivo e sottovento…mica si “abbassa” a trastullarsi sulle piste come l’esercito di banali scialpinisti… Ecco il cancro della attuale società del No Limits, ti cissa a fare delle cose che non sono consone con il quadro del momento.”
    Sarebbe forse giunto il momento di piantarla. soprattutto se a scrivere simili scempiaggini è un mediocre istruttore calano di scialpinismo.
    e soprattutto un cialtrone che continua a sparlare della morte di persone in montagna senza sapere e senza conoscere.
    evidentemente chi scrive è senza vergogna. chi lo ospita, se ancora esiste una redazione che non sia composta solo dall’autore di queste cialtronerie, dovrebbe caldamente invitarlo a piantarla.
    E’ offensivo, per chi non c’è più e per i lettori.
    per quanto mi riguarda ne avrete uno in meno. 
     

  30. Ma non provi nemmeno un briciolo di vergogna a rileggere quello che hai scritto?

  31. leggo solo ora a distanza di tempo, ma in effetti chi conosce bene la zona della valanga Cimenti (pendio ripido e soprattutto sottovento dopo giorni di precipitazioni e vento molto forte…) sa che andarci lì in quel preciso giorno è stato un abbaglio incomprensibile. A maggior ragione se dall’altra parte della valle, verso le piste di San Sicario (quest’anno con impianti chiusi) c’è abbondantissimo spazio per farsi anche 5000 m di dislivello salendo e scendendo per itinerari sempre diversi… ma figurati se uno al top non va a ficcarsi in un canalastro repulsivo e sottovento…mica si “abbassa” a trastullarsi sulle piste come l’esercito di banali scialpinisti… Ecco il cancro della attuale società del No Limits, ti cissa a fare delle cose che non sono consone con il quadro del momento.
     
     
    L’episodio è il classico esempio della foga che prende chi non sa ragionare, almeno in quel preciso istante. Che poik sia stato un eccellente hymalaianista, è irrilevante. In quel momento la mente era ottenebrata. Quando è così la montagna non perdona. Il fatto che uno, come persona, fosse simpatico o meno, idealista o meno, genuino o meni è del tutto irrilevante. Un errore è un errore. Ecco perché io sono estremamente rigido sulle procedure mentali in montagna: basta sbagliare una volta su un milione, ma quell’errore può essere fatale. In montagna deve sempre comandare la testa, non il cuore o la pancia. La testa, quel giorno, avrebbe detto di andare di fronte, al sole, sulle piste di San Sicario, con neve bella, pendii tranquilli e sciabilissimi…potevano salire e scendere da togliersi la voglia…invece no, ha dominato la pancia, sono andati alla ricerca dell’itinerario figo, ripido, rognoso… Quando è così, non è la montagna che è assassina, è l’uomo che va a cercarsela…

  32. @Giorgio Daidola. Ho apprezzato il tuo articolo, come tutti i tuoi articoli, a partire da quelli storici sula RdM.
    Devo dire però che mi spiace veramente, proprio da te, veder etichettato “Cala” Cimenti come un moderno kamikaze. Non so se hai mai avuto modo di incontrarlo o conoscerlo, ma era tutt’altro che un kamikaze.  Semmai, come capacità sciistiche e alpinistiche, un alieno. Un alieno simpatico, sorridente e pieno di vita. Una splendida persona.
    E’ successo. E Cala lo aveva messo in conto. Da professionista sciava tutti i santi giorni ed è evidente che così ti esponi ai rischi anche proporzionalmente al numero delle giornate che passi in montagna con gli assi sotto ai piedi.

  33. Rispondo a Luigi, intervento n. 20. Sono  le guide che erano con il cliente deceduto che hanno affermato (sui giornali e al processo) che, aperto l’air bag, il poveretto è rimasto si a galleggiare sulla slavina ma senza poter controllare la direzione in cui veniva trascinato, finendo così violentemente contro un pino. A me non sembra che si tratti di una spiegazione “senza senso “. Con l’air bag aperto infatti si naviga: tutto va bene se non si va a sbattere. Con l’air bag chiuso si può tentare di scappare sciando, come riuscirono a fare le due guide.
    Per quanto riguarda la valanga che ha travolto Cala Cimenti e compagno dopo la pubblicazione di questo articolo  è deprimente leggere in un grande quotidiano come il Corriere della Sera un articolo che fa pensare alla “solita valanga assassina”. La Cima del Bosco è infatti una delle gite più facili e sicure della zona. La verità è che i due si trovavano sul versante opposto a quello normale di salita, un versante ripido e pericoloso, e questo dopo una settimana di nevicate e di  vento, con accumuli importanti. Purtroppo anche quest’anno febbraio 2021 si conferma “il mese delle valanghe”, con incidenti in zone dove si dovrebbe andare solo con altre condizioni di neve. Purtroppo fra i moderni scialpinisti creativi la categoria del kamikaze è molto ben rappresentata.
     

  34. Durante la settimana scorsa tutti i bollettini segnalavano rischio 3. Io stesso sono uscito in settimana nel limite del bosco ed ho evitato accuratamente di andare oltre, non tanto e non solo per i bollettini, ma perché ad un esame solo visivo erano evidenti paurosi accumuli da vento. Sabato ho arrampicato in falesia e sulle creste delle montagne si vedevano pennacchi enormi di neve trasportata. Ho visto piccole valanghe anche al limite del bosco dove  le piante sono  più rade. Tra sabato e domenica ho sentito e letto relazioni di amici; ogni pendio di neve fresca è stato letteralmente preso d’assalto e arato. La scala di rischio non è lineare e quindi grado 3 (su 5) è molto elevato e io stesso ho constatato lo stato dei pendii; non riesco a capacitarmi di come si possa correre rischi così elevati. 

  35. Vorrei ricordare anche la scomparsa l’8 di Febbraio di Cala Cimenti e Patrick Negro, volontario del soccorso alpino e impiantista di Sestriere, travolti da una valanga in fase di salita con le pelli. 

  36. Roberto, venti nerbate sul groppone per carenza di congiuntivo. Anzi, solo dieci: ti sei salvato in zona Cesarini.

  37. Da notate che Graeme azionò prontamente l’air bag e proprio per questo motivo finì violentemente contro l’albero che ne causò il decesso.
    Quali sono le fonti di questa affermazione, che francamente pare completamente senza senso? 

  38. “Ma siamo sicuri che il grosso degli incidenti da valanga capitano ai saltatori? “
    Ma penso proprio di no, ma quello che ho scritto, mutatis mutandis, vale per la neve fresca o meglio per la powder.
    O anche per le pieghe in moto

  39. Sorry. Influenzato dal nuovo ministro dell’Educazione ho scritto capitano invece di capitino.  Ahi Ahi 

  40. Ma siamo sicuri che il grosso degli incidenti da valanga capitano ai saltatori? Mi sembra che i dati di cui abbiamo discusso in passato e che poi sono stati aggiornati da Monaco con i dati francesi non dicano questo. Monaco, per favore se ci sei, esci dall’abbazia gallica e dacci un tuo competente contributo ancora una volta. Grazie.

  41. “mi sono sembrati molto fifoni prima della mia autorizzazione a poter saltar giù da una roccia e via discorrendo. E sono quelli dei filmati incriminati nell’articolo. “
    Credo che in realtà il problema vero stia proprio qui, nel cortocircuito che si crea nel cervello mediadipendente del loro coetaneo, infinitamente meno abile, che vedendo saltare le star vuole provare a farlo anche lui, senza minimamente supporre cosa c’è dietro al video (nella fattispecie il sempre illuminante Cominetti).
    E quindi va a cercarsi rocce e salti nei posti e nelle situazioni più improbabili e senza senso, potenzialmente pericolosi
     

  42. Io sarei per il iberi tutti. L’esperienza di cui si abbisogna passa attraverso lezioni ed errori. Tutto a proprie spese. Normare, burocratizzare, istituzionalizzare, ecc. non ferma le valanghe né chi vuole lanciarsi in attività,  per alcuni  ritenute folli. È tutto relativo. L’altro ieri ho lavorato con dei ragazzi freeriders del team TNF. Bravi a fare acrobazie ma completamente decontestualizzati dall’elemento neve e suoi rischi. Cosa dovevo fare? Sgridarli? Spero non si accoppino, certo, ma mi sono sembrati molto fifoni prima della mia autorizzazione a poter saltar giù da una roccia e via discorrendo. E sono quelli dei filmati incriminati nell’articolo. È difficile descrivere quel mondo allo scialpinista classico e rigidotto. Io non mi colloco, perché piacerebbe anche a me fare salti con avvitamenti e capriole, ma sono ormai fisiologicamente fuori tempo massimo e la cultura che ho non mi favorisce.

  43.   Ci si concentra sugli incidenti, ma sfuggono nei conteggi le gite sci alpinistiche e ciaspolistiche andate a buon fine…anche di neofiti alle prime armi…che col tempo impareranno meglio.Occorrerebbe un  social con contatore di “partiti e tornati a casa sani , salvi e felici”.Oltre alla “montagna assassina” assai cercata da giornalisti,  esiste anche la”montagna  benefica”…o” magnanima”.

  44. Più che “dettate dai nostri geni” penserei che i geni sono forze che agiscono nella ressa di molte altre cangianti nel tempo di direzione e intensità.
    Essere autori del proprio destino è un espediente esistenziale idoneo a restare nel qui ed ora, ovvero al miglior benessere possibile.

  45. mi dispiace per i neo-scialpinisti che abbagliati dai molti “filmati” promozionali con bellissime discese su neve farinosa ed intonsa, vivranno enormi delusioni. Ne trarrà immenso piacere chi con umiltà si appresta a vivere la montagna invernale in modo semplice e silenzioso.

  46. Lasciamo da parte le influenze della società. Le scelte sono sempre individuali. A parte le vittime dell’inesperienza, esiste, è esistita in passato e probabilmente esisterà sempre una quota di persone, statisticamente più numerose nelle fasi giovanili o centrali della vita, che desidera senzazioni forti ed è disposta ad accettare rischi più elevati, a prescindere dal contesto di riferimento e del tempo. Mio padre, uomo di marina, mi ha raccontato che era così anche in guerra. C’era la fila per imbarcarsi sui sommergibili, dove tutti sapevano che l’eccezione era sopravvivere. Un profilo di personalità ampiamente studiato in letteratura e rappresentato in numerosi film e romanzi, compreso il problema del ritorno alla quotidiana normalità. Possiamo giustamente predicare ed educare alla virtù della moderazione e della prudenza che non esclude la “fortezza” e auspicare il giusto equilibrio tra le due, ma nella realtà non funziona cosi’. Gli squilibri esistono. L’armonia si realizza spesso non nell’attimo fuggente ma nel corso di una vita, se si riesce a vivere abbastanza. Esistono le code della distribuzione. Se l’umanità continua a generare il tipo umano più amante del rischio vuol dire che questo profilo darwinianamente è funzionale all’evoluzione della specie. La società li giudica eroi o folli. Di solito sono giudicati dai più eroi se operano in certi contesti considerati socialmente“utili” e “folli” se operano in contesti considerati meno utili. Ma questi sono giudizi morali che lasciano il tempo che trovano e dipendono dal criterio di utilità che si adotta. La realtà è che ognuno di noi è arbitro del suo destino (forse) e non sappiamo bene se sia davvero una libera scelta o una risposta dettata dai nostri geni. Per questi motivi io personalmente condivido l’incitazione e l’educazione alla prudenza, ma non mi azzarderei mai a giudicare e ad etichettare. 

  47. Molto interessante quanto segnalato dal commento 6. Tuttavia mi chiedo come mai i neofiti (in questa fase=pistaioli riciclati per necessità) si debbano per forza “buttare”, senza la dovuta esperienza, in itinerari di “vero” scialpinismo, lontano dalle piste, con tutti i rischi annessi. In questa fase la chiusura degli impianti offre terreni di gioco piacevolissimi  da sfruttare appieno con le pelli e con rischi quasi azzerati, o cmq molto inferiori a quelli degli itinerari lontani dalla piste. Come ho raccontato nel commento 27 dell’articolo 13 febbraio (cui rimando) ieri sono stato piacevolmente impressionato dalla frequentazione matura e responsabile che ho visto nel comprensorio di San Sicario (Val Susa), con impianti chiusi, da parte di molti evidenti neofiti della montagna invernale, sia con sci che con ciaspole. Era bellissimo e credo che tutti si siano divertiti, senza esporsi ai rischi degli itinerari “veri”.
     
    Epperò se vai in giro a raccontare che hai fatto delle gitine, quali sono quelle concretizzabili lungo le piste, non ottieni la stessa ammirazione che se vai a raccontare che hai fatto 2000 m di dislivello e sciato sul ripido (?!). E’ lì il punto cardine. In questa fase storica connessa alla pandemia, io ho deciso deliberatamente di fare solo gitine. I motivi soli ho spiegati nei commenti collegati all’articolo pubblicato il 30 gennaio (sintetizzabili nella scelta, presa lucidamente, di minimizzare a priori i rischi al fine di NON rischiare di pesare sul sistema sanitario in affanno dopo un anno di emergenza generale). Ora mi chiedo: se razionalmente e deliberatamente decide di fare gitine (almeno in questa fase specifica) uno come me che fa montagna, scialpinismo in particolare, da 55 anni su 60, che è istruttore titolato da 40 anni, che è stato Direttore di una delle Scuola più importanti d’Italia, che da 40 anni ininterrottamente redige articoli e libri in materia… ma perché fare gitine deve essere percepito come un “disonore” da parte dei neofiti???
     
    E’ questo il meccanismo chiave: è evidente che la nostra società, quella del “No limits”, spinge inesorabilmente in una direzione che è antitetica ai concetti di prudenza e moderazione citati da Daidola. Per questo, io combatto accanitamente contro il sentiment dominante in montagna (non soilo innevata). Va aggiunto che, come ho scritto nel commento 29 dell’articolo 13 febbraio, la “cannibalata” è dietro l’angolo anche per l’esperto, per cui (in questa fase storica) è opportuno che tutti tirino il freno a mano e stiano molto molto tranquilli. “Volare basso”, questa dovrebbe essere la parola d’ordine al seguito della combinazione fra criticità generale (con sistema sanitario sotto pressione) e inverno particolarmente nevoso, con molto vento e condizioni critiche e, in certi casi, difficili da decifrare anche per gli “esperti”.  Trattasi di discorsi che fanno venire l’orticaria a chi ha un’innata propensione verso l’attività esuberante e/o a chi concepisce la montagna come il terreno per scatenare la libertà incondizionata, ma non nascondiamoci dietro un dito: la stragrande maggioranza degli incidenti in montagna deriva da errori umani a loro volta conseguenti all’Overconfidence. Ciao!

  48. Argomenti a favore di una pratica prudente e sotto dimensionata nella confidenza , specie per neofiti o amatori.( professionisti o espertissimi dotati di esperienza,  con tecnica e fisico integro, esclusi)
    1- non sempre i soccorsi sono rapidi e puntuali come  nei filmati di serie tv del filone May Day…a volte stentano, specie se in cattive condizioni di tempo o piu’chiamate contemporanee oltre le disponibilita’.
    2-anche se rapida    ed efficiente la catenadi  allertamento,  soccorso alpino, elicotteri, ambulanze, medici, rianimatori, farmaci ecc .ecc..GLI EVENTUALI TRAUMI CON CONSEGUENTE DOLORE E CURE , postumi e RIABILITAZIONE  ECC.  che possono accadere in una pratica esasperata -temeraria della tecnica  o  per  effetto di  botta di valanga SONO SOLO  a carico DEL MALCAPITATO.Non le puo’ regalare a nessun altro, con in piu’  appioppo di seccature ai parenti nell’assistenza .  Spesso  il “ricordino “si fa vivo  anche a distanza temporale quando cambia il tempo con doloretti o sempre a vista se ci sono tagli ricuciti.

  49. Ottimo articolo. Perfetto.
    Per il commento, oltre a quello che nota Crovella, occorre  aggiungere ( Daidola lo dice e ne sottolinea la mentalità) che, in particolare, questo inverno c’è un numero spropositato di “nuovi” scialpinisti causato dalla chiusura degli impianti.. So che da inizio gennaio sono finite tutte le scorte di sci da scialpinismo nei negozi e, in alcuni casi, nelle fabbriche…Alla partenza di gite sci alpinistiche c’è spesso un numero enormemente più elevato di sci alpinisti, mai visto prima. L’attrezzatura è spesso in ordine e completa, e in molti casi anche la preparazione “teorica” ( conoscenza bollettini, ecc ), non sempre l’esperienza sul campo nel leggere il terreno,ma ovviamente il numero stesso di persone, per effetto matematico aumenta la quantità di potenziali incidenti. Infine è uno degli anni più nevosi degli ultimi decenni. Giusto: aspettiamo la primavera in gloria e buone sciate in sicurezza.

  50. Tanto per alleggerire , ebbi occasione anni fa di vedere una puntata molto datata , uno dei 588 episodi varie annate  di   telefilm Lassie, in cui il prode   Collie ,alle prese con un valanga salvava un disperso in ambiente invernale.Come precauzione , (veramente in uso  o solo funzione teatrale? non saprei), uno sciatore  su neve fresca usava un pallone  gonfiato ad elio,legato alla cintola,  che  lo seguiva nei volteggi ,alto alcuni metri sopra e..sporgeva anche da strato di neve  che lo  aveva travolto.Ovviamente trovato in tempo utile, immancabile lieto fine, ..ma chissa’ se effettivamente funzionante.  Trovato questi test, non  da elettronica dipendenti…saranno stati testati pure in Italia?
    https://lawinenball.com/tests

  51. Dall’odierna lettura della rassegna stampa. Fonte AGI (Agenzia Giornalistica Italiana). Per il cambiamento climatico, il quadro generale è oggettivamente più rischioso rispetto a quello in cui si muovevano i nostri padri anagrafici e ancor di più rispetto a quello dei “padri” dello scialpinismo, così ben descritti da Diadola. Per cui dovremmo avere il freno a mano tirato diecimila volte di più, anziché pigiare sull’acceleratore, come purtroppo vedo in giro sempre più spesso.
    In Italia si è verificata quest’anno più di una valanga ogni tre giorni che ha causato vittime e danni per effetto dell’andamento climatico anomalo.

    E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base della elaborazione dell’European Severe Weather Database (ESWD) che conta in Italia ben 18 valanghe nel 2021, piu’ di quante sono state rilevate nell’intero 2020.

    “L’ultima ondata di maltempo con la caduta abbondante della neve conferma la tendenza al moltiplicarsi di eventi estremi i cui effetti si fanno sentire sull’ambiente e sulla natura dove aumenta l’instabilità e sono sconvolti i normali cicli stagionali”.
    Siamo di fronte in Italia alle conseguenze dei cambiamenti climatici con una tendenza alla tropicalizzazione e il moltiplicarsi di eventi estremi con una più elevata frequenza di manifestazioni violente, sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi e intense ed il rapido passaggio dal sole al maltempo che – conclude la Coldiretti – ha fatto perdere oltre 14 miliardi di euro in un decennio, tra cali della produzione agricola nazionale e danni alle strutture e alle infrastrutture nelle campagne con allagamenti, frane e smottamenti. 

  52. Articolo molto interessante. 
    Non certamente la prima volta che lo scrivo qui, ma lo scialpinismo è da considerarsi assolutamente un’attività primaverile.
    Quando in città si incomincia a pentirsi di essersi vestiti troppo uscendo la mattina presto, verso metà mattinata  ecco, quello è il miglior periodo per lo scialpinismo in montagna. 
    In inverno, con nevi fredde e polverose è meglio praticare semmai il fuoripista con gli impianti (sapendone valutare gli aspetti tecnici consci che comunque il rischio è sempre elevato) o limitarsi a gite con le pelli su pendenze modeste. Infatti la situazione più rischiosa è la salita, quando il nostro peso incide maggiormente sul manto nevoso dovuto all’alternarsi dei passi e comunque la nostra mobilità è molto bassa con le pelli sotto gli sci.

  53. Non posso che trovarmi pienamente sintonizzato con l’amico Giorgio, specie sull’eccesso di “foga” che la società consumistica del “No limits” immette impropriamente nel modo di (s)ragionare in montagna. Una frase su tutte per riassumere il concetto:
     
    Per diminuire i livelli di overconfidence e aumentare quelli di underconfidence della coda sinistra della distribuzione, non c’è altro mezzo che sensibilizzare ai valori dello scialpinismo di altri tempi, ossia la modestia e la prudenza. Senza dimenticare l’amore per la neve, che è fondamentale per capirla.

  54.  
     trovato:
    https://www.skiforum.it/forum/showthread.php?t=58389
     1-parla di una zona scistica nientemeno che a Cortina, dismessa perche’ non di moda, per principianti e famiglie e vecchietti, bella esposta al sole.  Forse era  troppo slow con impianti a seggiovia troppo demode’. I maestri di sci non lavoravano, pochi introiti.Forse oggi  ci vanno gli scialpinisti  tranquilli.
    2- pertinente il ricordo dello scialpinismo primaverile, prima  gli adepti si mettevano in tiro con sci di fondo e  addestramento su pista sicura..adesso abbiamo attrezzature costosissime e  marketing  del freeride .Ovviamente chi ha speso  parecchio e’ ansioso di  adoperare al piu’presto. 3 – sembra che oltre all’impresa eclatante , sia ormai compulsivo postare il filmetto autoprodotto e autoripreso o di gruppo, ad esempio  del canalino Holzer ormai non c’e’che l’imbarazzo della scelta:
    https://www.google.com/search?q=cnale+holzer+discesa+sci&client=firefox-b-d&source=lnms&tbm=vid&sa=X&ved=2ahUKEwjHmdbXkOvuAhUM9IUKHb2hBU0Q_AUoAnoECAwQBA&biw=1920&bih=938
    tali filmati potrebbero avere valenza didattica ma anche autocelebrativa.
    4- lo sciatore scende su un piano inclinato  di neve con coefficiente d’attrito  vario, ma anche la neve variabile  puo’  scivolare su un piano inclinato sottostante. Varianoanche le condizionimeteo e astronomiche nel sole  5- nulla vieta di usare  oltre agli aggeggi elettronici, ancora i vecchi sistemi .Si trovano a cercarli bene sul web , ventagli di cavetti  o fettucce colorati a strascico e palloni con molle interne detti “avalanche ball”e nel dubbio se fossi praticante li sguinzaglierei  prima di un fiutato pericolo,come pure il gonfiaggio di zaino anche se poi qualche duro e puro che passa a serpentina nei paraggi   ti “cogliona”.5-In  analisi matematica si definisce il concetto di limite finito in punto,  ma anche il limite destro e quello sinistro. Ci  siavvicina restando al di sotto  o andando oltre.Ma  “oltre” nello sci significa evento  brutto.  Esistono modelli fisici sofisticati di valanga e di tecnica dello sci( meccanica applicata)ma le variabili ed i  dati  relativi da immettere nelle formule chi li ha a disposizione?Vale allora nella pratica l’esperienza , il tenersi abbondantemente sotto la soglia di pericolo.A volte talmente sotto da fermarsi in comodo rifugio ,  rinunciare ,  gustarsi “prima” il premio che spetterebbe “dopo”( cioccolata calda, strudel, birra, e chiacchere su sdraio ben protetti da raggiUV e coperta e ascolto musica con cuffiette o col binocolo guardare le valanghe che si staccano da parete lontana…e le esibizioni dei temerari )

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