Metadiario – 80 – Scozia subartica (AG 1979-001)
Era il tempo di ciò che Gian Carlo Grassi avrebbe chiamato Il ponte di cristallo, con magnifica intuizione. La salita delle sottili corazze di ghiaccio traslucido che si formano d’inverno sostituendo le cascate d’acqua da qualche anno accendevano la fantasia sia di chi già prima amava le salite di ghiaccio in alta montagna sia di coloro che non avevano mai neppure tenuto una piccozza in mano.
Salire questi scivoli di ghiaccio più o meno verticali, a volte strapiombanti, con tecniche del tutto nuove ha lasciato perplesso qualche «vecchio alpinista». Come del resto già inveterata pratica al riguardo del terreno d’arrampicata sulle strutture di bassa valle, così negli ambienti tradizionali si giudicava con accondiscendente sufficienza la salita delle cascate di ghiaccio considerandola solo un allenamento per imprese maggiori.
Sul mercato erano apparsi i primi modelli di piccozze a becco più accentuatamente ricurvo. In qualche modo ci eravamo procurati degli esemplari e non vedevamo l’ora di provare ciò di cui fino ad allora avevamo soltanto sentito parlare o visto fotografie.
In mancanza di compagni il 6 gennaio 1979 andai al Pissun di Mascognaz, vicinissimo alle Fate Nere, già peraltro salito dal lungimirante Oliviero Frachey non so con quale tecnica. Buttai una corda dall’alto e mi risalii assicurato a prusik quella ventina di metri di ghiaccio abbastanza verticale. Mi resi subito conto di aver parecchio da migliorare, però fui soddisfatto dell’esperienza.
Nel frattempo dovevo anche fare progressi nello sci fuoripista, in previsione della parte scialpinistica del corso per aspiranti guida in programma ad aprile. Lo stesso problema lo aveva l’amico Renato Casarotto: decidemmo assieme di approfittare dell’invito a Courmayeur di Lorenzino Cosson, che gentilmente ci avrebbe fatto da maestro per ben due giorni. In effetti il 10 e l’11 gennaio sciammo come pazzi su e giù per i boschi pieni di neve fresca della Val Veny, cercando di assimilare la sua prodigiosa leggerezza e i suoi amichevoli insegnamenti. Soprattutto dovevamo correggere la nostra tendenza a tenere il peso indietro, accentuata per di più dallo zaino pesantuccio che di certo saremmo stati costretti ad avere sulla schiena durante tutte le giornate del futuro corso. Amicizia e stesso modo d’intendere la montagna facevano il resto anche durante la cena e le chiacchiere di fronte al camino.
Renato ed io eravamo così presi da questo furor discendi che il 20 e 21 marzo ci trasferimmo in Valle Stura, in provincia di Cuneo, per fare gli stessi esercizi assistiti da un altro amico, maestro di sci, di cui purtroppo non ricordo il nome.
Il 3 febbraio venne a trovarmi alle Fate Nere Marco Lanzavecchia, anche lui con la voglia di provare a salire sempre meglio le cascate di ghiaccio. Subito lo portai al Pissun di Mascognaz, che stavolta salii da primo di cordata avvitando anche due chiodi da ghiaccio sul breve tratto a 90°.
Il giorno dopo fu la volta della grande avventura: avevo adocchiato un magnifico nastro ghiacciato tra Brusson e Challand-St-Anselme, all’altezza di Allesaz. Esposta a ovest e alta più o meno 130 m, la Cascata di Mondasciù prometteva pane per i nostri denti ed era bellissima da vedersi. Con una mezz’oretta di cammino fummo all’attacco e subito iniziammo a salire. La pendenza non arrivava mai ai 90°, ma ben spesso si attestava sugli 80°, con inframmezzati però tratti meno ripidi. Salimmo senza problemi e in piena sicurezza, io al comando delle prime due lunghezze di corda, lui delle altre due. Certo, eravamo impegnati: Rel, il soprannome del mio compagno, per una volta stette abbastanza zitto, andando da primo. Scendemmo poi a doppie a lato, sugli alberi, e battezzammo il nostro itinerario Legolas.
Con l’amico americano Roy Kliegfield andai l’11 febbraio a una delle cascate che precedono l’apertura della valle su Pré-St-Didier. E qui trovammo anche tratti verticali. Ero pronto per l’apprendistato in Scozia… “Era l’ora dello Zero (Tom Patey, One man’s mountain)”.
Ferrante Massa mi aveva detto: «I litigi più tristi si possono dimenticare, i solchi più profondi si possono ricucire, l’amicizia con la buona volontà può ritornare».
Ma non ero disposto a dargli troppa ragione, ero abbastanza fermo nella mia presunzione che un sentimento frantumato non si può riparare così facilmente. Non consideravo che l’imprevedibile gioca sempre l’ultima carta e Ferrante aveva torto solo quando parlava di buona volontà, che era inutile. L’amicizia con Gianni Calcagno infatti tornò da sola, ci fu di nuovo un incontro d’anime, al di là di interessi in comune e del rispetto reciproco. Dopo l’Annapurna i rapporti erano stati di fredda cortesia, in me si agitava solo l’intimo dispiacere che le cose fossero finite così.
Gianni aveva continuato la sua strada: con Guido Machetto aveva compiuto nel 1975 un’impresa eccezionale sul Tirich Mir, montagna sulla quale tornò anche nel 1977 per altra via. Aveva dato l’avvio, a livello internazionale, a quello che oggi è l’alpinismo di punta extraeuropeo, l’alpinismo delle spedizioni a due, lo stile alpino in Himalaya. Quell’impresa fu solo offuscata, immeritatamente, dalla contemporanea salita di Messner ed Habeler sull’Hidden Peak. Certo fu un’esperienza che toccò Gianni nel profondo, che gli addolcì l’amaro scacco dell’Annapurna.
Nel frattempo io esploravo regioni molto più oscure, con la mente ripercorrevo un trekking notturno da tempo dimenticato e spinoso. Le grandi pareti erano lontane e ancora di più lo erano le montagne dell’Asia. Quando fu il momento, si diffuse la notizia che io sarei andato al K2. Gianni lo seppe e per caso ci fu un incontro. Mi disse che era molto contento che io fossi «ritornato», ma al di là della frase lessi in lui quella serenità nei miei confronti che era mancata per cinque anni: in tempi deamicisiani ci sarebbe stato un caldo e virile abbraccio. Nel colloquio le mie parole non deviavano da ciò che intendevo, scorrevano lisce e diritte. E ciò che Gianni diceva era privo finalmente di maschera, quella maschera ch’egli doveva quotidianamente portare in negozio e usare con i clienti.
Gli parlai della Scozia, di quanto sarebbe stato interessante e bello fare un’esperienza di due settimane d’inverno sui monti della Scozia. Quella Scozia collinosa, cosparsa di pecore e di laghi tetri abitati da mostri, d’inverno si trasforma in landa desolata e spazzata dai venti subartici. Le montagne, generalmente alte poco più di mille metri, si ricoprono di neve fino al mare. Nei canaloni, nei camini l’acqua autunnale gela e crea stupende strutture ghiacciate, scivoli verticali e lucenti, distanti dai centri abitati. Anche sulle Alpi si stabiliscono cascate di ghiaccio, ma le condizioni climatiche sono differenti e non permettono le formazioni tipiche della Scozia: di giorno l’umidità dell’Atlantico circonda le pareti e le creste, di notte gela e il mattino dopo rocce fiabesche corazzate di ghiaccio spugnoso ricreano da sempre forme di montagna sempre diverse. Questo ambiente particolare, ormai dall’inizio del secolo, aveva favorito lo svilupparsi di un alpinismo scozzese invernale con caratteristiche proprie e spesso innovatrici. Il piolet-traction fu «inventato» da John Cunningham alla fine degli anni Sessanta e alpinisti famosi come Dougal Haston e Ian Clough, solo per citarne due, si erano fatti le ossa sui gullies scozzesi.
15 febbraio 1979. Dopo una cospicua spesa al supermercato che ci assicurava l’autosufficienza per due settimane, bibite comprese, Gianni ed io partimmo con il mio pullmino alle 18.30. Quarantasei ore dopo arrivavamo a Fort William, una cittadina scozzese affacciata su un fiordo dell’Atlantico. Avevamo dormito assai poco, chiacchierato molto, avevamo attraversato la Germania e il Belgio sotto la neve, ci eravamo persi nell’attraversamento notturno di Londra, stravolti ci eravamo fermati più volte a dormicchiare tra gli autotreni fermi per la neve, sulle autostrade inglesi. A Carlisle ci eravamo aggirati in cerca di un ufficio turistico che ci cambiasse i soldi, con difficoltà perché era sabato. Dopo Glasgow il paesaggio era quello scozzese delle illustrazioni da enciclopedia, ma particolarmente bello fu l’affacciarsi nella valle del Glen Coe: una tormenta di neve imbiancava la strada e gli ampi spazi di fronte a noi, ma il cielo era sereno, le montagne erano castelli di fantasia, le strutture del Buachaille incombevano con profondi e ghiacciati canaloni; uno skilift sembrava abbandonato, non si vedeva nessuno in giro. Solo a Leacantuim vedemmo aggirarsi alpinisti che tornavano da scalate. A Fort William ci procurammo cartine e guide, scegliendo subito un luogo tranquillo in cui posteggiare. Del Ben Nevis avevamo visto poco o nulla perché c’era bufera ed era ormai buio. La cena in pullmino mi riportò con il pensiero al lungo viaggio in Asia, nove mesi con mia moglie, di ormai quattro anni prima. Con molta nostalgia per la vita randagia e per la sua compagnia mi godevo quei momenti spensierati nei quali con tutta semplicità, al riparo della tua auto, prepari la cena e armeggi con fornelli e tegami. Chissà se sarei mai tornato con lei laggiù, l’India del sud… poi lentamente il sonno mi vinse.
La sveglia era alle tre. Dopo un’abbondante colazione, equipaggiati di tutto punto, affrontammo alla debole luce delle nostre pile i prati e i costoni erbosi che si ergono alla base del Ben Nevis, inciampando nelle zolle erbose e negli acquitrini ghiacciati. Dopo una salita ci trovammo nel solco dell’Allt a’ Mhuilinn, un esile torrente seguendo il quale non potevamo mancare di raggiungere il rifugio dello Scottish Mountaineering Club a circa 670 metri sul mare. Il cielo prometteva tempesta, ogni tanto arrivava qualche fiocco di neve. La valle si estendeva molto in lunghezza, la salita era quindi moderata e nella neve c’erano poche tracce. L’alba ci sorprese mentre ci dirigevamo alla cieca verso un rifugio mai visto, non ci riusciva di tenere la faccia in avanti e il vento sollevava turbini di cristalli ghiacciati ed echeggiava nel vallone deserto con un rombo solitario, così diverso dalle bufere alpine. Quando la luce si rafforzò vedemmo alla fine la costruzione del rifugio. Sotto, in un valloncello stravolto dal vento, sette o otto tende sbattevano e sembravano disabitate. Entrammo nel rifugio alle sette. Nell’anticamera c’era ogni genere di materiale alpinistico, ma il locale era freddo e la roba non asciugava. Una porta avrebbe immesso nella cucina-dormitorio, ma non osavamo disturbare la gente che dormiva. Incerti sul da farsi, decidemmo di aspettare. Il tempo ci sembrava orribile e non sapevamo neppure in che direzione precisa fosse il Ben Nevis. Certo è che il tempo è sempre così al mattino presto e qui è normale arrampicare mentre nevischia e tira vento. Cominciavamo già ad avvertire i primi brividi di freddo quando uno scozzese apparve, sbracato e con occhi semichiusi. A tentoni guadagnò la porta e si allontanò per urinare. Al ritorno ci vide e ci salutò. Ci invitò dentro. Dopo essere penetrati nell’antro, respiri pesanti aleggiavano in un’atmosfera viziata di anidride carbonica, whisky, birra e puzza di piedi. Un po’ di odore è abituale in ogni rifugio, ma lì si superavano i limiti di guardia. Il nostro ospite si diede a trafficare con i fornelli. Dopo qualche minuto, alcuni sbadigli, la diminuzione di respiri rauchi e colpi di tosse ci annunciarono che qualcuno si stava svegliando. Ci fu offerto del tè. Almeno venti persone sembravano tornare dall’altro mondo: barcollando uscivano, poi rientravano con facce sconvolte e si preparavano uova e pancetta. L’odore di fritto era disgustoso. La sera prima, forse come ogni sera, doveva esserci stata una gran baldoria.
Gianni ed io non eravamo a nostro agio e desideravamo per molte ragioni che il tempo migliorasse. Stordito dall’odore uscii a prendere una boccata d’aria e vidi dirigersi verso l’alto una quindicina di persone, quelli delle tende. Così ci preparammo e, ramponi ai piedi, abbandonammo il rifugio. Quel giorno (18 febbraio) salimmo il Comb Gully, una salita di ordine classico, per conoscere un po’ il terreno e soprattutto la via di discesa. Il Ben Nevis offre parecchi itinerari di difficoltà varia: la vetta è a 1343 metri e perciò le vie hanno un dislivello massimo di 400 metri che però, considerata la brevità delle ore di luce e le condizioni atmosferiche normalmente cattive, bastano già a creare un ambiente invernale di alta classe. La sera eravamo ancora al pullmino perché il rifugio era pieno e non davano il permesso di dormire per terra. Il giorno dopo, 19 febbraio, salimmo con tempo alquanto migliore e in poco più di quattro ore il Point Five Gully, un superbo canalone ghiacciato con pendenze fino a 90° che sbuca in vetta al Ben. In cima il vento arcuava la corda, il sole si indovinava in un turbine artico di immense proporzioni. Gianni ed io eravamo felici di questo successo e così il giorno dopo salimmo in 5 ore lo Zero Gully, ancora più impegnativo, forse la più bella e più famosa scalata invernale sul Ben. Ricordo particolarmente i primi tiri, il ghiaccio era molto sottile e l’assicurazione assai scarsa.
La sera decidemmo a fatica di mettere la sveglia perché eravamo proprio stanchi. Ci eravamo concessi perfino un piatto di patate fritte in un pub. Alle quattro il trillo dell’orologio ci svegliò a fatica, ma alle nove eravamo puntuali all’inizio del Vanishing Gully, un esile diedro dal fondo ghiacciato e verticale, con uno strapiombo ghiacciato ed estremo. Alla sera eravamo letteralmente distrutti, ma ugualmente ci spostammo di zona. Ci fermammo presso una fattoria vicino al Loch Laggan. Il mattino dopo alle quattro iniziavamo una marcia, ancora più complicata che al Ben Nevis, che avrebbe dovuto condurci al Creag Meagaidh 1128 metri. Sfondando nella neve fresca, dopo cinque ore eravamo all’inizio di un canalone ampio, sotto la superba parete. Stavamo risalendo il pendio non ripido quando senza accorgermene, invece che progredire diritto, salii in diagonale. Improvvisamente uno strato di neve si staccò. Io rimasi ancorato dov’ero, ma la massa di neve si diresse verso Gianni e lo travolse. Fu trascinato per una cinquantina di metri mentre spaventato osservavo la scena. Ma non era una grossa slavina. Gianni perse la piccozza e decidemmo di proseguire ugualmente.
Quel giorno lo Smith’s Gully fu duro con noi. Ogni tiro aveva almeno venti metri quasi verticali, con passaggi strapiombanti e dovevamo scambiarci la piccozza ad ogni lunghezza lungo la seconda corda. Il tempo peggiorò rapidamente e l’orrido canalone era spazzato da continui spindrift, slavine di neve polverosa che ci ricoprivano interamente, a doccia. Dopo 5 ore, in cima non si vedeva nulla. Ci buttammo giù per un canale ma questa volta stavamo vicini ed io che ero primo riuscii a provocare, pestando forte con i piedi, una slavina piuttosto grossa prima del nostro passaggio. Arrivammo a notte al pullmino, barcollanti. Il giorno dopo il riposo era obbligatorio e ne approfittammo per trasferirci ad Aviemore e da lì alla zona turistica dei Cairngorms.
Schiere ordinate di sciatori lasciavano un vasto parcheggio gremito per affollarsi in fila sull’unico skilift e sull’unica breve pista. Di sera i «gatti» ributtavano sulla pista la neve che durante il giorno vento e sciatori avevano spostato ai lati. Nei Cairngorms salimmo in 3 ore la via The Chancer all’Hell’s Lum Crag, una via strapiombante di Cunningham e nello stesso giorno in 2 ore l’Alladin’s Mirror Direct, al Coire An’t Sneachda. Il giorno dopo, 25 febbraio, salimmo in 4 ore l’Amphitheatre Gully alle Stag Rocks, in una gelida mattinata grigia con vento bestiale. Il giorno dopo ci trasferimmo nella zona del Lochnagar. Piovigginava ed il pullmino s’impantanò in una strada piena di fango e di neve marcia. Dopo un’ora di lavoro per poter ripartire, sentimmo improvvisamente che dovevamo andarcene, la nostra Scozia era finita ed eravamo contenti così.
Partimmo alle 17 e nel viaggio di ritorno ce la prendemmo più comoda che all’andata. In Germania non sapevamo più di cosa parlare, ma non era importante e lo sentivo inutile. In fondo, l’esperienza che avevamo diviso assieme trascendeva le parole e se non parlavamo significava che non c’era niente da dire, niente da comunicare. Ci sarebbero state altre occasioni.
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Be racconto, interessante come tutti gli altri che lo hanno preceduto.
Grazie Grande Capo 🙂
Meraviglioso racconto!
Bellissimo.
Gianni Calcagno ci ha insegnato tanto
Bello. E pensare che la maggior parte delle persone che accompagno sale per vedere il panorama dalla cima. Qui, ma non solo, si capisce che il viaggio non è la cima ma è quello che si fa per raggiungerla.
Ripensandoci, se gli Scozzesi rompessero i marroni per separarsi e tornare in Ue..a molti non dispiacerebbe. Anche per motivi sci & alpinistici
“…Al ritorno ci vide e ci salutò. Ci invitò dentro. Dopo essere penetrati nell’antro, respiri pesanti aleggiavano in un’atmosfera viziata di anidride carbonica, whisky, birra e puzza di piedi. Un po’ di odore è abituale in ogni rifugio, ma lì si superavano i limiti di guardia”
Puzza di piedi..soltanto?, respiri pesanti o altri sfiati? Come piste sci discesa e sci fondo pare che qualcosa in piu’ci sia.Nel 1977 al festival di Trento noi Fassani scesi in citta’assistemmo ad un documentario sulle scalate al Ben Nevis…impressione di freddo bestia, come a casa nostra.