Per i 100 anni del Parco del Gran Paradiso un gruppo di intellettuali e naturalisti lancia un progetto teso a rendere inviolabile una sua cima, il Monveso di Forzo. Obiettivo: “restituire la vetta agli dei e fare pace con la Natura”.
Se la montagna torna sacra
di Paolo Rumiz
(pubblicato su La Repubblica il 17 novembre 2022)
Alla fine degli anni Sessanta i Greci mi invitarono a tenere lezioni di arrampicata sul Monte Olimpo. Ero giovane, agile, incosciente e imbevuto di mitologia, per cui accettai. La dimora degli Dei: un attrattore troppo forte. Le vettovaglie arrivavano al rifugio via mulo. I pascoli sottostanti, verso Litochoron, erano popolati da feroci cani pastori. Ogni sera, minestroni incendiari pieni di pepe; poca carne, ma tanta feta, pane, vino e allegria. Niente inglese: comunicavo in greco antico, e bastava. Ma non capii subito che i miei allievi erano figli di Bisanzio — sulla capanna del Club alpino ellenico garriva la bandiera gialla con l’aquila bicipite — e a Giove non prestavano attenzione. E così, quando, dopo una salita per la facile via Mihailidis sulla parete est, chiesi loro di non calpestare la cima, distante poche decine di metri, perché lì abitavano gli Dei, mi guardarono come un originale. E rinunciarono. Ma molto malvolentieri.
Fu una delle mie prime esperienze sulla scomparsa dell’Invisibile e del senso del limite nel mondo contemporaneo. Era la stagione delle conquiste: non ero granché come alpinista, ma ardevo dal desiderio di far mie le cime e guardare il mondo dall’alto. Ero ancora imbevuto di letteratura tardo-romantica inquinata da venature mistico-eroiche filtrate dal fascismo. D’altra parte, un innato bisogno di silenzio e distanza dal mondo controbilanciava l’ansia da prestazione, e quel silenzio richiedeva un perimetro inviolabile: in latino “il Sacro”, in greco il “Tèmenos”, da cui “Templum”, tempio. Uno spazio negato ai mortali, come la foresta del Fauno o il luogo segreto dell’Assemblea degli animali che sarebbe stata narrata cinquant’anni dopo da Filelfo. Un luogo che ci ricordasse che la Natura chiedeva tregua e non aveva bisogno di noi uomini. Niente di meglio della cima di una montagna proibita.
Ho sempre cercato un posto simile, ma non l’ho mai trovato. In questa ricerca, i libri con foto patinate sulle imprese dei Fortissimi non mi hanno dato una mano. Troppa contemplazione dell’io, dei propri muscoli, troppa bulimia di spazi “beyond the limits”. Pretesa di purezza, anche: come se gli uomini non si portassero in quota le loro miserie. Era sempre la stessa storia. Dopo la ricerca dei “paradisi incontaminati”, dopo la ricerca dell’inviolabile da violare, arrivava il trionfo degli sponsor e lo stupro di gruppo della verginità, la dissacrazione turistica di massa anche ad alta quota, con o senza ossigeno. Negli ultimi 40 anni non ho letto più testi sulle conquiste estreme. Non contenevano percezione dell’Ineffabile. Spesso, nemmeno una parola sulla devastazione della Natura o sulla mutazione climatica.
Il mondo era pieno di montagne sacre, ma quasi tutte erano state violate. Il Sinai, dove Jahvè aveva dettato a Mosé i dieci comandamenti, era pattugliato da soldati. Sul vulcano Mauna Kea nelle Hawaii, il cielo era diventato più lontano proprio da quando la cima era stata coperta da… telescopi. La città perduta di Machu Picchu, a picco sulla valle dell’Urubamba in Perù, formicolava di turisti, e la sommità del monte Fuji, la sacra piramide del Giappone, innevata dieci mesi l’anno e tempestata di templi su ogni versante, era salita ogni giorno da colonne di visitatori. Quanto al rosso monte Uluru, solitario monolite nella piatta desolazione del bush australiano, gli aborigeni chiedevano da decenni che ne fosse proibita la scalata, ma il governo aveva sempre rinviato l’applicazione del bando. Al Monte Graham, in Arizona, avevano prima estirpato il nome originale apache per togliergli l’anima, poi piazzato un osservatorio astronomico. Sul roccione chiamato Ngog Lituba, sacro ai popoli centroafricani, il Vaticano aveva piantato una croce cattolica e una statua di Maria santissima.
Di cime dichiarate “off limits” l’Europa non ne aveva più nessuna. Persino dall’Athos, del resto proibito solo alle donne, arrivavano notizie sconfortanti. Liti feroci fra monasteri, fiammate nazionalistiche divise per paesi di riferimento, proliferare di autocefalie, crescente ostilità verso i pellegrini di origine cattolica nonostante il “via libera” del patriarca di Costantinopoli. Ma soprattutto c’era il ragno della Rete che si infiltrava nelle antiche fortezze della fede attraverso lo squillo degli smartphone. Fine della separatezza, insomma. Ma se veniva contaminata persino la montagna sacra degli ortodossi, pensai, allora era davvero la fine dei paradisi, nel senso etimologico del termine, dal persiano “pairidaeza”, giardino recintato. Il web aveva in tutto questo un ruolo sterminatore. In decine di cime delle Alpi e dell’Appennino, là dove veniva installato un ripetitore, tornavano in luce resti di un tempio a Giove o altre divinità antiche.
Oggi, la notizia che, proprio nel massiccio del Gran Paradiso, si sia indicata come “sacra”, quindi potenzialmente inviolabile, una montagna come il Monveso di Forzo, possente pilastro di 3322 metri lontano dalle rotte escursionistiche più battute, apre una prospettiva rivoluzionaria, nello stesso tempo antichissima e nuova, laica e sotto sotto anche pagana, nel nostro approccio all’Alpe e alle cime in generale. È un “alt” alla pretesa di onnipotenza dell’uomo dell’Antropocene, espresso non con divieti amministrativi, barriere fisiche o minaccia di sanzioni pecuniarie, ma con esortazione a una scelta consapevole: quella di non salire più su quella cima e di convincere altri a non farlo.
L’idea, del tutto nuova sulle Alpi, è appoggiata da molti “patriarchi” dell’alpinismo europeo, da Kurt Diemberger ad Alessandro Gogna, scrittori come Paolo Cognetti o Silvia Ronchey, grandi camminatori tipo Riccardo Carnovalini, o attori come Lella Costa e Giuseppe Cederna. Tutti viaggiatori in parole e scarponi, che vengono a dirci: è giunto il tempo di farsi un po’ in là. Darci dei limiti. Tracciare linee invalicabili.
Il segnale che, nel centenario dell’istituzione del parco del Gran Paradiso (mai nome più appropriato in materia), ci arriva da una cima in bilico fra regione Val d’Aosta (val di Cogne) e Piemonte (val Soana), indica al viaggiatore, a ben pensarci, una rivalutazione dei confini. Quei confini che, dopo l’euforia per il crollo del Muro, la moda del “no border” ha frettolosamente liquidato come pure negatività. Il Monveso simbolizza la nostalgia del sacro, nel senso di spazio separato. «Nel mito giudaico — osserva la Ronchey — l’uomo viene cacciato dal paradiso nel momento in cui tradisce, per avidità, la comunanza con il resto della natura vivente». Annibale Salsa, ex presidente nazionale del CAI, rimarca l’esigenza di «individuare, anche nelle odierne società postindustriali, alcune cime che sul piano simbolico possano significare che non tutto deve essere profanato».
È il mito del Kailash che si fa carne nelle Alpi Graie, nel cuore d’Europa: la leggenda del Gigante di Cristallo, la solitaria pagoda himalayana di 6714 metri che i fedeli di quattro religioni venerano — senza mai salirla — come centro del mondo, alla sorgente dei quattro fiumi del subcontinente indiano: Indo, Gange, Brahmaputra, Sutlej. Reinhold Messner, il conquistatore di tutti gli Ottomila, ebbe 35 anni fa il permesso di violarne la cima, ma ebbe l’onestà di tirarsi indietro, e dal rispetto di quel tabù, dicono, trasse nuova felicità. In questo senso, il Monveso (Mon Vezo, nell’accezione antica) rappresenta la più difficile delle sfide in un mondo governato dal consumo. Il coraggio della rinuncia. Il silenzio della contemplazione di fronte all’indicibile.
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Tutto molto bello e lodevole ma quel “per fare pace con la Natura” sa tanto di slogan equiparabile a tutte le pubblicità delle aziende che infarciscono i loro messaggi con vocaboli come sostenibile, ecologico, green di cui ormai nessuno sa cosa vogliano concretamente dire. Quando un buon fine diventa slogan non solo e’ inutile ma anche controproducente. Mi piacerebbe sapere quanti dei firmatari e sostenitori di questa iniziativa metterebbero la firma per bloccare il progetto del vallone delle cime bianche. Molti forse, tutti non credo.
Buongiorno Sig. Farina.
Rispondo alla sua domanda. Certo mi stupisco che venga farla a me, quando anche su questo blog è stato detto 100, 1000 volte dagli utenti…via gli impianti via i rifugi.
Lei, tralasciando la scelta che ha fatto con il mio commento, ha messo il dito nella piaga. Perché giustamente dice… bene Stefano, quindi OPERATIVAMENTE come lo si fa?
Non lo si fa… nel senso sarebbe da fare ma
a) a) Rifugi e impianti portano soldi
b) b) I politici e categorie professionali non solo guardano al punto a) ma è ben piu’ facile che siano loro stessi fruitori del punto a) e quindi figurati se vanno ad agire su questi punti e se agiscono li lasciano per ultimi
c) E’ probabile infatti che si parta facendo la solita demagogia spicciola con gli scialpinisti, alpinisti, gli instancabili camminatori, etc. Che sono gli ultimi su cui agire in realta’ perché tanta saturazione della montagna non danno.
Quindi come fare? Non sono certo io nel singolo che riesco a fare qsa. Ma i movimenti, associazioni legati alla montagna, voi stessi con il vostro bel gruppo dovreste pensare piu’ che alla sacralita’ (che è gia’ sacra una montagna e si va su appunto per la sua sacralita’, diversamente se fosse come andare a fare un giro in piazza si farebbe il giro in piazza per l’appunto) a esercitare pressioni POLITICHE verso gli enti istituzionali (e sono sicuro che tra voi c’è gente che conosce i massimi organi del Cai, greenpeace e politici anche locali). E invece che succede? Gli impianti guai toccarli, i rifugi che fan schei meno che meno…andiamo a limitare a VIETARE sti 4 scialpinisti perché vi è la presunzione che alterino gli ormoni della marmotta (che tanto lei è in letargo e di quello che accade sopra il manto nevoso non fuor fregar di meno).
La soluzione è una sola: basta impianti, basta rifugi e smantellamento gli stessi per il 70%. Quando hai fatto questo hai risolto il problema. Come si fa? Concentrandosi sull’obiettivo… quando i politici ti dicono.. .per l’ambiente non andate a sciare fuori pista, occorre che il mondo della montagna dica… no caro… smantella prima gli impianti e poi vieni a romperci l’anima.
E’ difficile? No, basta la volonta’. Perché se andiamo davvero verso una view dello Stato piu’ punitivo e severo, che lo sia su tutto o su niente diversamente.
La logica è…VUOI VIVERE LA MONTAGNA? VUOI CHE LA MONTAGNA RESTI TALE? BENE CI VAI SU CON I TUOI MEZZI…. Gambe e sci. Altro che impianti…
Cordiali saluti
L’intervento di Fabio il 24 è sublime. Mi sembrava di essere la’… anzi, quest’oggi sono andato giusto vicino casa mia….una tirata al massimo per arrivare al tramonto su una “cimetta” (chiamo cimette tutte quelle sotto i 2000 metri), ma credimi quello che hai descritto l’ho provato oggi.
Ero sudato fradicio (si perchè c’ho pensato tardi ad andarci) tirava un vento gelido, ma il paesaggio, tutto colorato di arancione vicino al sole oramai tramontato e blu viola dalla parte opposta solo, senza un rumore eccetto il vento… bellissimo.
Se un giorno dovessero vietarmi totalmente di andare in montagna devono spararmi.
Grazie Fabio
(ho visto anche il promotore che ha fatto un post con ironia su di me. Rispondo con calma, comunque l’accetto perchè chiaramente ha messo il coltello nella piaga).
Montagne sacre famose: la cima del Kailas in Tibet fu offerta a Messner quando salì per primo tutti i 14 ottomila. Lui (signorilmente) rinunciò. Il suo periplo, detto Kora, lava i peccati di una vita e viene percorso da migliaia di pellegrini/trekkers ogni anno.L’Ama Dablam, montagna sacra del popolo Sherpa e cima considerata una delle più belle al mondo, si può scalare pagando un permesso.
Entrambe attirano alle loro pendici moltissimi visitatori.
Ho sempre avuto profondo rispetto per i monti. Nonostante la conosca a menadito, toccare d’inverno la cima del Giovo (Appennino Modenese), persino per la via normale, è ancora un momento intenso. Mi accade soprattutto quando sono solo: in solitudine certe cose si comprendono meglio.
Un tramonto sulla sua vetta, quando le nevi si tingono delicatamente di arancione e poi sfumano a poco a poco nel violetto, è per me una delle cose per le quali, alla fine della giostra, sarà valsa la pena essere vissuti.
… … …
Se mi invitassero a non salirlo piú, in omaggio alla sua sacralità, a costoro risponderei:
“Ma perché? Io vado sul monte come un pellegrino nel tempio”.
Massimo rispetto per gli orsi e tutti gli animali in genere. Se vogliamo vietare all’uomo un luogo perchè ci sono animali da proteggere nella loro vita selvaggia ok. Ma la sacralità è un altra cosa e ognuno di noi la vede a modo suo.
Il senso del limite è un ottima dimostrazione di rispetto di se stessi, degli altri e dell’ambiente. Ma che senso del limite è questo??? Se poi sulle altre montagne si va con funivie, suv, sempre piu piste, mega alberghi, rifugi sempre piu grossi che sono in realtà ristoranti ed alberghi. Insomma si tende sempre più a portare le comodità cittadine in montagna.
Vi prego di non denigrare o prendere in giro l’orso Yoghi perché è il mio idolo da quando ero bambino.
Fate le vostre montagne sacre o maledette ma lasciate stare gli animali della foresta. Al povero Yoghi c’era già il Ranger Wesson che gli rompeva i coglioni.
Non penso che l’orso (Yoghi) abbia il concetto di proprietà privata. Caso mai l’istinto della territorialità come tanti altri animali.
Diciamo che per l’orso Yogi era un riprendersi il mal tolto, in quanto i turisti avevano invaso il suo habitat, la sua proprietà privata. E come tale sacra…
Per l’orso Yoghi sacro era il cestino con i panini da fregare ai turisti
“Il sacro non è dove lo mettiamo noi. È dove è già”
In totale disaccordo: il sacro è un costrutto culturale umana e quindi ha la definizione o il valore che l’uomo gli dà ed è proprio dove lo mette l’uomo.
Non credo che un orso, un’ameba, un sasso o un platano possiedano il concetto di sacro; ma anche l’avessero si può star sicuri che sarebbe molto diverso da qualunque sacro l’uomo abbia mai avuto. Così come il concetto di sacro è legato al luogo e al tempo ed è molto differente tra un indiano, un giapponese o un tuareg o tra un fenicio e un maya.
Per questo sono molto perplesso sull’uso del termine sacro, in particolare riferito alla montagna.
L’idea del Sig. Stefano è ottima. Non ci avevamo pensato. Da dove iniziare, ha un suggerimento?
Condivido VAst e i citati. Il mettere limiti e sacralita’ è una convenzione che l’uomo mette. Che esista Dio o meno le montagne sono del Creato (o del random a seconda della view) non c’è scritto da nessuna parte che bisogna darli un’impronta di sacralita’ o di limite. Ad ogni buon conto un problema di fruizione c’è. Negli anni ho visto aumentare vertiginosamente i flussi, e anche la mancanza di rispetto per la montagna. Basterebbe gestire questi flussi e anche educare. E soprattutto ridare alla montagna la montagna… le funivie e i rifugi li ha costruiti l’uomo. Quindi smantellarli e vedi che tutto torna senza limiti e sacralita’.
Condivido quello che dicono Bruno Telleschi (1) e Mario (3), ma anche altri. Pensare di ripristinare il sacro vietandosi di salire una data cima mi sembra a dir poco ingenuo. Il sacro non è dove lo mettiamo noi. È dove è già, va cercato e soprattutto rispettato – è questa la cosa che manca.
Se questo progetto vuol mettere in evidenza il senso del limite, lo fa nel modo sbagliato. L’ultima cosa che bisogna fare e’ limitare la possibilità’ di raggiungere le montagne, qualsiasi montagna. La decisione di voler raggiungere una vetta e’ alla base di ogni alpinista, scalatore. Se mai bisogna ridurre tutto quello di artificiale facilita il raggiungimento delle montagne e crea quindi affollamento ed inquinamento. Il resto sono chiacchiere. Ed infarcire la questione con termini come sacro non fa che peggiorare l’iniziativa. In ogni caso essa rimane timida, risalta di più’ il non aver scelto se mai una vetta più’ nota che la vetta stessa. Tutti diranno: e chi lo ha mai sentito questo monveso? Ai promotori chiedo: quali risultati tangibili vi attendete da questa iniziativa? Se ve ne attendete qualcuno, o e’ solo attività’ “dimostrativa”
Saluti
Sono contento che questi concetti prendano sempre più piede. Un passettino alla volta, mai fermarsi.
Avrei partecipato volentieri al dibattito, ma purtroppo sabato sono fuori Torino per lavoro.
Esprimo quindi qui la mia perplessità su questo progetto che a parere mio nulla aggiunge o toglie a un dibattito sul presunto affollamento montano.
Perplessità già espresse da molti e che faccio mie, per evitare inutili ripetizioni.
Un reale segnale non attuabile, ma dirompente nella sua progettualità, sarebbe stato indicare la cima del Gran Paradiso per la via normale come “montagna sacra”. Lo proporrei se non fosse che vorrei evitare di essere corcato di mazzate dai gestori del Vittorio Emanuele, dello Chabot e da un nutrito gruppo di guide alpine.
P.s. Il Monveso di Forzo l’ho salito in tempi in cui non c’erano ancora i camosci, ma circolavano i mammuth. Nonostante il tempo passato rammento ancora una cammellata senza fine su una montagna che alpinisticamente è veramente poco attrattiva. Non vorrei pensare male, ma sarà questo il motivo che è stata scelta? 😉
La riflessione sul senso del limite avrebbe davvero senso quando riferita ad un limite prossimo. A me ad esempio va benissimo considerare sacra una vetta a 500 km da casa dove non sarei cmq mai andato. È facile riempirsi di termini inerenti alla sostenibilità quando lo sforzo richiesto è davvero minimo, se non inesistente. Cominciate invece con il dichiarare sacra la montagna dove salite più spesso, con l’intento di non salirci mai più e di non sostituirla con un’altra, altrimenti siamo punto e a capo. Ah, personalmente non ci riuscirei. Voi?
Buongiorno,
a me pare di nuovo che le obiezioni al progetto, assolutamente legittime e importanti al fine di animare il dibattito sulla sostanza dello stesso e non solo sulla forma, tendano a fermarsi troppo su alcune presunte caratteristiche – il “divieto”, il “sacro”… – che in realtà nel progetto o non sono affatto presenti oppure sono utilizzate funzionalmente alla generazione di quel simbolo che la “Montagna Sacra” vuole essere e che intende diventare un fulcro attorno al quale generare le innumerevoli ricadute concrete dell’idea del progetto, il cui centro di gravità è il senso del limite. Dunque: è giusto, è sbagliato, è nobile, è stupido chiedere di non salire su una vetta tra mille altre? Be’, ogni opinione è lecita perché non è questa la risposta che si cerca, semmai è quella alla domanda: è giusto, oggi, porsi un limite in tema di frequentazione, fruizione, antropizzazione, patrimonializzazione delle montagne, a fronte di molte (troppe) situazioni nelle quali probabilmente si è andati troppo oltre, cagionando danni materiali e immateriali ai monti sovente ingenti? Ecco, la “Montagna Sacra”, con la sua funzionale carica simbolica che tuttavia richiama e riporta subito alla riflessione sul senso del limite, vuole identificare e se possibile approfondire la discussione su questo macro-tema, dal quale è inutile dire che ne derivano tanti altri. Anche perché, se attendiamo ancora un po’ che la sacralità naturale che ogni vetta montana ha in sé ovvero che eventualmente gli è riconosciuta dalla cognizione culturale umana venga finalmente recepita e manifestata nei comportamenti di chi vi salga (e ancor più da chi le montagne ha il compito di amministrarle politicamente), temo che di montagne incontaminate, sacre o meno, non ne resteranno più tante.
@6eh non so il nome, dovrei cercare la guida “sulle tracce di pionieri e camosci”
se non ricordo male, l’accesso era vietato ma non essendo recintate e’ sottinteso un tacito accordo fra escursionisti e parco
Alberto, qualche giorno fa Paleari scriveva così (non mi vengono parole migliori, avevo fatto un commento simile al tuo e questa era stata la risposta):
Penso che anche un piccolo atto simbolico come quello proposto da Toni Farina possa servire a cambiare le coscienze. Non quella dello speculatore, le nostre. I simboli sono importanti, servono a unirci, noi che la pensiamo allo stesso modo, a trovarci, a riconoscerci, a renderci più forti, a essere più consapevoli, e a prepararci a lotte più concrete.
volete ridare sacralità alla montagna?
Limitate infrastrutture, strade e tecnologia, zero google maps e tracce gps .
Altrimenti tutto questo è fumo negli occhi per distogliere attenzione.
E’ come se in Apuane sui volesse eleggere un cima sacra e inviolabile , quando tutto intorno si distruggono le montagne con le cave.
giotex, due cose:
Primo, per curiosità, quali sono le cime vietate? So che ci sono riserve integrali, ma non sapevo comprendessero anche delle cime.
Secondo, qui non si parla di un divieto. Sarebbe, nelle intenzioni, una scelta volontaria, una specie di auto-privazione. C’era l’endorsement di Alberto Paleari, che ascolto e leggo sempre volentieri. Adesso è arrivato Paolo Rumiz e io alla quarta riga (“tenevo lezioni di arrampicata in greco antico”) avevo già cominciato a bestemmiare. In bellunese contemporaneo.
Grande Rumiz
ma sulle dolomiti bellunesi ci sono gia delle cime “vietate” all’interno del parco…
Un corto circuito ideologico ancora in nome del progresso ‘sostenibile’. Hanno dissacrato il sacro per stile di vita ed in nome della rivendicata sacralita’ del loro dissacrare storico oggi si arrogano il diritto di indicare agli incolpevoli la strada del nuovo sacro. E credono di essere avanti .
Il progresso ha buttato il sacro in quanto futile.
Recuperarlo mantenendo politicamente i valori del progresso verrà fuori una specie di lgbtq declinato alla natura, agli uomini, ai valori.
I progressisti non chiederanno scusa. E come potrebbero? Non hanno idea dei danni che fanno in nome del sacro pil.
Anche Paolo Rumiz crede nel feticismo laico che confonde la sacralità con l’esclusione. Se fosse sufficiente guardare per condividere il respiro della natura, non ci sarebbe bisogno di rinchiudere le montagne in prigione: è già cosí. Nei giorni sereni mi affaccio sui balconi di casa e vedo in lontananza il monte Terminillo e a volte anche il monte Velino senza il fastidio del traffico e dell’ascensione. La sacralità appartiene piuttosto alle forme della partecipazione e alla semplicità dei comportamenti: per offrire un segnale di cambiamento sarebbe più efficace smantellare la strada per il passo del Nivolet e costringere i ciclisti a camminare alla maniera dei cristiani in pellegrinaggio.