Sessant’anni in Val del Biois
di Stefano Bodini
Mentre provo a scrivere qualcosa per questo mio particolare anniversario, mi rendo conto di quanto fu più facile farlo dieci anni fa per l’omologo “Cinquant’anni in Val del Biois”; allora era prevalsa la nostalgia per un mondo lentamente scomparso, un mondo fatto di persone, di gesti e consuetudini scolpite nel tempo e nei ricordi, il tutto all’ombra delle maestose e spesso neglette Dolomiti Bellunesi. Più complesso cercare invece di raccontare questa nuova ricorrenza, che ai più potrebbe apparire addirittura come una evidente mancanza di fantasia nella mia scelta turistica: i tempi sono nuovamente mutati nel frattempo e, alla luce di questi, pare veramente irrazionale ed anacronistico trascorrere per sessant’anni le proprie vacanze estive nel medesimo luogo.
Ma c’è un punto in realtà che emerge e che vorrei provare ad evidenziare: non sto parlando di turismo. Anzi, proprio in controtendenza al turismo “mordi e fuggi” tipico dei giorni nostri, quella che voglio raccontare è una storia di passione, che suggerisce umiltà e pazienza, necessarie entrambe per avvicinare, ascoltare, comprendere ed infine conoscere un ambiente. Fino al punto di amarlo.
Siamo in Dolomiti, perché la curiosità dei miei genitori li fece avvicinare a questi monti in tempi non sospetti, negli anni ’50; se anche loro avessero seguito le scelte obbligate dell’epoca si sarebbero probabilmente ritrovati, come tanti altri bresciani, in Valle Camonica e questa storia avrebbe avuto un altro sviluppo.
Invece il fulcro prescelto fu ed è tuttora Canale d’Agordo, paese noto ai più per aver dato i natali a Papa Luciani. È splendidamente adagiato all’imbocco della valle di Garès, convalle della principale Val del Biois e pertanto isolato dal traffico che percorre quest’ultima longitudinalmente; se ci si vuole recare, a Canale, il torrente Biois bisogna valicarlo volutamente, non ci si passa per caso. Molto spesso si vedono i turisti soffermarsi in visita alla casa natale del Papa; qualcuno, più curioso di altri, nota la cerchia di monti che circonda al fondo la valle stessa e scatta una fotografia con il proprio smartphone; altri le voltano le spalle, preferendo il classico selfie. E il tutto finisce lì.
Ma se osservata più attentamente, la skyline disegnata da quei monti nasconde un complesso architettonico di cime, vallecole e pareti, che si sovrappongono come quinte di un palcoscenico barocco; siamo nelle Pale di S.Martino, ma nel settore forse meno conosciuto, e per ogni segmento di quella skyline, per ogni quinta rocciosa, ci vuole la pazienza di camminare, di cercare, di sognare prima e di scoprire poi, quella cima o quella valle in particolare.
C’è voluto l’Elio Tancon, fortissimo camminatore, ad indirizzarmi verso la “Taiada” per trovare il Campanile dei Campidèi, adagiato in un paradiso di erba nascosto in un mare di dolomia; e poi ancora più su, alla Banca delle Fede e negli anni a seguire sulla Cima di Campìdo o del Focobòn. lo si trovava spesso al mattino, l’Elio, dopo che aveva percorso chilometri di dislivello a tempo record, che stigmatizzava con il suo laconico “a son bele che dùt, mi” (sono già andato e tornato, io!). C’è voluto poi il Roberto Bramezza, incontrato per sbaglio un giorno su quel roccione ai margini della Liera, il torrente che percorre la valle di Gares. Quel masso di conglomerato vulcanico, precipitato lì dalla Cima Pape chissà quando, fungeva da palestra di arrampicata, prima di venire inglobato dapprima nel nuovo argine del torrente e poi da uno spesso strato di muschi e licheni. Roberto arrampicava forte a quei tempi e dopo un po’ di diffidenza nei miei confronti, che ero pur sempre un forestiero, uno “slàc” come noi villeggianti siamo chiamati dagli abitanti di Canale, scoperto che anch’io avevo salito il Campanile Piccolo dei Lastei, mi suggerì di salire anche gli altri, ben più facili, ma comunque di soddisfazione. Fu lui, su quel sassone, a voltarsi verso le Cime d’Auta ed indicare quella linea di arrampicata che il grande Attilio Tissi aveva dedicato alla sua valle, dicendo “e chèla, l’asto fàta?” (l’hai percorsa quella?). L’avrei percorsa, sì, ma anni più tardi. E poi ci volle l’Egido Lorenzi, storico titolare del “bazar” di Canale, negozio dove tuttora si trova di tutto, dal libro alla lampadina elettrica. Fu lui a dirmi che quella curiosa cuspide lavica dalla forma di un guanto a manopola si chiama “Spìz dei Vanediei”, nome difficilmente reperibile su una carta geografica. Camminatore, cacciatore, appassionato ed esperto, l’Egido mi disse che per scelta non voleva colpire il gallo cedrone per non vederlo inutilmente soffrire disperso nei mughi, che difficilmente avrebbero reso il trofeo al cacciatore. Altri tempi. E poi ci volle la fotografia che lo Sperandio aveva appeso nella sua macelleria in via XX Agosto, che raffigurava “El Còr”, un magnifico arco naturale di roccia dal profilo perfetto, sospeso sulle Pale dei Balconi. Sulle prime lui rise quando, interrogandomi a proposito, io credetti di indovinare citando l’Arco del Bersanèl, architettura simile, ma nelle vicine Pale di S.Lucano e non così perfetta. Ma poi dovette ricredersi e sorprendersi, quando un giorno gli dissi che ero andato a vederlo da vicino, impresa non propriamente escursionistica.
Per non parlare poi delle lunghe chiacchierate serali con l’Ezio De Bernardin prima e con il fratello Livio poi, quando smise di gestire il rifugio Tissi alla Civetta; arrampicatori esperti e conoscitori della loro terra, ci volle del tempo sulle panchine di via Sofraide a Canale per meritare la loro considerazione e rispetto, dimostrando a fatti e non a parole che anche noi “slàc”, io, mio fratello e mio padre, ci sapevamo fare.
Finchè alla fine mi sorpresi, quando tutto questo meticoloso procedere mi fu persino riconosciuto: ospitato un anno dal Callisto Pasquali per le vacanze estive, questi, navigato ed incallito scialpinista e rocciatore, fu colpito nel sapere che non solo conoscevo la Cima Zopèl, ma che ci ero pure salito.
Non solo Pale di S.Martino, ovviamente, perchè il fianco sinistro della Valle del Biois va ad abbracciare una porzione delle Dolomiti di pertinenza del gruppo della Marmolada; più conosciute quelle che sovrastano Fuciàde ed i suoi verdi pascoli, meno quelle che insistono oltre fino a raggiungere il Cordevole: le Cime dell’Auta, Le Cime di Pezza, il Piz Zorlèt. Per capire le Auta ci sono volute massacranti salite, spesso vanificate da altrettanti temporali; così ci si infilava alla Baita dei Cacciatori a parlare con il mitico Rino da Rif, storico gestore che da poco ci ha lasciato, che ti raccontava ogni dettaglio delle vie e mimava il gesto di afferrare la maniglia provvidenziale per superare il passaggio chiave, sulla sud dell’Auta Occidentale.
Pazienza e passione quindi, il voler conoscere luoghi e persone lo richiede. Ma nel contempo nessuna pretesa che questi si debbano modificare in funzione nostra; un giorno mi accorsi con terrore che la mia macchina necessitava di revisione e così mi precipitai dal Fabrizio Tancon, “Girolèt” per gli amici, il meccanico del paese. Entrato nell’officina gli dissi disperato: “mi scusi, avrei un problema!”; questi mi guardò con piglio un po’ burbero e mi rispose “l’è pì de ùn che n’ha tanti!” (c’è più di uno ad averne tanti – di problemi). Nessuna deferenza inutile. E in sessant’anni la collezione di aneddoti da raccontare sarebbe sicuramente corposa; un solo rimpianto, forse: in gioventù, attratto più dall’attività in montagna che non dalla vita sociale in paese, non seppi trovare il modo giusto per diventare amico dei miei coetanei locali, primo fra tutti il Massimo Costa, instancabile anfitrione nel suo bar in piazza a Canale. A posteriori, capisco di aver probabilmente commesso un grave errore.
Umiltà nell’approccio, nessuna pretesa di modifica in funzione nostra: la genuinità di un ambiente va gustata per quello che sa dare veramente e ciò è possibile solo se vi si è entrati in punta di piedi. Due punti che paradossalmente il turismo attuale tende ad invertire, riducendo a vizioso un circolo che potrebbe invece dimostrarsi virtuoso. Molti gli articoli a proposito in questi ultimi anni, da turisti che pretendono di essere serviti in un rifugio alpino come se fossero al bar sotto casa, ad altri che, intraprendendo una gita, lo fanno seguendo il primo cartello che incontrano, senza alcuna informazione o preparazione aggiuntiva. Ed in questo le statistiche del Soccorso Alpino sono estremamente significative.
Anche perché le Dolomiti Bellunesi rimangono esigenti; chi intraprendesse per esempio la discesa dal Monte Pelsa a Cencenighe lungo il sentiero CAI denominato “i Sèch”, si troverebbe sicuramente a mal partito se non correttamente preparato. E purtroppo spesso le nuove predisposizioni che si riscontrano altrove in Dolomiti, per esempio il sentiero che dal Cermis conduce al Lago di Bombasèl e le vicine “vie ferrate”, inducono troppo facilmente un falso senso di sicurezza e confort. Vien più da pensare a un “Dolomiti-Parco-Giochi”, che non ad un “Dolomiti-Patrimonio”, dell’Unesco. Ma sono considerazioni solo mie, ovviamente.
In conclusione, rimango dell’opinione che per comprendere veramente un ambiente e ricavarne valori e non solamente sensazioni effimere, si debba riscoprire un approccio umile, curioso ma rispettoso. Della stessa opinione quest’anno, e non è cosa scontata, la mia famiglia, quella di mio fratello, i nostri genitori ed i miei suoceri; mezza Brescia in attesa, ogni sera, che i raggi del tramonto illuminassero la parete della grande Civetta, che chiude la valle al suo fine. L’Enrosadira raccontata nelle leggende dei Fanes, ancora oggi, è capace di regalare emozioni infinite.
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Uno può anche lavorare in remoto dalla sua bellissima baita, ma se poi per fare la spesa o andare dal medico deve fare mezz’ora (o più) di macchina….Quello che voglio dire io , è che non possiamo covare l’illusione che per i parametri attuali di un residente cittadino basti avere cibo-medico- asilo-scuole nel raggio di 10 km per essere “contento”..E’ chiaro che questi servizi male non fanno , ma l’abbandono “tragico” dei luoghi remoti passa anche attraverso “nuove necessità” che prima noi stessi non percepivamo come tali : la palestra , pub /bar / locali fighetti in cui fare serata , la piscina , i corsi sportivi , i campi da padel….Tutta roba che solo 1/2 generazioni fa’ non esisteva nemmeno a livello teorico, e che oggi fa una differenza sostanziale..Questi luoghi , anche quando danno “il pane” , hanno carenze di socialità e di “circenses” ; possono andar bene fino ad un certo punto per un boomer come me a cui non disturba troppo vivere come Dinamite Bla a contatto con la natura e una decina di amici , ma per ripopolarsi devono risolvere dei problemi che medico e supermercato non risolvono..Un esempio fra i 100 : un bar con unici utenti permanenti 4 avvinazzati over 75 non è utile a tipi di socialità che invece servono , e che lo stato non può dare..E chi può portare questa socialità al di sotto di una “massa critica” non ci vive..Non so se possa essere una soluzione , ma io proverei ad aiutare con dei servizi di questo tipo ( sportivi ed altro ) , che sfruttano il bacino di utenza di 5/6 paesi.
Non sono d’accordo.
Se parliamo di cultura (intesa come arte, pensiero, ecc.), da sempre questa si è sviluppata nelle città e non nelle zone che oggi chiamiamo marginali, anche se oggi grazie alla rete sono meno culturalmente isolate di una volta.
Quella che è in atto (e mi pare l’abbia detto anche tu) è una trasformazione sociale ed economica, una spirale discendente: meno gente = meno opportunità e servizi = ancora meno gente, e via da capo.
Uno può anche lavorare in remoto dalla sua bellissima baita, ma se poi per fare la spesa o andare dal medico deve fare mezz’ora (o più) di macchina…
@ 31
Articolo interessante , che dipinge la realta’ di molti luoghi.
Recentemente ho avuto modo di girare diverse zone del Piemonte pianeggiante : astigiano , alessandrino , vercellese e parte del biellese , e mi sembra che questa regione sia piu’ colpita di altre dalla migrazione in massa verso le citta’.
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Personalmente dubito che lo stato possa fare molto : forse se avessimo a bilancio i soldi della Norvegia o della Svizzera , ma oltre a seppellire questi problemi sotto una montagna di soldi ( cosa molto difficile per vincoli di bilancio ) , io credo che sia in atto anche una grossa trasformazione culturale.
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Al di la’ di sanita’ e trasporti , stare in citta’ oggi fa particolarmente “figo” , e non si vedono segni di inversione…
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Forse lo smartworking ha aperto delle possibilita’ , ma culturalmente se sei 40 minuti fuori dalla megalopoli sei :”out”.
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Gli stessi valori della natura vengono spesso e volentieri travisati : senti persone che in citta’ chiamano :”natura” un quadrato di erba fra i marciapiedi con sotto la metropolitana e le fognature , in cui nessun insetto o mammifero selvatico osa avventurarsi.
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Segnalo questo articolo relativo al tema dello spopolamento delle “aree marginali”: Nelle valli piemontesi ci si inventa di tutto per rimediare al taglio dei bus.
Da vedere questo bel documentario che riguarda il contesto attorno a cui gravita quella bella valle oggi
https://youtu.be/vqKdppCGFAg?si=1gX_8pJUZ9zrxnV9
Concordo , molte “ciclabili” in quota non hanno senso , quelle di fondo valle si.
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Io , compatibilmente con la salvaguardia dell’ambiente montano , ho piacere che i paesi non si spopolino , ma mi rendo conto che e’ una sfida non semplice per chi ci vive.
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Il turismo e’ solo parzialmente una bacchetta magica , e serve anche altro.
“Le ciclabili invece hanno un senso che ne alpinisti ne ambientalisti comprendono : generano un turismo dolce e quasi sempre rispettoso”
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Su quelle realizzate in fondo valle concordo con te, ma quelle a cui mi riferisco sono quelle nuove in quota, quelle che attraversano siti di interesse comunitario, che attraversano aree a forte rischio frane, che attraversano (o vorrebbero attraversare) luoghi che non hanno nulla a che vedere con lo spopolamento montano e di sicuro la gente non tornerà a vivere in montagna grazie a loro. Il turismo dolce e rispettoso è certamente un valore da incentivare, ma può riguardare una piccola frazione della popolazione montana in decrescita, anche il giovane che decide di iniziare in montagna un’attività in sintonia con la natura, dedicandosi ad attività agro-silvo-pastorali o altro, è da incentivare, ma ciò non toglie che il destino di molti piccoli nuclei sia segnato, e, ripeto, non ci vedo nulla di tragico in questa trasformazione.
A Piedigjaf e a San Vincenzo ho dormito qualche notte in tenda 40 anni fa’ quando pescavo sulla Comugna, ed erano gia’ spopolate allora , salvo il campanile ristrutturato di S.Vincenzo.
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Non sono i ponti tibetani e le ferrate che mi interessano , ma tenere in vita posti come S.Francesco e Pielungo al di la’ del turismo delle moto e del mordi e fuggi estivo a Curnilia.
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Le nuove forestali in quota servono solo ai boscaioli a fare legna e per le loro pendenze improbabili e caratteristiche costruttive sono destinate ad essere portate via dagli elementi nel giro di 15 anni.
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Le ciclabili invece hanno un senso che ne alpinisti ne ambientalisti comprendono : generano un turismo dolce e quasi sempre rispettoso , che da un piccolo indotto e permette ai borghi di vivere.
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La ciclabile Alpe Adria e’ un esempio di successo , e la nuova ciclabile in Val Resia fra Povici e Tigo anche.
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L’economia di sussistenza di una Stolvizza non funziona piu’ , e c’e’ bisogno anche di questo !
Dato che continui a non rispondere e ad inventarti un tua realtà parallela, ti suggerisco la risposta io: vai a farti un giro a Palcoda, o a San Vincenzo in val di Cuna: è quello che accadrà in molti borghi montani, poi mi aggiorni sulla tua idea di ripopolamento della montagna. A meno che non convenga con me che forse è meglio che il bosco abbia inglobato i muri degli edifici diroccati e che la natura faccia il suo corso. Quanto al resto, sei cieco o ti stai accorgendo che soldi per sfalciare i prati non ce ne sono, e neanche per mantenere in buone condizioni le piste forestali esistenti, facendo la manutenzione delle canalette di scolo, dei muri di sostegno ecc. ma per costruire piste ciclabili in luoghi improbabili (vedi zona Pleros), ferrate, ponti tibetani, terrazze panoramiche, piste nuove, ecc. si trovano sempre?
Ma probabilmente il tuo problema è che leggi quello che vuoi leggere, non quello che c’è scritto.
“Modificare il contenuto del tuo commento”
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Sono almeno 4/5 commenti che dico :”Torino” e tu rispondi :”Tombino / Pulcino / Girino” , continui a scambiare generazioni di persone che hanno sgomberato alcune radure praticandoci un’economia di sussistenza , con avidi capitalisti che “sfruttano” i monti….
Forse e’ meglio che la regolata te la dia tu.
Continui ad insultare, a non rispondere e a modificare il contenuto del mio commento. Modalità che peraltro utilizzi spesso. Dati una regolata.
Sisi , idiota , scivoli con noncuranza fra le idiozie : paesi abbandonati che sono baluardo alle Spa che spianano le montagne.
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Auspichi una montagna spopolata dove c’erano paesi dal medioevo per cercare , stupidamente , di fare quadrare i tuoi conti senza gli osti.
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Parli di Zanier e manco sai chi e’ e cosa diceva.
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Ma vaffanculo , idiota !
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Io non posso mettere un cervello dove non c’e’.
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E infine mi scuso con gli altri utenti del blog per la caduta di stile, ma non ne posso più di individui codardi che offendono protetti dal loro anonimato.
E mi raccomando, continua a non rispondere alle domande. Ma non solo alle mie.
“qualche idiota ti accusi di voler :”Mettere a reddito” i boschi”
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Coglione, anche i bambini sanno che i boschi non sono improduttivi. E continua a non firmarti.
E ancora: ciò che infastidisce di più chi la pensa come te è il fatto di non poter mettere “a reddito” tutte quelle zone che risultano essere improduttive economicamente. Fosse per voi spianereste qualsiasi cima dove poter costruire una bella Spa
C’e’ una sottile differenza fra vedere morire i paesi di montagna e festeggiare le termofile che si prendobo le case , e desiderare d tenerli vivi senza che qualche idiota ti accusi di voler :”Mettere a reddito” i boschi , ma non posso mettere un cervello dove non c’e’.
16. E cosa vorresti dimostrare con questo link, che Sauris, uno dei (pochi) gioielli del turismo carnico non ha subito lo spopolamento grazie alle visioni di Zannier? E perché allora decine di altre località negli ultimi 50 anni sono state inglobate dalla foresta? Forse perché nessuno si sogna più di vivere di stenti sfalciando prati e mangiando patate e di camminare un paio d’ore per raggiungere la strada asfaltata più vicina? Ma di rendi conto che la maggior parte di chi viveva in montagna al di fuori delle aree turisticizzate era destinato ad una vita grama? Ma oltre a sparare cazzate, quale sarebbe la tua formula magica per rivitalizzare certe aree e impedirne lo spopolamento? Piazzare un medico ogni 20 abitanti? Mettere una scuola ogni 20 abitanti? Portare gli alimenti a costoro con l’elicottero? Non so, dai del malato a me (senza contare, ripeto, che è facile offendere dall’anonimato) ma a ma pare malato chi senza fare proposte pretende di risolvere problemi che non riesce nemmeno a valutare nella loro complessità.
Il tema non è certo la cementificazione delle aree montane , che qui nessuno vuole , ma la continua emorragia di culture popolari che non torneranno più.Quanto alla “Natura che si riprende i sentieri e le vigne dei nonni” , non sò se celebrare questa cosa sia più cieco o più stupido , forse entrambe le cose…
@ 14″Chi la pensa come te ??”Ma tu sei malato in testa come Norman Bates , e vedi i tuoi nemici ovunque !Invece di dire cazzate , vatti a leggere che cosa diceva quel “capitalista” di Leonardo Zanier , quando partiva da Zurigo e tornava al paese trovando altre case con le finestre chiuse che non si sarebbero più riaperte ! https://fur.wikipedia.org/wiki/Leonardo_Zanierhttps://www.albergodiffusosauris.com/lalbergo-diffuso-di-sauris-si-racconta-1/
12) La natura riprende quello che era suo.
E ancora: ciò che infastidisce di più chi la pensa come te è il fatto di non poter mettere “a reddito” tutte quelle zone che risultano essere improduttive economicamente. Fosse per voi spianereste qualsiasi cima dove poter costruire una bella Spa, quella sì che crea indotto e porta lavoro. Fosse per voi non esisterebbe alcun luogo “improduttivo” nella peggiore accezione del termine. Ci sono molte difficoltà nel respingere i vostri attacchi, lo vediamo tutti i giorni, ma bene o male qualcosa si è salvato, e temo per voi che il peggio sia passato.
12. E quale sarebbe il problema? Come intere pianure sono state trasformate in grattacieli dove vivono milioni di individui, in altri luoghi la natura poco alla volta si riprende i suoi spazi dopo averli “concessi” allo sfruttamento umano. Laddove non esistono più le condizioni per proseguire nel tempo quanto fatto da chi ci ha preceduto, non vedo perché insistere con la flebo.
Ma trasformazione de che ?
Interi territori vissuti da secoli, che vengono fagocitati dal bosco , interi paesi abbandonati , che “trasformazione” sono ??
Quanto culture antiche sono scomparse?
Non sono uno storico , ma credo tante. Forse è naturale che questo avvenga e forse non si dovrebbe parlare di scomparsa, ma di trasformazione.
Mauro Corona diceva che la cultura alpina e’ antica ed ha le ossa fragili.
Lo spopolamento e la perdita di identita’ , cultura , e senso di appartenenza , nelle vallate sono gia’ avvenuti , adesso ci puoi pure trapiantare negri e cinesi e dire che “In fondo non e’ cambiato nulla…”
Premesso che la Valle del Biois è uno dei posti più belli e autentici delle Dolomiti, penso che soffra il raffronto con realtà che le sono vicine facendole fare fatica a trovare un modello di sviluppo adatto ai tempi. Sicuramente il modello giusto, per evitare lo spopolamento, esiste. Speriamo che i locali (gente tosta, comunque) riescano a trovarlo senza farsi condizionare dai vicini.
@5 Andrea
Non intendo nascondermi la complessita di sviluppare un turismo equilibrato che non sia “Overtourism” , ma spezzo un’arancia per quello che dici tu : la “montagna da sogno” che alcuni ambientalisti vaneggiano , e’ un luogo spopolato in cui i vecchi muoiono , i giovani emigrano e i boschi avanzano.
Una’ figata !!
Purtroppo pare non esistano più le mezze misure : o la bulimia o l’inedia.
In mezzo ci metterei la Luxottica.
Quanti ricordi leggendo il tuo articolo pieno di rispetto e amore per la val del Biois! Ti ringrazio la mia nonna era la Maria Pia Tissi, maestra a Forno Canale di Albino Luciani e sorella di Attilio Tissi. Ti consiglio di leggere il diario di Nini’ una dolce ragazza del Lido di Venezia che ogni estate era ospite dai parenti di Vallada, ed esprime molto bene l’innamoramento della valle e delle cime.
Vivo per metà dell’anno a Canale (estate e inverno) e per l’altra metà in città. È vero che le Dolomiti Bellunesi sono rimaste fuori dal luna park, ma è anche vero che un turismo ben gestito apporterebbe un grande beneficio a queste valli, che lentamente vanno spopolandosi. Purtroppo pare non esistano più le mezze misure : o la bulimia o l’inedia.
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Mi fa piacere aver avuto come ospite un grande appassionato e conoscitore rispettoso,delle nostre montagne,della nostra cultura,insieme alla sua bella famiglia. (Ma tel savei già)
Purtroppo Dolomiti-luna park e Dolomiti Patrimonio UNESCO sono la stessa cosa.
Dopo la grande guerra non c’è stato più nulla che abbia nuociuto alle Dolomiti come ha fatto UNESCO.
Che bell’articolo! A questo punto sarebbe interessante riuscire anche a leggere il precedente “Cinquant’anni in Val del Biois” in attesa del prossimo “Settant’anni in Val del Biois”.