Smart working

Lo smart working ci ha allontanato dagli uffici e portato a lavorare tra le mura domestiche, come se fossimo diventati improvvisamente tutti liberi professionisti con studio a casa. Con il risultato – scrive il New York Times – che in molti, pregustato il vantaggio e la comodità del telelavoro, ora che è terminata l’emergenza pandemica, in ufficio non ci vogliono più ritornare.

Smart working
(Negli USA 50 milioni di persone hanno cambiato modo di lavorare)

di Alberto Ferrigolo
(pubblicato su agi.it, il 13 marzo 2022)

Se la società digitale non ci ha ancora liberato dal lavoro, com’era ambizione, la pandemia tuttavia ci ha almeno svincolato dalla presenza nei suoi luoghi deputati: lo smart working ci ha allontanato dagli uffici e portato a lavorare tra le mura domestiche, come se fossimo diventati improvvisamente tutti liberi professionisti con studio a casa. Come capita più spesso ad avvocati, architetti, commercialisti, qualche ingegnere, grafici, psicologi, scrittori. Con il risultato che in molti, pregustato il vantaggio e la comodità del telelavoro, ora che è terminata l’emergenza pandemica, in ufficio non ci vogliono più ritornare. “Il lavoro a distanza ha portato una tregua”, ha annotato il New York Times in un servizio sull’argomento.

Nel senso che in appena due anni di emergenza pandemica che hanno stravolto le nostre abitudini, l’esperimento dello smart working ha fatto sì che 50 milioni di persone si siano rese disponibili “a cambiare il modo” in cui finora hanno lavorato. Una rivoluzione radicale, che ha portato alla scoperta che “l’ufficio, in altre parole, non è mai stato a taglia unica” bensì una taglia che poteva creare anche molti fastidi verso un certo ambiente connotato da pettegolezzi collettivi, battute, scherzi e certi riti collettivi che “per molti hanno amplificato la sensazione di estraneità”. Uffici come luoghi di grande sofferenza più che di riscatto e benessere.

C’è una teoria, infatti, secondo la quale i luoghi di lavoro non sono altro che “centri di potere” in cui ogni giorno ci s’infila per recitare una propria parte in un collettivo “gioco di ruoli” con tic “di controllo” annessi e connessi. Il capoufficio che non dà tregua e che fustiga sempre tutti, le riunioni in cui ci si guarda di soppiatto per vedere come schierarsi e che posizione prendere, e dove si consumano trame, tra alleanze, simpatie, inimicizie, rivalità, invidie, certo anche molti incontri ma pure altrettanti scontri. Con promozioni, carriere, passi in avanti e chi resta invece sempre al palo e non si sa perché mai non riesca a farcela, magari perché vittima di pregiudizi o antipatie. Luoghi dove si va, ma più spesso con un certo patema d’animo.

Calcola il New York Times che “gli ultimi due anni hanno inaugurato un esperimento non pianificato con un modo diverso di lavorare: circa 50 milioni di americani hanno lasciato i loro uffici. Prima della pandemia, nel 2019, circa il 4% degli occupati negli Stati Uniti lavorava esclusivamente da casa; entro maggio 2020, quella cifra è salita al 43%, secondo Gallup. Naturalmente, ciò significa che la maggioranza della forza lavoro ha continuato a lavorare di persona negli ultimi due anni. Ma tra i colletti bianchi prima del Covid solo il 6% lavorava esclusivamente da casa, mentre a maggio 2020 è salito al 65%” e che in precedenza “l’unica cosa che ha ostacolato accordi di lavoro flessibili è stato il fallimento dell’immaginazione”, di prefigurare altri percorsi e modalità organizzative. Tuttavia, un “fallimento a cui si è rimediato in appena tre settimane a marzo 2020” nel pieno dei contagi da Covid-19. Al telelavoro ci si è adeguati immediatamente.

Così, una volta che finita l’emergenza pandemica s’è riproposto il tema del ritorno in ufficio, s’è anche scoperto che “c’erano una miriade di ragioni per cui le persone preferivano il lavoro da casa, oltre alle preoccupazioni per la sicurezza del Covid” come, per esempio, il fatto di poter godere “della luce del sole”, indossare “i pantaloni della tuta, la qualità del tempo con i bambini o con i gatti, più ore per leggere e correre, lo spazio per nascondere l’angoscia di una giornata o un anno scadente” anche se la giustificazione più argomentata riguardava proprio “la cultura del posto di lavoro”, racchiusa in questa constatazione: “Non ha molto senso tornare in ufficio se stiamo solo tornando al club dei vecchi ragazzi“, ha detto Keren Gifford, 37 anni, un’operaia di tecnologia dell’informazione a Pittsburgh, a cui però non è stato ancora richiesto di tornare nel suo ufficio. “Che sollievo non dover andare giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, e non riuscire a fare amicizia e divertirsi”. Cosicché molti, come la signora Gifford, “si sono resi conto di sentirsi come se avessero trascorso la loro carriera in spazi costruiti per qualcun altro”.

Annota il principale quotidiano americano: “Alcune delle aziende che ora tentano di richiamare il proprio personale stanno affrontando un’ondata di resistenza da parte dei lavoratori, incoraggiati a mettere in discussione come sono sempre state le cose, vale a dire, difficili per molte persone”.

I risultati di queste affermazioni sono contenuti i alcuni studi su un plafond di 10 mila impiegati, che affermano che “le donne e le persone di colore avevano maggiori probabilità di vedere il lavoro in remoto come vantaggioso rispetto ai loro colleghi maschi bianchi”.

Negli Stati Uniti, per esempio, “l’86% degli ispanici e l’81% dei lavoratori della conoscenza neri, coloro che svolgono un lavoro non manuale, hanno affermato di preferire il lavoro ibrido o remoto, rispetto al 75% dei lavoratori della conoscenza bianchi. E a livello globale, il 50% delle madri lavoratrici che hanno partecipato agli studi ha riferito di voler lavorare da remoto per la maggior parte o tutto il tempo, rispetto al 43% dei padri. Da maggio 2021 il senso di appartenenza al lavoro è aumentato per il 24% dei lavoratori della conoscenza neri intervistati, rispetto al 5% dei lavoratori della conoscenza bianchi”.

Certo, poi ci sono anche gli aspetti controversi del “lavoro da casa”. Come l’episodio raccontato da Barbara Harris, 49 anni, che lavora nei servizi professionali in Virginia: Mio marito a volte torna a casa e accende la Tv e io gli faccio notare: ma come, hai acceso la Tv nel mio ufficio!?” Oppure, ancora, quello narrato da Dave Marques, 24 anni, studente e scrittore freelance: “Mi sento un po’ depresso quando mi sveglio alle 8 del mattino e vado al mio tavolino col caffè, m siedo davanti al computer e sto su Zoom dalle 9 alle 17 e alla fine chiudo il computer senza aver mai lasciato il mio piccolo studio per tutto il giorno”. A parte i pochi casi controversi, “i manager che premono per un ritorno si trovano ad affrontare quei dipendenti attaccati al loro ritrovato senso di benessere”, chiosa il New York Times, e “i datori di lavoro possono sentire i brontolii della frustrazione”.

La cosa che stupisce è che negli anni Cinquanta i primi studi avanzati di sociologia del lavoro prefiguravano la società telematica e del telelavoro come l’Eden del futuro e della libertà, ma ora che l’Eden l’abbiamo potuto sperimentare per quasi due anni e l’abbiamo a portata di mano, c’è chi vi si frappone e ripropone la vecchia organizzazione del lavoro. Per quale nostalgia?

Il commento
di Carlo Crovella

Nonostante la polarizzazione dell’intera comunità mondiale sul Covid e sulla guerra in Ucraina, la vita continua. Molti sono i temi che, come ogni giorno dalla notte dei tempi, l’esistenza offre per riflettere. Uno dei giorni nostri riguarda sicuramente l’eventuale rientro sistematico in ufficio dopo la lunga parentesi del telelavoro, imposta (magari a singhiozzo) dalla pandemia. La prima sensazione è che le persone si siano abituate alle comodità di lavorare a casa: subito dopo colazione, infili una felpa sul pigiama, accendi il pc e sei subito operativo. Eviti preparativi, agghindamenti, uscire, trasferimento verso l’ufficio (magari un una metropolitana affollata e puzzolente), spender per una insalata a pranzo in un locale rumorosissimo, riunioni pallosissime in sede, tronare a casa (altra metropolitana affollata e puzzolente), infreddoliti, stanchi, con i piedi doloranti, stressati e incazzati per la giornata lavorativa. Molti miei conoscenti e interlocutori professionali, che sono imprenditori o titolari di studi, ecc., riconoscono che i loro collaboratori/dipendenti sono molto più produttivi in un regime di smart working. Lo sono di loro iniziativa, questo è il dato saliente. Spesso stanno al pc, in modalità professionale ovviamente, anche fino a ora di cena, senza tutte le beghe burocratiche degli straordinari ecc. Tutti lavorano di più e meglio. Più quantità e miglior qualità. Più felici i lavoratori e più felici i datori di lavoro: questo a prima vista sembra il risultato finale dello smart working. Tutto bene, dunque? Il modello lavorativo del futuro sarà un immenso smart working che avvolge l’intero pianeta?

Io ho qualche dubbio, pur riconoscendo la fondatezza di quanto riportato dalle analisi sociologiche e dai miei conoscenti. Alla fine il modello smart working sta trasformando tutti in alacri formichine, che pigiano silenziosamente sulla tastiera fino a notte. Ma quanto può durare?

Per lavorare così occorre avere una vocazione in tal senso. Per esempio io ho scelto definitivamente questo stile di vita all’incirca nel 2005, quindi in tempi ben precedenti alla pandemia: mi trovo molto bene, ma perché sono caratterialmente un solitario, che ama lavorare in silenzio e incontra gli interlocutori professionali giusto per una riunione di un’oretta al massimo e poi basta. Detesto anche le telefonate e al massimo comunico via mail/messaggi.

Mi sa però che il modus vivendi italiano non è così: c’è una ritualità sociale nel lavoro in ufficio, il vedere gli altri, la battuta sul campionato di calcio, baccagliare le colleghe, il caffè insieme alla macchinetta. Tutte cose di cui alla lunga l’italiano medio, specie se impiegato, patirà l’assenza.

Infine un’annotazione di costume, spero faccia riflettere sul tema. All’inizio dello smart working, molte mie conoscenti donne mi hanno confidato che per loro era una liberazione lavorare da casa, “libere” da tutti i condizionamenti sociali: niente trucco, niente capelli a posto da parrucchiere, niente unghie smaltate alla perfezione, niente ceretta settimanale. “Sapessi quanto risparmio perché non vado più dall’estetista ogni settimana” mi ha detto, in quel frangente, una mia amica di lunga data. Ebbene ora molte di quelle donne riconoscono pubblicamente che patiscono l’assenza di quelle incombenze, non sono poi così “contente”, alla lunga, del nuovo trend. Sentono la mancanza di non poter sfoggiare, in ufficio, unghie perfette e trucco impeccabile. Come andrà a finire? Vincerà la pinza per capelli o la messa impiega settimanale? Staremo a vedere.

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Smart working ultima modifica: 2022-07-03T04:24:00+02:00 da GognaBlog

7 pensieri su “Smart working”

  1. 7
    Grazia Pitruzzella says:

    Ho riserve sul fatto che lo smart working non fosse in programma da tempo, tanto è vero che certe aziende hanno già abbandonato la sede.
    Per il resto, purtroppo, pare che la gente lavori di più stando a casa, in barba ad anni di  lotte per ottenere certi diritti.
    Credo che la socialità, inoltre, sia più importante di quanto si creda e che stare seduti 8 ore davanti a un pc sia piuttosto alienante.
    Un conto è lavorare da casa immersi nella natura, un altro è farlo in un appartamento cittadini condividendo spazi con il resto della famiglia che, poi, dopo il lavoro ti fagocita, nel bene e nel male.
    Penso si debba lasciare libera scelta a tutti.
     
    Buona estate! 

  2. 6
    Roberto Pasini says:

    E per chiudere in bellezza segnalo questa importante ricerca, anche se sicuramente il caro Balsamo avra’ da ridire giustamente sulla attendibilità statistica e sulla metodologia, ma so che come emiliano romagnolo apprezzerà. Questa si che è roba che scotta! Altro che Come Don Chisciotte. A quanto pare i Parioli non hanno bisogno del gas russo per scaldarsi. Sarà casuale, ma Draghi abita ai Parioli. Forse per questo non è preoccupato per l’inverno come i crucchi ed è così atlantista. Mai fidarsi dei gesuiti. Ale’….saluti dal Tigullio infuocato. 
    https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/pariolini-porcellini-ndash-quali-sono-zone-roma-dove-si-tradisce-315995.htm
     

  3. 5
    Roberto Pasini says:

    Cominetti. Easy. E’ estate e si mangia l’anguria. Apprezza un po’ l’ironia che allevia in modo non dannoso le brutture del mondo. Per il resto la socialità sul luogo di lavoro comprende anche il sesso. E come se lo comprende, anche per comodità.  Infatti di solito è proprio sul luogo di lavoro che succedono più casini in merito.  Lo smart working certamente non favorisce, anche se quando c’è la motivazione anche i soggetti più pigri e comodosi si ingegnano. Saranno le autorità ecclesiastiche dunque a sponsorizzarlo per difendere la famiglia ? La sostenibie leggerezza dell’essere. 

  4. 4

    Qualcuno ha capito cosa siano i lavoratori della conoscenza?
     
    Lo Smart working a qualcuno piacerà e a qualcuno no.
     
    In quanto al coltivare infedeltà coniugali sul posto di lavoro, non ci vedo nulla di strano. Se uno o una cerca l’infedeltà coniugale la può trovare ovunque. A Pasini la coppa d’oro della banalità anche stavolta.

  5. 3
    Roberto Pasini says:

    Back to the Office, please! Il 60% delle infedeltà coniugali avviene sul luogo di lavoro (guide alpine comprese, stando a a quello che dice la leggenda e non solo ?) una grande comodità anche logistica che pare aumenti la produttività invece di diminuirla. Certo coi tempi che corrono è un po’ pericoloso, ma come sa bene chi va in montagna “dove più grande il rischio, più elevata e’ la speranza di salvezza” (in ogni caso conviene sempre firmare reciprocamente una liberatoria, prima non dopo. Alegher!   ?

  6. 2

    Noi umani siamo strani, prima della pandemia si facevano pseudo lotte inneggiando allo smart working come momento alto di qualità della vita, la casa, i comfort, la famiglia, il cane i gatti, le pause l’eliminazione dei viaggi verso il lavoro i costi di benzina…poi oggi invece lo Smart working e’ una rovina…ma andate a fan…..

  7. 1
    Davide Scaricabarozzi says:

    A tutto c’è una misura, anzi una su misura.
    Lavorare in remoto tutti i giorni della settimana è asfissiante, nonostante sia un pendolare da 100 km al giorno percorsi in treno con tutti i relativi disagi.
    Ho bisogno di interagire de visu con i colleghi e l’azienda più in generale, non solo per un’esigenza professionale (molti problemi si risolvono meno faticosamente in presenza) ma anche per il personale bisogno di socialità che rende la giornata più fluida e leggera.
    Il giusto mix, appunto quello su misura per me, sarebbero 2 giorni in smart (al massimo) e il resto in azienda.
    Il problema che molti segnalano sulle ore lavorate da casa è un non problema. 
    Mi connetto esclusivamente negli orari di ufficio, mi scollego per la pausa pranzo e alle 17.30 spengo tutto, cellulare aziendale compreso. 
    Poi  evidentemente c’è chi preferisce stare attaccato al PC h24, ma mi pare evidente che è una scelta che strizza l’occhio al presenzialismo da carrierista …

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