L’appello del grande filosofo e psicoanalista: abbandonare definitivamente l’ego cartesiano che ci contrappone alla natura. Trasformando noi stessi in ecosistema.
Sono i nostri “Io” i nemici del Pianeta
di Miguel Benasayag
(pubblicato su La repubblica del 23 gennaio 2020)
Oggi il tema della sostenibilità ambientale è sempre più al centro dei nostri discorsi. Sorge spontanea la domanda: l’individuo è davvero disposto ad affrontare i sacrifici, il cambio dello stile di vita, le rinunce necessarie per adottare comportamenti eco-friendly?
Siamo immersi in una società invasa dalla presenza di nuove “minacce”. I media, la radio, la televisione e i nuovi mezzi di informazione digitale, ci tempestano di notizie su nuove crisi ecologiche, emergenze umanitarie, sul riscaldamento globale e su nuove malattie virali che minacciano la nostra società. Di fronte ad un futuro non più percepito come promessa di emancipazione globale, ma come minaccia e incertezza l’uomo si chiude in se stesso, per non pensare alla complessità che lo circonda.

Pensare che l’azione individuale, l’idea di sacrificio promosso dal singolo sia una risposta possibile alla crisi climatica che stiamo vivendo vuol dire perpetuare l’illusione moderna che l’uomo sia al “centro del mondo”.
Come emerso dalle mie ricerche psicoanalitiche, di fronte alla complessità contemporanea e a un senso di futuro come minaccia l’individuo vive in una condizione di disagio profondo, di tristezza esistenziale, a testimonianza della sua impotenza.
È in corso una trasformazione radicale, di cui è necessario approfondire le ragioni nascoste: il concetto di individuo così come lo concepiamo sin dai tempi moderni è entrato in crisi; una crisi che mette in luce la storicità di questo concetto. L’uomo moderno, lo scienziato per Galileo, il cogito di Cartesio, l’io puro kantiano riposano su una scissione fittizia dell’individuo dai propri legami con l’ambiente.
La divisione netta tra ragione e natura, rappresentante e rappresentato, soggetto e oggetto ha aperto infinite possibilità tecniche di agire sull’ambiente, ha posto le basi della conoscibilità “oggettiva” del reale come prevedibilità del fenomeno osservato e quindi sua manipolazione, in vista di una “razionalità” tecnica capace di dominare gli elementi circostanti.
L’esaltazione della ragione universale in grado di “risollevare le sorti dell’umanità”, panacea in grado di superare i limiti dell’uomo e della sua “naturalità” ha portato con sé una concezione lineare del tempo, diretto verso la salvezza, come emancipazione di fronte ai limiti del corpo, della malattia, dell’ignoranza e della fame. Idea questa che persiste nello slogan transumanista “tutto è possibile!”.
Come può allora l’individuo oggi porsi dei limiti se il concetto di limite è stato sostituito dalla nuova speranza di una vita infinita demandata all’ibridazione tra uomo e macchina? In breve, dove ci ha portato questa idea di individuo distinto dal mondo animale e dalla natura, capace di esercitare la propria ragione in vista di una manipolazione dell’ambiente circostante? Se la crisi novecentesca della “razionalità” si è manifestata in campo scientifico e artistico con conseguenze innocue non si può dire lo stesso per le conseguenze sociali cui l’esacerbazione di una razionalità tecnica ha condotto: i totalitarismi novecenteschi, i campi di concentramento mettono in mostra i rischi cui una concezione di individuo “razionale” può portare. Separare quindi il lato umano dall’ambiente è tanto sbagliato e rischioso quanto separare la ragione dal lato “irrazionale”, affettivo e pulsionale che guida le nostre azioni.

L’individuo in quanto figura storica non può risolvere il problema, perché ne fa parte. Il problema risiede nel sistema capitalistico contemporaneo, nel modello di progresso infinito in cui viviamo, che orienta le scelte individuali e collettive. L’idea di crescita infinita, ancora persistente nel nostro modello economico impone all’individuo di non fare sacrifici. Non si tratta allora di ri-educare gli individui, modello che fa paura e che richiama fantasmi del passato, pensando che ciò che manca oggi all’uomo è la conoscenza delle conseguenze delle sue azioni sull’ambiente; perseguendo l’idea che sia la ragione a doverci guidare nel passaggio a un modello ecologico e sostenibile.
Piuttosto è necessario orientare i meccanismi pulsionali verso nuove forme di desiderio, di creare nuove intenzionalità desideranti, non più orientate al consumo immediato. L’ambientalismo non è allora una questione morale, che riflette la scelta di un individuo di agire secondo ciò che è giusto, ma etica; dove con questo termine mi riferisco alla prassi di un agire orientato alla creazione di un altro paradigma di felicità e di desiderio rispetto a quello sino ad ora conosciuto. Se non creiamo pratiche di vita, nuovi modi di vita concreti che determinano un nuovo modo di desiderare e agire, al di là del dettato consumistico del capitalismo contemporaneo, non potremo mai cambiare nulla e andremo inevitabilmente verso la catastrofe.

Il tema della sostenibilità ambientale mette in luce un cambiamento antropologico in corso: la fine dell’era dell’antropocentrismo e dell’epoca dell’uomo, per riprendere le parole di Foucault. La complessità non è allora un modello teorico, è la cifra concreta della nostra realtà: l’emergere di una nuova modalità dell’uomo di rapportarsi con l’ambiente. Si tratta di uscire dall’illusione che ciascun io esista come protagonista assoluto privo di legami con la “situazione” in cui vive, al punto da percepirsi autonomo e isolato.
La ricchezza della differenza e della molteplicità che ci abita nasce proprio dal nostro interagire neurofisiologico e psicologico con la differenza e la molteplicità di situazioni che viviamo. Riconoscerci in un’ottica situazionale ci pone di fronte a noi stessi come viventi, fatti di legami con gli altri e con l’ambiente, non più individui ma ecosistema.
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Purtroppo ho dei limiti… CONOSCO LA LINGUA ITALIANA E CERCO DI PARLARLA BENE…
grazia dice:
19 aprile 2020 alle 10:26
Se supponi che non ci sia speranza, garantisci che non ci sarà speranza.
Se supponi che esista un istinto di libertà, che ci siano opportunità di cambiare le cose, allora c’è la possibilità che tu possa contribuire a creare un mondo migliore.
Mi piace il contenuto dell’articolo perché lo vado dicendo da molto tempo. Temo però che la natura umana sia fallace e non impareremo la lezione dell’epidemia in corso. Appena possibile, gli esseri umani si ributteranno in una frenetica corsa consumistica, cosa che presuppone la concezione egocentrica ed egoista nei confronti della natura. Ahimé capiterà così e fra qualche mese saremo di nuovo nella condizione pre-epidemia. Fino alla prossima epidemia.
If you assume that there is no hope, you guarantee that there will be no hope.
If you assume that there is an instinct for freedom, that there are opportunities to change things, then there is a possibility that you can contribute to making a better world.
Lo scopo si realizza mantendovi l’attenzione.
Se il punto di attenzione è sul non succederà o su qualunque aspetto vissuto come impedimento, allora non succederà.
Il quando non conta e non serve. Esso è una distrazione dallo scopo.
È così anche nel privato personale.
Ma non succederà.
Condivido pienamente con quanto espresso nell’articolo e con l’autore, uno scritto molto chiaro e comprensibile. Un’analisi puntuale, attenta ed esaustiva.