Stefano Zaleri
(l’accademico che ama il mare)
di Franco Soave
(pubblicato su Le Alpi Venete, autunno-inverno 2023-2024)
È un tranquillo pomeriggio di inizio novembre. Brezza appena avvertita, una leggera foschia ammorbidisce i contorni della costa e fa apparire Trieste quasi avvolta da una sorta di bambagia. Il sole, sbiadito e stanco, tra poco si tufferà nel mare giuliano per lasciare il passo alle ombre. In Napoleonica, la “Napo” per i climber locali, c’è gente: giovani e meno giovani, qualche coppia con la testa già imbiancata; c’è una famiglia al completo, mamma in parete, papà fa sicura dal basso mentre la bimba di pochi mesi, stesa sopra una coperta, gioca con moschettoni e rinvii. La pace serafica dell’ora è screpolata dal tintinnìo dei moschettoni e dal discorrere sommesso degli attori.
Stefano Zaleri e Mauro Florit – alpinisti e rocciatori, entrambi nel Gruppo Orientale del Club Alpino Accademico – passeggiano, osservano, chiacchierano e salutano, segno che da quelle parti quelli forti sono piuttosto conosciuti. La passeggiata si ferma verso la fine della Napoleonica, davanti alla parete dove la Natura si è divertita a imprimere nella roccia una serie di fessure che formano alcune “X” e “Y”, una gigantesca equazione di pietra. C’è la fessura di Giorgio Ramani che sale da destra a sinistra, quella di Marco Sterni che salendo la incrocia da sinistra a destra, e poi quelle di José Baron, di Enzo Cozzolino, di Renzo Space Cortese, la “Y” di Andrea Arci Varnerin.
E ci sono altre fessurine che aspettano altre mani. La passeggiata finisce con l’ultima occhiata al panorama dal belvedere intitolato a Enzo Cozzolino. Poco prima nella tranquilla località Santa Croce, a casa Zaleri – con Mauro Florit come “osservatore neutrale” – si era chiacchierato un bel po’.
Ma prima di riferire cosa ha raccontato il nostro Accademico, ecco il suo ritratto. Stefano Zaleri, detto Calice o Calicetto, nasce a Trieste il 29 marzo 1967. Nel suo curriculum alpinistico figurano circa 1.150 vie, una trentina di prime aperture e cinque invernali. Lui parla di «qualche ripetizione interessante» (!) come la via Direttissima dei Polacchi alla Torre Trieste e la Comici-Benedetti alla Nord-ovest, entrambe in Civetta, ma in archivio ormai ce ne sono moltissime di toste oltre che di grande rilievo storico. Ecco qualche esempio: Bonatti-Ghigo al Grand Capucin; Lacedelli-Ghedina-Lorenzi e Hyperscotoni (Leviti-Mich) a Cima Scotoni; Costantini-Apollonio e Paolo VI (Lorenzi-Menardi-Michielli-Gandini-Zardini) alla Tofana di Rozes; Moderne Zeiten (Mariacher-Iovane) e via dell’Ideale (Aste-Solina) alla Sud della Marmolada; Via Messner con variante Mariacher al Pilastro di Mezzo del Sass dla Crusc; Hasse-Brandler-Lehne-Löw alla Nord della Grande di Lavaredo; via Cozzolino (con Paolo Rumiz) allo Spiz d’Agnèr Sud e (con Nino Corsi) allo Spiz d’Agnèr Nord; via Piussi (con Alberto e Umberto Perissutti) alla Veunza; prima ripetizione della via dei Polacchi (1), con Lorenzo Bearz (27 e 29 agosto 1995) e prima ripetizione in giornata della Piussi-Redaelli alla Torre Trieste (con Ivo Kafol, 28 giugno 1987); prima invernale della Livanos (Georges e Sonia, 30 luglio 1957) alla parete ovest della Torre Venezia, con Andrea Clavarino, 6 gennaio 1989); prima ripetizione e prima invernale della via Cozzolino (aperta con Fabio Janovitz, Walter Romano e Tullio Ogrisi) a Punta Papi (Gruppo del Popera); le vie nuove in Civetta: al Pan di Zucchero, Ironia della sorte alla parete est (con Claudio Sardella, 18 agosto 1987) e L’incompiuta alla parete nord-ovest (ancora con Sardella, 2 e 16 agosto 1987); Illusione ottica alla parete est della Torre d’Alleghe (con Claudio Sardella, 19 agosto 1987); Miska alla parete sud-ovest del Castello della Busazza (con Ivo Kafol, 31 luglio 1988); Via del Brivido allo Jôf Fuârt ; inoltre numerose prime salite su cascate di ghiaccio e una robusta attività extraeuropea in Algeria, Giordania, Turchia, Pakistan, Patagonia.
Dal 2013 è socio del CAAI, presentato da Marino Babudri e Mauro Florit. Ecco ciò che ci ha raccontato.
Stefano, hai una grande attività in montagna, in Italia e all’estero con una decina di spedizioni in giro per il mondo. Come e quando è nata la passione?
«Mio nonno è stato tra i fondatori del gruppo rocciatori GARS dell’Alpina delle Giulie, di cui ha fatto il segretario per quindici anni ed era amico di Emilio Comici. Assieme lavoravano ai Magazzini Generali a Trieste e frequentavano il CAI. Il nonno si chiamava Narciso Zaller e aveva due fratelli, ma i fascisti hanno cambiato il cognome a due di loro trasformandolo in Zalar e Zaleri, così tre fratelli si sono trovati con tre cognomi diversi. Mio papà non è mai andato in montagna, invece mio zio Livio mi ha sempre portato a camminare e a fare ferrate. Tenevo duro, mi dava soddisfazione. Un giorno, dopo avere visto dei ragazzi con corde e moschettoni, abbiamo capito che camminare non bastava più. Così ci siamo iscritti al CAI, abbiamo fatto un corso nel 1983 ed è stato il cambio totale della mia vita. Poco dopo ho fatto la prima via da capocordata con mio zio, la Happacher alla Croda sora i Colesei. Lui era ansiosissimo e alla fine mi ha detto “io con te non vengo più”. L’anno dopo ho fatto il secondo corso da solo e poco dopo sono diventato Aiuto Istruttore, così sono entrato nella scuola di roccia Comici dell’Alpina delle Giulie».
Da come racconti sembri il perfetto ritratto di un malato di montagna…
«In realtà a me piacciono le avventure, mi piace l’adrenalina, mettermi in discussione. Mi dicono “tu ami la montagna”, ma non è proprio così, non andrei mai a vivere in montagna. Pensa che da studente ho frequentato l’Istituto Nautico. A 14 anni volevo andare a navigare, mia madre era contraria, ma io, cocciuto, mi sono preparato tutti i documenti da solo. Mia madre a quel punto mi aveva promesso un imbarco, lo aspettavo sulle petroliere della Texaco, invece non è successo niente. Poi ho scoperto la roccia ed è venuto tutto il resto».
Calice, soprannome presente anche nel tuo profilo accanto alla foto nell’elenco degli istruttori della Scuola Nazionale di Alpinismo “Emilio Comici” della Società Alpina delle Giulie. Quando è nato il tuo soprannome?
«È nato come Calicetto, poi quando non hai più 15 anni… E poi ora Calice è più smart, no?! È successo durante l’adunata degli Alpini a Trieste, nel 1984. Con degli amici abbiamo incontrato Fabio Ardesi, uno dei rocciatori più forti, che mi ha salutato. E uno degli amici gli ha detto “ah, conosci Calicetto?”. Gli è venuta così, all’improvviso, forse mi avrà visto un po’ allegro. Ma mi sono trovato marchiato a fuoco. La domenica successiva sono andato in Val Rosandra e per tutti ero Calicetto, quel soprannome ha preso piede in una frazione di secondo e non me lo sono più tolto di dosso. Sai quanti ancora oggi mi conoscono come Calicetto e non con nome e cognome?».
Emilio Comici e Enzo Cozzolino, due alpinisti, due rocciatori entrati nel mito. Cosa rappresentano per un triestino?
«Sono sicuramente dei punti di riferimento, sono i più nominati, hanno lasciato vie improntate al cambiamento. Io ho un certo rapporto con Cozzolino perché in Napoleonica ci sono tanti passaggi, i “boulder” di oggi, fatti per primo da Cozzolino. E quindi devi fare la “X” di Cozzolino, quel passaggio di Cozzolino… Quando ero giovane Giorgio Ramani, mio grande maestro, mi portava sui passaggi in alto, slegato, e nei suoi racconti c’era spesso Cozzolino. Andavo ogni giorno in Napoleonica a fare i traversi e ad allenarmi, con Ramani che mi accompagnava sui suoi passaggi. Cozzolino è sempre presente. Ci sono certe vie aperte da lui mai ripetute. Tieni presente che il diedro del Mangart di Coritenza o la Via dei Fachiri sono… semplici rispetto ad altre. Io ne ho fatte alcune e mi sento di avere un certo feeling con lui. Ho ripetuto la sua via alla Terza Sorella del Sorapiss, ci sono nove chiodi su mille metri di roccia, non ci sono soste, è come aprire una via nuova. Comici e Cozzolino sono grandi riferimenti per i triestini. La Val Rosandra, la Napoleonica, la Costiera, tutte le falesie sono zeppe di Comici, c’è una scuola di alpinismo intitolata a lui nell’Alpina, ci sono immagini dappertutto. Però Comici chiodava tanto, Cozzolino non chiodava niente».
Rimaniamo in tema. Trieste ha due scuole di alpinismo: la “Emilio Comici” nella Società Alpina delle Giulie, e la “Enzo Cozzolino” all’interno della Sezione CAI XXX Ottobre. Come funzionano i rapporti tra voi, andate d’accordo o c’è rivalità?
«C’è spazio per tutti, i rapporti sono assolutamente buoni. Non collaboriamo tanto nel senso che ciascuna organizza i propri corsi e la propria attività però in determinate situazioni Scuole e Sezioni sono presenti. Sono lontani i tempi in cui ci sono stati problemi tra le Società, è acqua passata. Ora non c’è alcun problema».
Dalla roccia al ghiaccio. Hai un’intensa attività sulle cascate di ghiaccio assieme ad altri triestini – Marco Zebochin, Giorgio Gregorio, Siro Cannarella, Mauro Florit, Gianpaolo Rosada, Tullio Ferluga, Sergio Serra – in compagnia dei quali all’inizio degli anni Ottanta avete praticamente scoperto la zona di Sappada. Ma ci sono anche realizzazioni in Val Raccolana, a Sauris, e in Val di Rabbi. Siete stati una sorta di esploratori in una disciplina che all’epoca era pochissimo praticata. Cosa vi ha spinto a cercare il ghiaccio?
«Ferluga e Serra sono stati proprio i precursori, ma non ho mai scalato con loro, con tutti gli altri sì.
Marco è stato di sicuro uno dei primi in assoluto, con lui ho scalato abbastanza soprattutto su ghiaccio, è bravissimo, per me era come un fratello maggiore, mi proteggeva sempre. E il ghiaccio era una novità, un’esplorazione d’inverno dove non andava nessuno».
Nel 2004, ormai quasi vent’anni fa, tu, Marco Zebochin e Dario Crosato avete aperto una via sulla parete nord del Roungkanchan 1 4600 m circa, nella Nangma Volley, in Baltistan. La via si chiama Troubles, cough and fever, 540 metri di sviluppo, difficoltà 6b+ e A1. Il nome della via, tradotto, significa “Problemi, tosse e febbre”. Cos’è accaduto?
«Dovevano andare laggiù Marco e Dario con Paolo Pezzolato, ma questi ha dovuto rinunciare e due mesi prima della partenza mi hanno coinvolto. Primo obiettivo era la Kondus Valley, al confine con il Kashmir. Laggiù c’era già stata una spedizione italiana con finalità anche benefiche e ci era stato consigliato di appoggiarci a una persona locale con cui tutti, pare, si fossero trovati benissimo. Quando sono entrato nel gruppo, a questa persona Marco e Dario avevano già dato parecchi soldi per i permessi e tutto il resto, ma al nostro arrivo ci siamo accorti che non aveva fatto nulla, non c’erano né i mezzi né i permessi. Insomma, abbiamo iniziato la spedizione litigando. Noi avevamo anche un telefono satellitare e quando siamo usciti dal Pakistan questo signore ci ha detto «voi avete un satellitare non registrato, siete in zona di guerra e senza il mio aiuto di qui non uscite». A quel punto siamo stati costretti a inghiottire tutto e siamo usciti: questi sono i “troubles”. Nella Kondus Valley non siamo entrati perché non avevamo il permesso, così abbiamo ripiegato sulla Nangma Valley. Tosse e febbre invece si riferiscono alle condizioni di Dario».
Nel 2019, per celebrare i 90 anni della Scuola di Alpinismo “Emilio Comici” e del GARS (Gruppo Alpinisti Rocciatori e Sciatori), alcuni istruttori dell’Alpina organizzano una doppia spedizione: un gruppo in Marocco ad arrampicare in Taghia, nell’Alto Atlante, un altro in Cile a fare scialpinismo. Tu eri nel primo gruppo con Alessandro Barbieri, Stefano Barelli, Eugenio Dreolin, Stefano Figliola, Mauro Florit, Giuliana Pagliari e Silvio Silich, direttore della scuola. Cosa avete combinato laggiù?
«Beh, è stata una gita un po’ per tutti, la Scuola organizza spesso “gite” di questo tipo grazie anche all’aiuto della Società. Sono belle esperienze perché aiutano a fare squadra. E poi è una “figata” arrampicare lì, il calcare è bellissimo, nell’arco di un’ora e mezzo hai tutto, è un bel parco giochi. Ci siamo tornati anche quest’anno con il gruppo rocciatori. Le prime vie sono degli anni ’60, ma ora anche lì sta cambiando tutto. Quando è andato Mauro per la prima volta non c’era nemmeno l’elettricità, quando siamo andati noi c’era la luce e stavano costruendo una strada, quest’anno la strada è stata completata. Come in Patagonia, quando ci sono andato non c’era nulla, ora El Chaltén è una città».
A proposito di Patagonia… Nel 1987 avevi vent’anni. Il 21 novembre alle 15.30 con Mauro Petronio sei in cima al Cerro Torre dopo la via del Compressore, quella aperta da Maestri nel 1970 con Carlo Claus ed Ezio Alimonta. Nelle pagine di Alpi Giulie scrivi: «Sono arrivato in cima al Cerro Torre, mi sembra incredibile! Eppure le diapositive parlano chiaro. Ma allora la splendida avventura che ho vissuto con Mauretto non è un sogno!?! È passato tutto così in fretta che mi è parso di vivere una favola». Perché il Torre e perché la via del Compressore?
«Allora la via del Compressore era tanto ripetuta perché si sviluppa sul versante dove c’è il campo base mentre le altre pareti sono più difficili da raggiungere. Qualcuno diceva che la via Maestri era una ferrata: sì, c’erano chiodi ma c’era tanto da scalare e c’era tanto misto! Quell’anno ero giovane e quell’esperienza mi ha cambiato molto. Era la prima volta che andavo lontano per scalare ed è stata la prima volta che ho preso un aereo, è stato meraviglioso. Al campo base c’erano veramente tutti: Maurizio Giordani con Rosanna Manfrini, Ines Božić con Janez Jeglič per la prima femminile, c’era il fortissimo sloveno Silvo Karo, e poi Maurizio Giarolli con Elio Orlandi… E con quei “mostri” c’ero anch’io, pazzesco no?! Mi hanno preso subito come mascotte. Al di là della via mi sono reso conto che i ricordi più belli di quarant’anni anni di alpinismo non sono mai relativi alla via. Ciò che conta è la persona con cui l’hai salita, il contesto, l’aneddoto divertente o drammatico, in altre parole l’esperienza. Se qualcuno mi domanda “cosa ricordi della via Maestri?”, rispondo che mi ricordo di queste persone, di Orlandi che mi ha preparato il risotto con le fragole, in Patagonia, ed era un mese che mangiavo erba. E poi scaloppine al vino bianco. La via? Sì, la sfida, la paura, il freddo… poi ti dicono che l’hai fatta, sei stato bravo. Ma alla fine le cose belle sono le storie, il bello è stare con la gente».
Primo corso di roccia nel 1983, il secondo l’anno successivo. Subito Aiuto Istruttore, in seguito Istruttore nel 1989. Oggi ancora Istruttore Regionale di Alpinismo. Cosa insegni agli allievi?
«Io sono un istruttore di una volta. Il CAI è un ente gigante, quasi un’azienda nella quale conta la sicurezza, contano le regole e questo viene trasportato nel volontariato. Una volta come istruttore portavi la gente a scalare e insegnavi l’esperienza, esistevano pochissimi manuali e trasmettevi all’allievo quello che sapevi. Oggi abbiamo codificato tutto e insegnare non affascina più. A fine corso si fanno dei test, gli allievi devono dire cosa è piaciuto e cosa no. E tutti rispondono “a quel paese le lezioni teoriche, dovete darci la vostra esperienza. Va bene la scalata come parte pratica, ma dopo davanti a un caffè o un bicchiere di vino dovete raccontarci le vostre esperienze”. Hanno bisogno di sentire storie vere».
Tre le tue salite il nome della Civetta ricorre più volte: via Comici-Benedetti alla cima principale; Pan di Zucchero via Tissi-Andrich-Rudatis, Ironia della sorte e L’incompiuta, vie nuove; Torre Trieste via Tissi-Andrich, via Direttissima dei Polacchi (si dice vista prima solo in un disegno di Kukuczka), prima ripetizione, via Piussi-Redaelli, prima ripetizione in giornata; Castello della Busazza via Messner-Holzer; Castello della Busazza, via nuova Miska; Torre Venezia, via di Georges e Sonia Livanos, prima invernale; Torre d’Alleghe, via nuova Illusione ottica. Perché così tanta Civetta, cos’ha questa montagna di magnetico?
«La nostra Comici è stata la sedicesima, me l’ha confermato Vincenzo Dal Bianco. È una via difficile, pochi chiodi e poche ripetizioni. L’ho fatta con il mio amico e grande compagno Andrea Clavarino che, tra l’altro, ha fatto il Nautico con me. È stata una grande esperienza. Perché la Civetta? Mi piaceva il posto, è accogliente, all’epoca ero abbastanza giovane e i gestori storici dei rifugi sono stati sempre splendidi. Io mi mettevo a dormire fuori con il mio sacco a pelo perché non avevo soldi, e loro “non importa, dai vieni dentro”. Con loro c’era un rapporto bellissimo. Penso a Nino Del Bon del Falier, a Enza e Renato De Zordo del Coldai e a Piercostante Brustolon del Vazzoler… mi hanno trattato come un figlio. E quando penso alla via dei Polacchi, per la prima volta mi sono commosso quando sono arrivato in cima a una montagna».
Dopo la Piussi-Redaelli alla Torre Trieste scrivi: «La motivazione che mi spinge ad affrontare pareti tanto difficili, e quindi a espormi a un rischio maggiore, è quella di effettuare una prestazione sportiva che non sia riuscita ad altri» (da Alpi Giulie, 1990). È ancora questa la molla che ti spinge ad arrampicare o negli anni è cambiata?
«Quella via è stata la prima ripetizione in giornata e la sesta assoluta, riuscita al terzo tentativo. Quello che ho scritto andava bene all’epoca, allora era una molla che mi spingeva, ma non pensavo che gli altri fossero incapaci, mi stimolava quell’incognita che magari aveva fermato altri. Oggi non è più così, ho un’altra vita, mi piace andare tranquillo, ma non sono un pantofolaio! Cerco sempre l’avventura, la sfida, salgo cinquanta vie all’anno».
«Internet, alpinisticamente parlando, è l’assassinio dell’incognita. Ha ancora senso parlare di avventura?». Sono parole di Flavio Ghio. Ha ragione lui, i social oggi uccidono il senso di avventura?
«In parte sì, ha ragione. Nel senso che ora vai in internet e trovi tutto. Pensa, per esempio, poter andare in Egitto senza avere mai visto prima le Piramidi: che meraviglia! Oggi le guardi al pc fino alla nausea, vai laggiù e timbri una cartolina senza entusiasmo».
Un salto indietro al 1984, anno in cui Andrea Varnerin detto Arci e Marco Sterni in Val Rosandra aprono Tipi da spiaggia, la prima via attrezzata dall’alto con gli spit messi a mano. Si racconta che una volta in macchina avevi un adesivo con scritto “Spit? No grazie”. Che differenza c’è tra quella via dell’84 e le vie a spit di oggi? Lo spit è sempre una sconfitta?
«Andrea e Marco erano andati ad Arco alla Spiaggia delle Lucertole e avevano visto la novità, poi hanno aperto Tipi da spiaggia. Cominciava la stagione degli spit, io mi sentivo già alpinista dentro e pensavo che gli spit rovinassero tutto, quindi ero contrario. Tra l’altro, Arci aveva avuto il compito ufficiale di richiodare tutta la Val Rosandra. Io avevo un grande trasporto per l’alpinismo, il rischio e pensavo “in Val Rosandra sarà tutto sicuro con gli spit, che schifo! Dov’è finita l’avventura?”. La reazione è stata quell’adesivo. Per la verità avevo scritto “Arci, no grazie”, ma eravamo amici! Oggi i tempi sono cambiati, giusto o non giusto è così. Anch’io salgo vie a spit, ho aperto vie a spit, è comodo e divertente. Ciò che non è giusto, invece, è “distruggere” le vie classiche, avventurose: spittare le vie degli altri proprio no».
Dal 1987 il tuo lavoro è quello di imprenditore di lavori in quota. Un lavoro “verticale” come la passione. È stata una scelta o è capitato per caso?
«La mia ditta si chiama “Vertigine”, anche quella è stata una svolta per la mia vita. Visto che sapevo usare le corde e che arrampicavo, ho iniziato con i lavori in quota. Avevo quasi un monopolio, a Trieste allora eravamo in tre. Mi raccontano che fin da piccolo cercavo il modo di trovare qualche soldo. Mi ricordo bene che a 9 anni stavo trattando qualcosa con mio cugino, forse dei giochi. La zia mi ha visto e ha detto alla mamma “tuo figlio diventerà un bravo imprenditore”. Facevo lavoretti a casa, pitturavo ringhiere, recuperavo le bottiglie di vetro dappertutto per recuperare pochi soldi con i vuoti. Vendevo a scuola le magliette con il motto “Bevi Rosso”, le portavo nei rifugi, nei campeggi. Nel 1987 al Distretto militare mi hanno detto “lei non ha il fisico” e mi hanno scartato, così ho aperto la partita Iva e ho iniziato con il commercio all’ingrosso di abbigliamento. Ho presentato la mia “Bevi Rosso” ad alcune aziende e dopo qualche rifiuto mi ha dato soddisfazione Salewa. Un giorno mi chiamano da Bolzano e mi ordinano diecimila magliette! Quando ho smesso mi sono dedicato solo alla mia ditta, oggi è aperta da 35 anni».
«La parola sport alpino mi ha sempre fatto un poco male, mi sa troppo di superficiale e che si cerchi nel monte un’impalcatura da arrampicare, invece di cercare la sua anima». Sono celebri parole di Julius Kugy. Ha ancora ragione lui?
«Per me la montagna è sempre stata un’attività e un luogo dove provare emozioni ed entusiasmo, però questa spiritualità non l’ho mai sentita. È bellissima la montagna, è il tramite per vivere un’avventura ma preferisco il mare, la vela. Come natura sento molto più il mare. Forse l’anima della montagna al tempo di Kugy era diversa. Mio nonno andava sul Montasio partendo in treno da Trieste fino a Chiusaforte. In Val Raccolana c’era solo una mulattiera e faceva a piedi 17 chilometri. Dormiva al rifugio Julia – dove oggi arrivi in macchina – il giorno dopo saliva in cima e poi ritornava. Quattro giorni per salire il Montasio e tornare a casa. Oggi puoi farlo in mezza giornata, come fai a parlare di spiritualità della montagna? Certe emozioni le avverto più in barca a vela quando fai una traversata. Magari sei solo, in mezzo al mare. Allora tutto questo lo sento molto».
Stefano Zaleri, l’Accademico con la passione del mare. Interessante…
«Nel 1995 ho avuto problemi di salute e, a parte le cure, mi ha salvato un amico che mi ha portato a pescare. Prima ero solo roccia. Ringrazio Dio, a posteriori, per questa malattia perché sono uscito da un mondo su binario unico nel quale si parla solo di tacche, di appigli e ho iniziato ad andare per mare. Mi si è aperto un mondo che esiste da sempre, ma che non vedevo».
Al di là del mare esiste per te una montagna del cuore?
«La Civetta è sempre stata meravigliosa, sulle sue pareti ho passato un bel po’ della mia vita. La Torre Trieste è stata un banco di prova importante, d’inverno, in estate, con le valanghe… La mia montagna è la Torre Trieste».
Nota
(1) Civetta, Torre Trieste, Direttissima dei Polacchi aperta da Jerzy Kukuczka, Zbigniew Wach, Jerzy Kalla e Tadeusz Tankaitys in tre giorni di arrampicata dal 23 al 26 luglio 1972. Difficoltà fino al VI+ e A2.
Tutto origina dal commento n. 1 e, inoltre, se il dibattito ha preso una “certa” piega, non è solo imputabile a me, ma a tutti quelli che evidentemente hanno maggior interesse a dibattere sul risvolto emerso che sul personaggio in questione.
Il finalino poi mi pare solo frutto di tue ossessioni.
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“conviene stare molto abbottonati: fare attenzione anche a quello che si dice agli allievi in chiacchierate informali e amichevoli, specie se con testimoni presenti (magari davanti a una birra a fine uscita), perché non si sa cosa ci riserverà il domani nelle aule giudiziarie…”
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Se dovessimo dar retta alle mefitiche previsioni crovelliane (mai dimenticherò il metro di distanza alle soste con il drone che ti sorveglia e vieni segnalato ai “gendarmi”), gli istruttori Cai dovrebbero tutti restituire la patacca, almeno sicuramente tutti quelli che conosco (e non sono pochi).
Detto ciò, spiace per l’incolpevole e inconsapevole Calice che invece di leggere (ammesso che sia a conoscenza della pubblicazione) commenti alla sua pregevole attività, deve sopportare gli sproloqui del solito, che non perde l’occasione per inquinare tutti i post del blog. Non se ne può davvero più.
Non ho whatsapp di sorta e il grande paranoico è proprio l’ultimo a cui chiedere consiglio o da cui prendere istruzioni…
La prossima volta che mi invitano a tenere una conferenza o una lezione teorica dirò di rivolgersi a te che sei in contatto WhatsApp con l’Onnipotente
Come può essere sprecato il breve tempo del nostro passaggio sulla terra!
E’ incredibile come pensi di saperne di più, sul tema in questione, uno che sembra NON esser neppur istruttore, che se lo è stato non si sa neppure per quanto tempo e con quale “pregnanza partecipativa” e quanto tempo fa tutto ciò sarebbe avvenuto, rispetto ad un altro (il sottoscritto) che copre il ruolo da 45 anni consecutivi (se considero anche gli anni da allievo, fra un paio di anni compirò i 50 consecutivi nell’ambiente didattico del CAI), il tutto in più scuole e anche con responsabilità organizzative e direttive, che da tempo ha approfondito il tema specifico per particolare interesse personale e che nelle serate che tiene presso le varie scuole CAI suscita sempre l’attenzione e l’approvazione dei convenuti, anche quando parla su questo specifico tema.
Sei una sicurezza, anche volendo non riesci nemmeno a citare il numero giusto dell’intervento a cui vuoi riferirti…
si, si, lo so, è solo un errore di battitura, non bisogna formalizzarci sulle piccolezze, dobbiamo snebbiarci il cervello e imparare a ragionare, di sicuro conosci il sentiment della maggioranza degli istruttori e solo tu sei titolato a interpretare il “modello” didattico del CAI
🙂 🙂 🙂 🙂
Leggere l’odierno commento 16 dell’articolo relativo all’incidente primavera 2023 (valanga in val di Rhemes). Molto istruttivo. E cmq: sono “solo” mie fisime? Credetelo pure, a me che meffrega? Quando vi troverete nudi e crudi sul banco degli imputati in tribunale non la penserete più così. Nell’attuale società mettersi azzeccare le più adeguate mutande di latta è più importante che indovinare la piccozza giusta…
Gli istruttori che hai conosciuto, che sono sicuramente brillantissimi sia come alpinisti a titolo personale che come istruttori, rappresentano una minoranza numerica e non sono rappresentativi dell’andazzo dominante che ho già descritto, non ricordo più se ieri o l’altro ieri. Tutto congiura in una certa direzione, non ultimo anche l’incontro fra domanda e offerta in merito alla tipologia di didattica e di attività. Questo è un discorso autonomo e parallelo a quello giudiziario, ma “pesa” altrettanto sui trend in sviluppo. Tale trend non è frutto di “una” causa precisa, ma di molteplici cause che interagiscono.
In conclusione. Volete cambiare il modello didattico del CAI? Ci sono gli strumenti, basta sfruttarli e impegnarsi in merito: in primis, se non lo siete, diventate istruttori titolati (e, pensadola come la pensate, già la vedo dura… – la capacità tecnica NON c’entra nulla: se ai corsi fate fate discorsi del genere, non andate avanti…) e, successivamente, candidatevi alla CNSASA (e qui dovete farvi votare dai titolati di area, battendo eventuali altri candidati, e sinceramente – dati i discorsi che fate – la vedo non solo dura, ma durissima… conosco il sentiment medio dominante fra gli istruttori e non è certo allineato su idee come le vostre) e poi, ammesso che entriate nella CNSASA, portate avanti le battaglie in tale senso, tra l’altro dovendovi anche confrontare con le autorità apicali del CAI (dal PG al Consiglio…). Ponetevi la domanda: avete davvero voglia di impegnarvi in un cammino così faticoso e sicuramente di estensione pluriennale? Osservandovi direi proprio di no: vi limitate a protestare o, nella migliore delle ipotesi, a rimpiangere i bei tempi che furono e vi aspettate che, solo perché ci sono degli insoddisfatti, il modello sia “obbligato” ad adeguarsi in modo tale che voi non siate più insoddisfatti… ma il modello ha ben chiari i suoi obiettivi e si dirige verso quelli.
Immagino che tu sei convinto di conoscere l’ambiente delle scuole CAI, ma di certo non conosci affatto gli istruttori. Almeno tutti quelli che ho conosciuto io, parecchi anche torinesi e circumvicini…
” 1 fornire agli allievi gli strumenti cognitivi e 2 puntare a formare negli allievi un modus operandi (rigoroso, sistematico, consapevole), ma astenersi da altro, compresi concetti quali spronare, spingere, raccontare proprie esperienze…”
In particolare i punti che enumeri sono la base ovvia di qualunque insegnamento, ma la parte che ho evidenziato è assolutamente solo nella tua testa
Il finalino poi mi pare solo frutto di tue ossessioni
“conviene stare molto abbottonati: fare attenzione anche a quello che si dice agli allievi in chiacchierate informali e amichevoli, specie se con testimoni presenti (magari davanti a una birra a fine uscita), perché non si sa cosa ci riserverà il domani nelle aule giudiziarie…”
@38 in realtà la matrice di base è proprio la stessa. La conferma arriva dalla fatto che quasi sempre le persone sono le stesse, anche in questi dibattiti. Chi è stato NO VAX o NO Greenpass, guarda caso, è NO modello rigido nella didattica CAI. C’è una ribellione di fondo contro il modello “istituzionale”, ribellione che si declina oggi su un argomento, domani su un altro, a seconda del tema del giorno.
Mi riferisco a ultima frase: affermi così perché NON fai parte del mondo didattico e probabilmente da un bel po’(ammesso che tu ne abbia mai fatto parte). Prova a entrarci o a rientrarci e vedrai di persona quanto è cambiato (non certo nella direzione auspicata dai “libertari”). Certo, si tratta di “moral suasion” (cmq piuttosto pressanti), non è che ti fustigano a schiena nuda come accadeva sui velieri di Sua Maestà britannica, ma intanto… se capita qualcosa di “anomalo” e tu istruttore non riesci a dimostrare di esser stato sempre e perfettamente all’interno del solco di quanto ufficialmente previsto… ti troverai nudo e da solo in tribunale. La jungla giudiziaria è oggi il pericolo oggettivo più subdolo e imprevedibile di chi va in montagna (vedi ultimi articoli pubblicati sul Blog) e bisogna temerla più della caduta dei seracchi quando si attraversa sotto la parete della Brenva. La scelta di base del modello istituzionale della didattica CAI è molto chiara (e cmq viene ormai perseguita all’atto pratico, interpretazione o meno dei testi): 1 fornire agli allievi gli strumenti cognitivi e 2 puntare a formare negli allievi un modus operandi (rigoroso, sistematico, consapevole), ma astenersi da altro, compresi concetti quali spronare, spingere, raccontare proprie esperienze “particolari” che possono innescare il desiderio di emulazione, anche in attività privata degli allievi. Anche a livello individuale del singolo istruttore, prudenzialmente, conviene stare molto abbottonati: fare attenzione anche a quello che si dice agli allievi in chiacchierate informali e amichevoli, specie se con testimoni presenti (magari davanti a una birra a fine uscita), perché non si sa cosa ci riserverà il domani nelle aule giudiziarie…
“Non sono in polemica personale con nessun individuo in particolare, ma con un atteggiamento di ribellione che trovo fastidiosissimo e noiosissimo (oltre che espressione di scarsa intelligenza). Segnalo che la citata concezione della scuola di montagna come “luogo” in cui si coltivano i nuovi talenti…
Quindi “polemizzo” con tutti coloro che, ancora oggi, rinviano a quella visione”
Che tu trovi fastidiosissimo e noiosissimo qualunque punto di vista che non sia il tuo è evidente, così come è evidente che quello che tu ritieni e propagandi come Modello didattico del CAI c’entri abbastanza poco con quello che c’è scritto sul Manuale didattico del CAI (e la tua confusione semantica ne è plastica dimostrazione)
Infine l’espressione di scarsa intelligenza è tutta tua se continui scagliarti, monotonamente e fastidiosamente verso i “ribelli” e i “contestatori” che concepiscono le scuola di montagna come “luogo” in cui si coltivano i nuovi talenti, ma non sei capace di trovarne nemmeno uno che effettivamente lo scriva.
Tu pensi che l’insegnamento dovrebbe essere gerarchico, formale e autoritario e sei convinto (e vorresti convincere) che il Manuale del CAI dica questo, ma non è affatto così.
——— “SONO O NON SONO INFELICE?” ———
Dibattito sull’insostenibile infelicità dell’essere, con particolare riferimento agli alpinisti.
Prossimamente su questo blog.
“[…] come tempo fa protestava per i vaccini o il greenpass, come protesta per i divieti di accesso a certi luoghi, come protesta per le norme di legge che impongono il pacchetto sicurezza (ARTVA, pala, sonda) quando ci si muove sulla neve, ecc ecc ecc.”
Carlo, quelli sono argomenti diversi da ciò di cui state discutendo. Lasciali perdere.
Infelità interiore…
mi fai proprio sorridere.
Guardati per te che è meglio.
Crovella te invece sei un ARROGANTE del resto da fascista quale sei non potresti esserea altro.
La vita è andata avanti e, con l’eccezione di una sparutissima minoranza, il modello didattico CAI “piace” molto e ha molto successo, sia in termini di raggiungimento educativo degli allievi sia in termini di gradimento e divertimento di tutti (allievi ed istruttori). Nulla osta, per chi non si trova bene, a farsi la propria scuola al di fuori del CAI. Le ASD sono la scatola giuridica ottimale a tal fine. Mi pare che quelle già operative organizzino numerosi corsi di arrampicata, con relativi “tecnici”, e si stia già facendo attività anche nel settore dello scialpinismo, con tecnici che (così riportava Giova Massari) sono ex istruttori CAI. Quella del farsi la scuola al di fuori del CAI è la strada da seguire e non continuare a stare dentro alle scuole CAI salvo frignare che non vi trovate bene nelle attuali scuole CAI e/o continuare a criticare dall’esterno le Scuole CAI. Se anziché prendere in mano la situazione e crearvi le “vostre” scuole, state a frignare, questa è un atteggiamento da bambini dell’asilo che vogliono in realtà solo fare i capricci e basta. Sono quegli individui che io chiamo i NO-TUTTO: in realtà non interessa tanto l’obiettivo di coltivare nuovi talenti dell’alpinismo, quanto quello di sfruttare pretestuosamente questo argomento solo per esprimere una incorreggibile propensione alla “ribellione istituzionale”. Tale ribellione sarà sempre insoddisfatta perché è l’espressione di una infelicità interiore che affonda ben al di là del tema didattico nel CAI. Siccome l’Istituzione (in questo caso il modello didattico del CAI) ha operato una “certa” scelta, chi le dà contro lo fa per dare contro al sistema istituzionale nel suo complesso, come tempo fa protestava per i vaccini o il greenpass, come protesta per i divieti di accesso a certi luoghi, come protesta per le norme di legge che impongono il pacchetto sicurezza (ARTVA, pala, sonda) quando ci si muove sulla neve, ecc ecc ecc.
Fa troppo caldo, non ho più voglia di scrivere per la milionesima volta le stesse cose che ho già spiegato e che hanno capito perfino i muri.
Non sono in polemica personale con nessun individuo in particolare, ma con un atteggiamento di ribellione che trovo fastidiosissimo e noiosissimo (oltre che espressione di scarsa intelligenza). Segnalo che la citata concezione della scuola di montagna come “luogo” in cui si coltivano i nuovi talenti dell’alpinismo/arrampicata è (nell’universo CAI, beninteso) completamente superata sul piano normativo dalla riforma del 1998 e inoltre, storicamente, si inserisce nella visione che dominava (a esser precisi, solo in poche blasonate scuole di alpinismo) negli anni ’50-60. Quindi “polemizzo” con tutti coloro che, ancora oggi, rinviano a quella visione, che sia il personaggio di questo articolo (individuo che NON conosco a titolo personale), nell’accenno che egli fa durante l’intervista e che viene ripreso da altri commentatori (vedi n.1), oppure che siano i noti e sempre uguali commentatori per le reiterate loro prese di posizioni su idee che, all’interno del modello didattico del CAI, appartengono, storicamente, al Novecento (60 anni fa circa) e, normativamente, sono state completamente superate dalla riforma del 1998 (25 anni fa!).
Siccome pare proprio che tu non riesca a capire, cerco di fare una parafrasi della mia domanda, che era:
Da quale intervento deduci che qualcuno abbia “la concezione delle scuole come contesto per creare nuovi alpinisti di livello”?
Con chi ce l’hai?
Quanto a oliare le meningi direi che i cigolii delle tue si sentono da qui…
@30 L’ho già scritto milioni di volte! Cercate di oliare le vs meningi, sennò diventa complicato farvi capire le cose! In parole semplici: la concezione delle scuole come contesto per creare nuovi alpinisti di livello è una concezione molto datata. Nella migliore delle ipotesi risale al contesto pre riforma del 1998 (=almeno 25 anni fa!), ma storicamente è roba perfino più vecchia, direi una visione da anni ’50-60.
Più in generale, prima di discettare su argomenti di cui non conoscete a fondo i numerosi risvolti, non fosse altro perché non fate parte dello specifico ambiente didattico, vi suggerisco di acculturarvi in merito. Non è che la riforma 1998 è venuta fuori dal nulla, per il ghiribizzo di alcuni “picchiatelli” che si sono alzati una mattina col piede sbagliato, ma ha uno specifico retroterra giuridico e ideologico, che ha portato a determinate delibere, assunte nel pieno rispetto delle norme regolamentari (CAI) e delle leggi vigenti. Chi non conosce bene il contesto che ha generato la riforma del 1998, rischia solo di parlare di aria fritta.
Crovella il forgiatore!
Bracardi c’avrebbe fatto uno dei suoi personaggi.
“Non si capisce come mai continuiate a ragionare come se foste in pieno Novecento”
Ma di cosa stai parlando, esattamente?
E con chi?
E dai col pero!!
Mio nonno, nel suo campo dietro casa, aveva un pero piuttosto alto. Ci costruii sopra una capanna. Con tanto di scala a corda per accedervi che poi ritiravo una volta dentro e chiusa la botola del pavimento. Mi ci divertivo un casino
@26 Ma… la finalità didattica rimane la spina dorsale dell’attività delle scuole. Solo che la finalità didattica è profondamente cambiata da 25 anni in qua. Non si capisce come mai continuiate a ragionare come se foste in pieno Novecento. Cascate dal pero: ma nessuno vi ha mai “aggiornato” su queste tematiche? Dal direttore della vs. scuola, ai componenti della commissione e/o della scuola interregionale dell’OTTO di competenza, ai cui aggiornamenti è obbligatorio andare, in genere ogni 3 anni, c’è un po’ di disponibilità e flessibilità, ma in 25 anni, a nessun aggiornamento della scuola interregionale siete MAI andati????? In quelle occasioni si “pesta” a fondo su questo tema, proprio per far sì che non ci siano equivoci su chi poi opera a contatto con gli allievi.
Continuate a ragionare fuori dal solco della realtà. Questo non è il modello che ho forgiato io. E’ la conseguenza di una scelta strategica presa dalle autorità didattiche del CAI nel lontano 1998 (creazione della CNSASA) e da allora irrobustite anno dopo anno. Il modello è così: se non piace, basta non farne parte. Se si accetta un qualche coinvolgimento, si mandano giù i risvolti che non piacciono. Nel frattempo c’è un discorso parallelo che si interseca al primo, che è quello dell’orientamento giurisprudenziale che si è consolidato, nelle sentenze, sia in incidenti di attività ufficiale sia soprattutto in incidenti di attività privata (più numerosi, statisticamente, dei primi) e la preparazione degli allievi deve tener conto di questo importantissimo aspetto. Agli allievi si dice, per obbligo regolamentare, alla prima serata che la montagna non è “a rischio zero”. Quindi non c’è un equivoco sulla finalità didattica, è chiara a tutti, istruttori e allievi. Cioè si insegna un metodo di approccio alla montagna (rigoroso, sistematico, di gran buon senso…) che punta alla minimizzazione del rischio, non all’azzeramento del rischio. Precisato questo, guardandosi intorno ( guardando nelle varie scuole), la sensazione è che agli allievi piaccia imparare detto metodi in questa modalità. lo dimostra la costante domanda di iscrizioni e anzi in aumento, anno dopo anno. Quelli a cui non piace questa impostazione (siano essi istruttori oppure allievi), se ne allontanano e in automatico cercano altre strade: oggi c’è un’offerta che è molto più ampia del passato (ASD, GA, ski club, associazioni non CAI, gruppi informali di amici, fratelli, vicini di casa, ecc, forse agiscono già, in tale senso, i gruppi whatsapp o instagram o Fb…).
Le scuole CAI non sono un’agenzia turistica.
Chi da questa garanzia da una falsa informazione, quindi anche molto pericolosa. Perchè la sicurezza non può essere garantita. Anche se ti vengono insegnate in modo perfetto le manovre ed esci dal corso che sai il manuale a memori. Un conto è il manuale , un conto è il terreno.
Quello che “richiedono” gli allievi conta fino ad un certo punto. E’ quello che gli dai che dovrebbe fare la differenza.
Non so se Crovella abbia ragione o meno, però il ritratto che fa dell’allievo medio e di quello che vuole è perfettamente equivalente al modello “berlusconiano” del telespettatore: disimpegno, tette e calcio.
B. ci ha costruito la sua fortuna e ci ha ammorbato l’aria per più di trent’anni
Interessante notare come l’aedo e il vate della montagna severa, scabra e maestra di vita lo ritenga un modello valido e anzi l’unico ad aver diritto di cittadinanza nelle scuole CAI.
Non posso affermare di girare TUTTE le scuole del CAI, mi limito a dire che metto il naso qua e là in area nordoccidentale. Ma almeno verifico cosa accade anche al di fuori della scuola di appartenenza. Lo spaccato che ne traggo è che domanda (=richieste degli allievi) e offerta (=cosa piace fare alla maggioranza deli istruttori) non sono più quelle di 50 anni fa. La richiesta di un insegnamento composto da esperienze immateriali (per diventare alpinisti “impegnati”) è ridotta al lumicino. Non dico che NON esista del tutto, ma ci siamo quasi: gli allievi che “chiedono” cose del genere sono una sparuta minoranza del totale generale (tra l’altro per lo più limitata ai corsi di arrampicata all’interno di “certe” scuole di alpinismo: nel resto delle scuole CAI questa componente è pressoché assente). Ormai la stragrande maggioranza degli allievi richiede solo una solida impostazione “di base”, finalizzata a consentire loro di effettuare attività personale in sicurezza. Dell’esser spronati a “crescere”, a “salire”, a “esplorare nuovi terreni”, a “evolversi” non interessa quasi a nessuno. Viceversa la gente che si iscrive alle scuole CAI cerca elementi collaterali, che considera “importanti” a cui non vuole rinunciare, quali la socialità, il fare gruppo, il divertirsi insieme nelle uscite didattiche, conoscere altre persone, gente con cui andare al cinema o in vacanza al mare, magari incontrare l’anima gemella (o almeno il compagno/gna per un po’ di strada comune). Tutte cose che non si conciliano, all’atto pratico, con un’impostazione didattica impostata a esser l’alveo dove si fa della “grande montagna” o si coltivano talenti in tal senso.
Sono cambiati i tempi, gli allievi e la giurisprudenza; il metodo e la struttura hanno dovuto adeguarsi. Sono cambiati i numeri e così l’organizzazione. Lo spirito e la dedizione è sempre la stessa; gli istruttori tentano di trasmettere la passione dando il meglio che hanno. Passione e corretta tecnica di base. Nel tempo di un corso non è possibile fare altro. Nelle parole scritte da Marcello tempo fa su i “suoi” istruttori riconosco quelle di molti allievi che poi non sono diventati alpinisti eccezionali come lui. Nelle parole di Benassi riconosco quelle dei “miei” istruttori quando ho frequentato il corso d’alpinismo e che ora cerco e vedo in chi viene a fare gli esami per diventare istruttore; per diventarlo non è sufficiente essere buoni alpinisti e conoscere le direttive che contribuiscono a diminuire i rischi personali. Occorre avere “quella” passione affinchè poi gli allievi la percepiscano; ciò rende difficile il ricambio e richiederebbe una seria analisi volta a non disperdere un capitale così prezioso.
Per avere una visione d’insieme, sarebbe meglio leggere il testo nella sua completezza. Alcune affermazioni sintetiche (tipo “motivare gli allievi”) vengono chiaramente piegate alle esigenze di parte, ma non hanno il senso cui fate riferimento voi. Non si parla mai di gradi da superare in roccia o di dislivelli da fare in salite. Son tutte cose che ciascun allievo troverà da sé, in funzione dei suoi talenti: non è obiettivo strutturale quello di “spingere” né “spronare”. Viceversa vi sono plurime indicazioni di svariate nozioni collaterali sulle quali qualsiasi istruttore CAI è chiamato ad essere ben informato, sia per se stesso che per dare precise indicazioni agli allievi. Cito a puro titolo di esempio:
“L’istruttore deve quindi conoscere i termini della polizza RC per istruttori-accompagnatori-allievi e per le gite, convegni, commissioni stipulata dal CAI”
Rispetto alla visione degli anni ’50-60 (peraltro limitata alle scuole di alpinismo, perché nel settore dello scialpinismo la situazione era già diversa allora), la figura dell’istruttore CAI è cambiata radicalmente.
Crovella/Fantozzi, che disastro che sei.
Per favore, non sprecare tempo a ridirmi che siamo di due mondi diversi, ecc., ecc.
Vero che non volevi scrivermelo!? Ecco, bravo.
Ma com’è che non trovo da nessuna parte AA. VV., Il Modello Didattico del Club Alpino Italiano, CONI-Scuola dello Sport, Roma 1999?
Trovo invece AA. VV., Il Manuale Didattico del Club Alpino Italiano, CONI-Scuola dello Sport, Roma 1999,
da cui, siccome non ho nulla da fare, traggo altre citazioni che devono essere sfuggite al Sabaudo Censore, benché le frasi da lui citate poste a seguito di queste (e probabilmente significhino tutt’altro da quanto Egli intende NdA):
“uno degli aspetti che appare più importante per impersonare con pieno successo il ruolo di istruttore consiste indubbiamente nella capacità di sapere motivare al massimo gli allievi…favorire un passaggio di conoscenze e un trasferimento efficace di abilità (quindi di movimenti, operazioni, scelte).
Gli allievi devono percepire chiarezza che i loro istruttori vogliono prima di tutto rendere loro un servizio, dare una chiara risposta ai loro bisogni…
Lo stile comunicativo adottato e la capacità di gestire la comunicazione costituiscono quindi un elemento essenziale…
IL PROFILO DELL’ISTRUTTORE EFFICACE
– Un esperto delle discipline di montagna
-Un conoscitore della tecnica o della materia insegnata
-Un esperto dei processi di gestione della comunicazione
-Un esperto della gestione dei gruppi
-Un esperto del sostegno della motivazione
-Un esperto della valutazione dell’efficacia dell’azione didattica
Sempre dallo stesso testo (ricordo: pubblicato nel 1999) è scritto testualmente:
“L’Istruttore CAI deve accettare gli scopi istituzionali dell’Associazione e, in particolare, deve attuare le linee programmatiche dell’Organo Tecnico (cioè la CNSASA e, a cascata, tutta l’area didattica del CAI, NdA) in cui opera e seguire gli obiettivi e i contenuti dei corsi per quanto riguarda la disciplina di sua competenza (cioè alpinismo, scialpinismo arrampicata ecc, NdR).”
Il messaggio è molto chiaro, ma traduciamolo in linguaggio esplicito: “Non è obbligatorio fare l’istruttore CAI: se uno ambisce a tale funzione, deve poi accettare le regole stabilite dal modello. Se invece uno non condivide l’orientamento generale, rifletta sull’opportunità di continuare a rimanere dentro al modello didattico CAI”.
Questa impostazione di base è la grande differenza fra l’impostazione “volemose bene” ante 1998 e quella post 1998. Nel quadro ante 1998 c’era, eventualmente, dello spazio per interpretazioni e orientamenti anche diversi fra loro e caratterizzati da una certa soggettività di pensiero. Invece dal 1998 il modello è ben chiaro e non lascia spazio a interpretazioni individuali.
Quello che è sorprendente non è che ci siano opinioni dissenzienti, ma che i dissenzienti “pretendano” di continuare a far parte dell’ambiente didattico del CAI, come se nulla fosse, pur reclamando una perdurante libertà soggettiva, cosa che è ormai incompatibile con le linee strategiche del modello stesso.
Cosí parlò Krovellustra.
https://www.youtube.com/watch?v=Szdziw4tI9o&pp=ygUYY29zw6wgcGFybMOyIHphcmF0aHVzdHJh
Crovella, gli alieni sono tra noi. Non te n’eri accorto?
Con riferimento all’estratto precedente
NOTA 1: il neretto è conseguenza di miei interventi per sottolineare la particolare importanza dei passaggi
NOTA 2: non si parla MAI di “spronare” gli allievi, anzi!, ma di diffondere un approccio che massimizzi la sicurezza individuale nell’attività autonoma, pur consci che andar in montagna è attività che non ha il “rischio zero”. Questa è l’impostazione strategica e primaria del Modello didattico del CAI ufficializzata a tutti post. Di conseguenza l’’allievo “tipo” non è l’individuo talentuoso da coltivare né ci si propone di forgiarne di nuovi, bensì l’alpinista medio che si muove su difficoltà medie, ma con sistematiche procedure di sicurezza (1 mentalità, 2 progettazione, 3 prevenzione, 4 autosoccorso in caso di malaugurati incidente).
NOTA 3: gli istruttori sono utili al perseguimento dell’obiettivo strutturale del modello CAI solo se collaborano in tale direzione e non se divagano e introducono personalizzazioni che, nella migliore delle ipotesi, creano disomogeneità del messaggio didattico (fra istruttore e istruttore o addirittura fra scuola e scuola). L’allievo deve ricevere lo stesso messaggio didattico dal Brennero a Siracusa. Idem se l’allievo si iscrive a una scuola CAI di alpinismo o di scialpinismo o di altra disciplina: l’impostazione ideologica e l’obiettivo sono gli stessi.
NOTA 4: tutto questo dal 1998, non da ieri! Ma dove avete vissuto in questi ultimi 25 anni? Sembrate atterrati da Marte cinque secondi fa…
“Le Scuole del CAI non hanno come obiettivo primario la prestazione di altissimo livello da parte dell’allievo: si privilegia invece una preparazione che consenta ai partecipanti ai corsi di muoversi in un ambiente di media difficoltà in sicurezza, conoscendone le caratteristiche…
… L’obiettivo primario degli istruttori del CAI è quello di insegnare la sicurezza; si cerca in primo luogo di diminuire il numero degli incidenti in montagna attraverso l’insegnamento finalizzato, rendendo i partecipanti ai corsi e alle gite consapevoli dei pericoli che affrontano…
… Questo concetto è alla base di tutte le proposte e le attività del CAI ed è profondamente condiviso dai volontari che, sempre più numerosi, compiono un lavoro realmente utile nei confronti di chi utilizza i servizi del CAI…
… Per gli istruttori, partecipare a una scuola, aderire all’attività (come sopra definita, NdR), condividere gli obiettivi e realizzare i programmi (come sopra definiti, NdR), costituisce un’esperienza formativa di grande valore umano che consente di vivere momenti molto intensi, anche grazie all’ambiente in cui tale esperienza avviane.”
(Fonte: AA. VV., Il Modello Didattico del Club Alpino Italiano, CONI-Scuola dello Sport, Roma 1999)
al di là delle polemiche…grande Calice
Crovella, visto che sono un ragazzo di campagna, spesso e volentieri sono salito su piante per gustarmi ciliege, susine , fichi, e peri ma non sono mai cascato.
Quindi so benissimo cosa è stato fatto e deciso in questi anni. Ma questo non vuol dire che si è sempre comunque d’accordo su tutto. Esprimere, manifestare la propria opinione , il proprio disaccordo contro le decisioni della maggioranza, è il fondamento della democrazia. Che ti piaccia o no!
Non mi è chiaro di che brutture accusi “questi qui”
La riforma che ha generato il Modello didattico del CAI oggi in essere è datata 1998 (costituzione della CNSASA). A ruota è stata fatta una campagna di informazione capillare e battente (sia a livello di scuole che di singoli istruttori), proprio per chiarire i punti salienti (che, invece, risultano ancora “confusi” nella testa di alcuni di voi). Tale campagna si è basata anche sulla produzione di importanti testi sul tema. Per curiosità sono andato a controllare la prima edizione del Manuale, intitolato “Il Modello didattico del CAI”: è del 1999! Sono quindi 25 anni che il mondo didattico del CAI ha imboccato la strada in essere. Tutti questi concetti. fondati o meno, dovrebbero essere ormai di pubblico dominio, specie fra gli istruttori in attività. Per cui io sono stupito che alcuni istruttori continuino a “cascare dal pero” come se le suddette decisioni fossero di 25 giorni fa e non di 25 ANNI fa. Tutti questi discorsi vi andavano fatti da chi di dovere in tutti questi anni. Io sono sicuro che tali discorsi vi sono stati fatti, ma “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”…Inoltre in questi 25 anni è stato necessario adeguare i regolamenti delle Scuole per recepire i punti cardine dell’impostazione generale. In linea teorica tutte le Scuole dovrebbero avere lo stesso uguale regolamento, quello “base” stilato centralmente post 1998. Ma almeno le scuole dovevano recepire nel loro regolamento i punti chiave, come da specifico e ufficiale invito delle autorità. Le modifiche dei regolamenti hanno una loro ufficialità, non si fanno mica la bar leggendo la Gazzetta dello Sport: devono essere deliberate nel corso di assemblee di istruttori riunite in sede straordinaria. A memoria ricordo almeno due variazioni di regolamento delle scuole post 1998: una nei primi anni 2000 (“coda” della riforma del 1998) e una circa dieci-dodici anni dopo, quindi all’incirca nel 2012-2015. Sono allibito che siate andati a votare modifiche regolamentari senza neppure “capire” che cosa stavate votando. I “contrari” si sarebbe accorti in quelle occasioni che il quadro generale stava cambiando, e anche profondamente. Cim’è possibile che ne siate ancora ignari? Sono sicuro che, al tempo, è stata fatta adeguata campagna informativa, per cui non comprendo come possiate, ancora adesso, esprimere visioni che appartengono alla preistoria della didattica del CAI. La sensazione di fondo è che hanno provato a farvi “capire le cose”, ma di fronte alla testa dura, avranno detto “lasciamo perdere, tanto da ‘sti qui non ci si cava niente, prima o poi termineranno la loro funzione didattica e la cosa si risolverà da sola”. in effetti condivido la scelta: l’importante è lavorare sui “nuovi” istruttori, non su quelli “vecchi”…
Prima di tutto ci vuole RISPETTO per chi per tanti anni, ha lavorato per questa istituzione, impegnandosi sacrificando il proprio tempo, la propria attività, la propria attrezzatura, rischiando di suo, prendendosi serie responsabilità morali e legali. Il tutto a GRATIS. Certo nessuno è stato obbligato, ma non per questo non si ha DIRITTO al rispetto e alla riconoscenza.
Quindi prima di scrivere certe frasi datti una regolata!!
E quale sarebbe questo modo corretto di impostarli?
Tutti muti e rassegnati ??!!?!?
L’esperienza non si compra, ma metterla a disposizione di chi non ce l’ha può essere un ottimo sistema per infondere stimoli, esempi e stili diversi, da seguire o da non seguire. perché non c’è un modo unico ed omologato per andare in montagna, arrampicare e fare alpinismo. Questo è un concetto importante che dovrebbero capire gli allievi. Che non c’è un modo unico e l’omologazione NON dovrebbe far parte dell’andare in montagna. Quindi che gli istruttori, anziani o meno, raccontino le proprie esperienze, diverse da istruttore a istruttore, è molto importante.
Crovella a me il minestrone mi piace un fottio!
Bella domanda Matteo, ma il congiutivo non è il mio forte. Ho scritto radi tirando a indovinare, ma avsvo il dubbio di avere scritto uno sfondone.
Altro equivoco che dimostra quale minestrone avete in testa. L’area didattica del CAI NON è il CAI, altrimenti tutti i soci sarebbero in automatico istruttori. L’area didattica fa capo alla CNSASA, che stabilisce le regole e i protocolli e controlla a cascata (attraverso gli OTTO e poi i Direttori di scuola) l’attività fino alla scuola più piccola e sperduta. Aderire alla missione di istruttore è quindi qualcosa in più della semplice associazione al sodalizio. L’equivoco può persistere (anche se erratamente) solo pin chi ha iniziato a esercitare il ruolo da istruttore prima del varo dell’attuale modello didattico del CAI (1998), anche se va segnalato che da allora sono trascorsi 25 anni e tempo per “capire” le cose c’è stato, eccome.
Evidentemente, come ho già detto milioni di volte, da parte delle autorità centrali della didattica si preferisce, saggiamente, evitare situazioni antipatiche e polemiche: basta aspettare e gli istruttori “vecchia maniera” inevitabilmente lasceranno il campo. L’importante è impostare correttamente gli istruttori “nuovi”, non polemizzare con quelli “vecchi”.
Significativa invece un’altra considerazione. Nell’articolo viene riportato che alcuni allievi avrebbero “richiesto” la trasmissione di esperienze personali degli istruttori, dicendo invece che le lezioni teoriche (credo assunte come esempio sintetico dell’impostazione burocratica delle scuole CAI) sono “noiose”. Ebbene questa tipologia di allievi ha sbagliato fornitore. Se cercano un tipo di “insegnamento” di quel genere, non devono rivolgersi alle scuole CAI. A chi dice che tale errore (quello degli allievi) deriva dal fatto che esistono quasi esclusivamente le scuole CAI, è facile rispondere. Non è colpa del CAI (il quale non può caricarsi anche del compito di organizzare le scuole NON-CAI), ma è colpa di chi auspica scuole alternative e poi non le organizza. Continuate a stare attaccati con i denti e con le unghie alle scuole CAI, salvo continuare a dire che non vi piacciono… Casca a fagiolo la recente legge che permette la costituzione delle ASD. Bastano 3 soci e un capitale sociale di 10.000 euro e, con una ASD, si può fare attività, anche didattica, del tutto fuori dal CAI. (discorso totalmente diverso è quello del “farsi pagare”, lì si entra in conflitto con le GA, ma se i tecnici delle ASD non si fanno pagare, come peraltro non si fanno pagare gli istruttori CAI, non c’è nessun problema). Non è quindi il CAI che deve fare selezione all’interno del proprio elenco istruttori, dicendo “tu sì” o “tu no”, ma sono gli istruttori, con mentalità “alternativa” a quella del CAI, che devono sapersi staccare dalle scuole CAI e fare la “loro” didattica in modo autonomo.
Alberto, tu non vedi perché, semplicemente perché per te “credere, obbedire e combattere” è qualcosa di definitivamente cassato dalla storia e passato negli archivi delle molte imbecillità umane.
Non per tutti è così.
Domanda: ma il congiuntivo di radiare con una o due i?
Anche nei partiti ci sono diverse correnti di pensiero. Quindi non vedo perché nel cai, non ci dovrebbero essere! Se al cai non gli sta bene che ci radi tutti.
E ridaje! proprio non vi resta nulla in zucca. Il modello didattico del CAI propone il “suo” modo di affrontare la montagna e la relativa didattica. Non è l’unico modo di andare in montagna, è il “modo CAI”. Siete liberissimi di affrontare la montagna in modo differente e anche di insegnare cose diverse. Quello che non è possibile (non per volontà “mia” personale, ma per scelta ideologica del CAI) è “pretendere di stare DENTRO alle scuole del CAI e contemporaneamente pretendere di esser liberi di agire e insegnare in modo diverso rispetto al modello del CAI“. Non vi piace la visione del CAI? Nessun problema: apritevi una “vostra” scuola e insegnate pure quello che vi piace di più, il mondo è grande e c’è spazio per tutti. Ma se state “dentro” al modello CAI, è perché vi riconoscete nelle stesse scelte ideologiche. Se non vi riconoscete in tale scelte, statevene fuori, tanto di guadagnato per tutti.
La finalità delle scuole CAI è produrre alpinisti “medi” che vanno in montagna con metodo e in sicurezza. Le scelte individuali, come nel caso del personaggio dell’articolo, sono legittime, rispettabili e, se le si condivide, anche da ammirare, ma NON fanno parte delle finalità istituzionali del modello didattico del CAI. Inutile e sciocco confrontare le due cose. Sono due mondi che non hanno nulla a che fare l’un con l’altro.
Grande personaggio!
Solo una nota stonata, per me, le domande sono poste in maniera insopportabile. Sembra che l’intervistatore voglia che l’intervistato risponda come vuole il primo.
Per fortuna l’intervistato ha carattere.
Poi ci sarebbe da discutere sulle fisime crovelliane sui corsi codificati e protocollati del Cai, in relazione a quello che uno come Zaleri sostiene giustamente, perché sul campo davvero.