Storia del chiodo da roccia – 2


Storia del chiodo da roccia – 2 (2-5)
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com il 28 luglio 2021)

(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-del-chiodo-da-roccia-1/)

Il contesto dei primi chiodi
Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, l’arrampicata tecnica iniziò a deviare dalle altre forme di alpinismo alpino che andavano per la maggiore (oggi si dice mainstream) all’inizio del 1900. L’Alpenverein austro-tedesco (le due associazioni si erano fuse nel 1873) ebbe un exploit nel numero dei soci, da meno di 5000 aderenti nel 1874 a oltre 100.000 negli anni ’10 (ZDÖAV, 1919) del secolo XX. Anche il Club Alpin Français, lo Schweizer Alpen Club e il Club Alpino Italiano ebbero un boom nello stesso periodo. Comodi rifugi con 50 o più posti letto furono costruite in belle radure in quota (ma anche sui rilievi rocciosi) dove un tempo c’erano solo piccole capanne di pastori.

Ernst Platz, olio su tela intorno al 1880.

Nuove ferrovie consentivano facili viaggi paneuropei e gallerie scavate attraverso le Alpi come il Tunnel del Frejus (completato nel 1871) consentivano facile passaggio tra catene montuose dove per la generazione precedente era sempre stata una piccola impresa. Programmando un viaggio dalle pianure non avrebbe avuto più senso ricordare le leggende sull’attraversamento delle Alpi da parte di Annibale: i draghi della montagna erano stati domati sia in superficie che sottoterra.

A sinistra: il rendering di un artista mostra il lungo e pericoloso percorso di Annibale attraverso le Alpi. A destra: Tunnel del Frejus. Clicca per ingrandire.

Forse il metodo alpino è meglio esemplificato da ciò che successe sulla Zugspitze 2692 m nella catena del Wetterstein, nelle Alpi Orientali. La prima salita del 1820 fu una celebre impresa dell’alpinismo, le successive ascensioni furono relativamente poche fino a che non vi fu costruita una “via ferrata” nel 1875. Una placca di 15 m fu attrezzata con una scala in ferro (la guida del 1911 la chiama “scala del pollo”) e una serie di ferri collegati da un mancorrente proteggeva una traversata scivolosa. Nel 1897 sulla sua sommità fu costruito un grande rifugio, il Münchner Haus. L’accessibilità della montagna più alta della Germania fu causa di estrema polemica nell’ambito dei club alpini mentre migliaia di turisti “d’alta quota” (“Hochtouristen”) sciamavano sulla vetta: mentre i “veri” alpinisti lamentavano di come la Regina delle Alpi Bavaresi avesse “perduto la sua aura di orrore”.

Questo genere di percorsi oggi si differenziano dalle vie di arrampicata con il nome di “via ferrata” (italiano) e Klettersteig (tedesco). Si veda anche Ludwig Purtscheller, Sulla storia dello sviluppo dell’alpinismo e della tecnologia alpina nelle Alpi tedesche e austriache (1894, ZDOAV). Degno di nota è il resoconto di Edward Lisle Strutt sulle sue avventure nelle Alpi Orientali negli anni ’90 dell’Ottocento, riferendosi al percorso: “Anche ora che parecchie pareti sono state attrezzate oltre ogni ragione, la salita dalla Höllental figura ancora come una buona spedizione (The Alpine Journal, 1942)”. Anche percorsi simili su molte iconiche vette alpine come il Triglav furono costruiti in quell’epoca. La prima funivia (alla vetta della Zugspitze) fu costruita nel 1926, con la tecnologia mutuata dall’industria mineraria.

Percorso dalla Höllental alla Zugspitze. Dipinto di Ernst Platz (intorno al 1900) e prima fotografia (cartolina) della scala di metallo sulla placca di 15 m.

Assicurazione e mezzi artificiali
L’installazione di fittoni metallici e cavi metallici per proteggere le aree esposte e fornire gradini e appigli in parete è stata definita “fissaggio delle assicurazioni” (Anbringung von Versicherungen). Künstliche Hilfsmittel (mezzo artificiale) invece appare per la prima volta nelle riviste alpinistiche tedesco-austriache del 1880: includevano scale di legno, corde lanciate in aggancio su spuntoni e persino razzetti sparati sulle cime, oltre ai fittoni di ferro e ai cavi installati sui sentieri alpinistici. Il fallimento in un’ascensione veniva spesso giustificato suggerendo che la via fosse “assolutamente inaccessibile senza l’uso di mezzi artificiali (1891)”. Il dibattito su cosa costituisse un mezzo artificiale in montagna è iniziato allorché si sono sviluppati sistemi di “assicurazione” più “leggeri” tramite l’invenzione tecnologica ed è continuato nei decenni successivi.

Le discussioni su cosa costituisse “mezzo artificiale” raggiunsero un crescendo con i famosi dibattiti sui chiodi tra Pail Preuss, Tita Piaz, Franz Nieberl, Paul Jacobi e Hans Dülfer nelle Mitteilungen des Deutschen und Österreichischen Alpenvereins del 1911/1912. Più tardi, negli anni ’20, anche maschere e ossigeno in bombole per l’alta montagna sono incluse nel dibattito senza fine sui mezzi artificiali.

A sinistra: punto d’appoggio su piccozza (non considerato artificiale), Ernst Platz (1908). A destra: scale di legno (considerate mezzo artificiale), Otto Barth (1908).
L’assistenza dei compagni non era considerata un aiuto artificiale, anche se la corda presumibilmente utilizzata veniva utilizzata per tirare su il secondo sul passaggio chiave (Carlo Moos).

Cambio di atteggiamento nei confronti del chiodo da roccia
A partire dal 1885, il termine “Mauerhaken” (chiodo da roccia) compare in una rivista alpinistica austro-tedesca prima come ancoraggio per la corda doppia, poi come ancoraggio di per se stesso e infine come mezzo di salita su molte vie. Nel 1894, Purtscheller riferisce della prima traversata della Meije con i fratelli Zsigmondy: “Uno dei punti più terribili per la discesa in corda doppia si trova sulla cresta Zsigmondy tra il Pic Central e il Grand Pic de la Meije, la sua altezza si pensa sia di circa 30 m. La base di questa parete rocciosa, perché strapiombante, è nascosta alla vista. (Noi) abbiamo superato questo punto piantando un chiodo in una fessura nella lastra rocciosa, poi rafforzato incastrandovi attorno delle pietre, e attaccandovi un anello di corda. Tali trucchi con la corda sono sempre un po’ audaci; possono essere giustificati solo nei casi in cui non ci siano altri mezzi di risoluzione dei problemi”.

Ma alla fine del 1800, tre chiodi erano considerati equipaggiamento standard per molti alpinisti tedeschi e austriaci, mentre le descrizioni dei passaggi chiave spesso indicavano la presenza di chiodi fissi. All’inizio del 1900, gli alpinisti delle Alpi Orientali iniziarono ad ammettere apertamente l’uso dei chiodi da roccia nelle scalate. Durante la salita del Watzmann (la 3a vetta più alta della Germania), Wilhelm von Frerichs ammette di aver piantato un chiodo per superare uno strapiombo: “così la roccia è diventata scalabile, la terribile parete giaceva sotto di noi”, ma poi aggiunge, “forse questa confessione mi costa la mia reputazione alpinistica”.

Il Watzmann di Caspar David Friedrich

Nel 1903, Fritz Eckardt di Dresda filosofò in una collana sul “lato sportivo dell’alpinismo”, confrontando l’arrampicata con altre attività atletiche e indagando su quanti sport dipendono dagli strumenti tanto quanto dalle capacità dello sportivo (si occupa anche con molta preveggenza della possibilità che si giungesse anche a eventuali competizioni future). Eckardt distingue su come mezzi tipo funi metalliche, chiodi, fittoni e corrimano siano definiti unfair means (mezzi non etici, in inglese presumibilmente come riferimento all’etica britannica), ma include anche piccozza, corda, ramponi e racchette da neve come strumenti che rientrano a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi dell’alpinista. Nella lotta per l’ascensione, Eckhardt sottolinea come solo la natura dovrebbe dettare le attrezzature necessarie, in barba alle “invenzioni dello spirito umano”.

Precursore di MauerhakenStreit (1903). Clicca per ingrandire.
Contrappunto del 1902
Anche il Triglav, la vetta più alta della Slovenia e simbolo nazionale, ebbe una prima “via ferrata” per rendere la vetta accessibile a una più ampia gamma di turisti d’alta quota.

(continua su https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-del-chiodo-da-roccia-3/)

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Storia del chiodo da roccia – 2 ultima modifica: 2022-06-21T05:25:00+02:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Storia del chiodo da roccia – 2”

  1. C era una volta il chiodo da roccia. 
    Ad anello a freccia oppure a lama sottile…
    Hai resistito a sassi, martelli e slavine.
    Il progresso a toglierti di mezzo  ha provato.
    Ma tu  resisti e tante vite ancora hai salvato. 
    C era una volta e ancora c è chi sempre si ricorda di te.
    A.M.
     

  2. In dialetto si usa dire “piantare una chioda”per definire un corteggiamento martellante, insistente,  non ancora giunto a buon fine, può sempre darsi che la chioda schizzi via o non trovi accoglienza risonante la scala delle note ,fino all’occhiello.
    Ieri visti climbers agili in palestra-falesia  di dolomite, con chiodi ( versione ancoraggi resinati luccicanti inox distanziati di 1 metro  o poco piu’…tranne il primo).L’ultimo ancoraggio di ogni via non era raggiungibile dall’alto.Il primo abbastanza alto ma…poi ho scoperto sul web che esiste l’aggeggio ad asta allungabile con moschettone in cima aperto , inseribile  nell’occhiellone e con corda gia’inserita nel secondo
    Una vita umana (e pure l’incolumità a-trumatica&a-nalgesica )non vale tutti i chiodi prodotti  dal mondo industriale, ma chi fa senza sarà sempre il più bravo..
    Un dubbio sorto vedendo climbers in falesia naturale:arrampicare scalzi senza scarpette ma in estrema sicurezza  di  assicurazione fitta , e’bravura alpinistica o prestazione atletica ??? Comunque chi assiste si chiede sempre “allora potrei riuscirci anch’io??” ma trova immancabilmente qualcuno che gli indica la panza, l’anagrafe..la distesa di  bottiglie appena scolate…il salame rimasto un moncone.

  3. Ernst Platz donò  immagini ,disegni e suggestioni veramente da collezione.

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