Su stimolo del giornalista Vittorio Varale, durante il biennio 1930-31 Domenico Rudatis pubblicò nella rivista Lo Sport Fascista una fondamentale Storia dell’arrampicamento in nove puntate (nn. 3, 4, 5, 7, 8 e 12 del 1930 e nn. 2, 6, e 9 del 1931). Scritta da uno degli autori di letteratura di montagna più brillanti e affascinanti del Novecento, l’opera costituì il primo tentativo italiano di storia dell’alpinismo, per quanto limitato alle sole Alpi Orientali.
Qui le puntate finora uscite:
https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-dellarrampicamento-00/
https://gognablog.sherpa-gate.com/storia-dellarrampicamento-01/
Uno degli aspetti più importanti e affascinanti della Storia dell’arrampicamento (anche se oggi la cosa può facilmente sfuggire) è l’eccezionale qualità grafica dell’opera: taglio dell’impaginazione, scelta delle fotografie e disegni originali dell’autore. A questo riguardo è giusto ricordare alcune circostanze. Anzitutto la veste tipografica de Lo Sport Fascista: grande formato, illustrazioni di qualità. Insomma, una rivista abbastanza di lusso, per l’epoca. In secondo luogo il buon gusto e la cura certosina di Rudatis, fotografo, disegnatore, illustratore e arredatore di vaglia, che fu attentissimo a curare assieme a Vittorio Varale tutti gli aspetti non solo informativi e teorici ma anche formali della serie.
La prima puntata apparve nel marzo 1930 e costituì la prima collaborazione in assoluto di Rudatis con Lo Sport Fascista. In quella sede vennero definiti i principi fondamentali che guidano il giudizio sulla tecnica e sui valori morali e culturali dell’arrampicata. Pubblichiamo qui il secondo dei nove articoli (Nota a cura di Luigi Piccioni).
Lettura: spessore-weight(4), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(2)
Dall’alpinismo tradizionale all’affermazione sportiva (Storia dell’arrampicamento – 02) (02-09)
di Domenico Rudatis (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna)
(pubblicato su Lo Sport Fascista, aprile 1930)
Stabiliti nel primo articolo i principi sull’essenza tipicamente eroica, quindi sportiva, dell’arrampicamento su roccia, Domenico Rudatis tratta ora dell’evoluzione che dall’alpinismo classico dei pionieri condusse alla forma moderna valorizzatrice delle più audaci azioni individuali (Nota della redazione di Lo Sport Fascista).
Se l’alpinismo è una attività relativamente recente, lo sport dell’arrampicamento – nella precisa significazione che di esso abbiamo dato – è uno sport decisamente moderno.
Dalla pluralità alquanto indefinita di concetti e di interpretazioni cui si informò sempre l’attività alpinistica, lo sport dell’arrampicamento insorse e si affermò con la sua unicità e indipendenza di principi e di tecnica, con la sua dirittura di sviluppo, con quel suo preciso complesso di caratteri che – come abbiamo già visto precedentemente – lo definisce e lo rende uno sport perfetto.
Non solo lo sport dell’arrampicamento non è subordinato in nessun modo all’indeterminatezza dei vari criteri alpinistici, ma, attualmente, è proprio invece lo sport dell’arrampicamento che dà delle direttive, che impone i suoi speciali criteri a buona parte del movimento alpinistico in molte regioni.
Vi sono tuttavia ancora degli alpinisti i quali considerano lo sport dell’arrampicamento come una semplice particolarità dell’alpinismo, quasi un suo aspetto di eccezione, ma questi fedelissimi alla vecchia idea che il procedere dell’alpinista sia una marcia più o meno ostacolata e, per lo più, con una solida guida innanzi, sono degli individui che non comprendono per niente lo sport dell’arrampicamento, individui ai quali la normalità del procedere coi quattro arti in ambiente costantemente difficile e pericoloso, l’effettivo arrampicare, riesce pressoché inconcepibile. Naturalmente i giudizi di tali giudici, anche se illustri, non possono venir presi in considerazione.
Lo sviluppo stesso dell’alpinismo attraverso la pluralità delle sue estrinsecazioni lascia scorgere molto chiaramente in un certo periodo, la formazione delle nuove esperienze, dei nuovi orientamenti che diedero origine allo sport dell’arrampicamento, perciò, sia pur brevemente, è indispensabile esaminare dapprima le caratteristiche più salienti dello sviluppo dell’alpinismo e la differenziazione da esse dello sport dell’arrampicamento, per vedere poi la successiva ascesa di questo nella realizzazione di sempre maggiori conquiste, di valori crescenti in una audacissima, titanica tensione di sforzi e di volontà verso il limite del possibile.
La conquista delle Alpi
Gli alpigiani, per condizioni naturali di ambiente e di vita, furono i primi frequentatori della montagna e i primi salitori di cime, e quindi anche i primi alpinisti.
Furono specialmente i cacciatori più animosi che, spinti dalle loro stesse cacce, e talvolta dalla curiosità e dal fascino dell’ignoto, s’inoltrarono su per le valli più scoscese esitando stupiti sulle soglie dei circhi rupestri regalmente cinti di vette, affacciandosi alle forcelle, ai colli, alle bocchette nevose, che rivelavano nuovi passaggi, nuove valli, nuove cime, nuovi orizzonti, e donde sembrava loro di cogliere dei segreti. Questi arditi finirono col diventare delle guide.
Prima del secolo scorso le salite notevoli furono però sempre così rare da poter ritenere che la conquista delle Alpi abbia avuto inizio appena un secolo e mezzo fa quando la sommità del grande monarca della catena alpina, il Monte Bianco, e quella del re delle Giulie, il Tricorno, vennero raggiunte per la prima volta.
Tuttavia ciò che, in senso classico, è inteso come alpinismo, si affermò e si diffuse oltre mezzo secolo dopo, ché solo pochissimi studiosi ed esploratori condotti da montanari s’avventuravano alla conquista di qualche cima.
In poche decine d’anni, verso la metà del secolo scorso, le conquiste aumentarono progressivamente di numero e di importanza. Si salirono cime già salite e con frequenza sempre maggiore. Nelle diverse nazioni si fondarono le società alpinistiche. Si formò un vero e proprio movimento alpinistico.
Soltanto con un’opera poderosa sarebbe possibile trattare in modo organico, degnamente, la storia del sorgere e dello svilupparsi dell’alpinismo attraverso l’attività e il valore dei suoi pionieri e dei loro successori. Ed è quanto mai da augurarsi che una tale opera, la quale già esiste in Germania e altrove, venga presto compiuta anche in Italia. Lo esigono ovvie ragioni culturali, lo studio e la conoscenza della nostra terra e dei suoi confini, mentre le imprese e la vita stessa dei pionieri della montagna hanno anche intrinsecamente un valore educativo altissimo.
Qui certamente non è il caso di addentrarsi in analisi storiche, ma è necessario e sufficiente cogliere dei significati generali.
Le caratteristiche del movimento alpinistico
Il movimento alpinistico si formò e si sviluppò con le seguenti caratteristiche:
– gli alpinisti erano di solito gli organizzatori o gli ideatori delle spedizioni, l’attuazione delle quali pesava però quasi completamente sulle guide. L’abilità, la tecnica, il coraggio indispensabile per superare tutte le difficoltà di una ascensione dovevano venir forniti dalle guide. Solo più tardi per opera dei Tedeschi – intendendo usualmente di includere tra questi anche gli Austriaci – si manifestò l’alpinismo senza guide, e fu da essi rapidamente innalzato a grandi altezze;
– le spedizioni miravano a raggiungere delle cime, e preferibilmente non ancora salite, di rado dei valichi od altri obbiettivi;
– dapprima si evitarono le difficoltà ma dopo, restando necessariamente insalite le cime più difficili, pur di raggiungerle si affrontarono forzatamente maggiori difficoltà. In seguito la passione del nuovo si espresse anche con la ricerca di vie originali a cime già salite;
– non si aveva nessun criterio di valutazione delle difficoltà; neppure si teneva conto dell’influenza relativa al vario uso di mezzi artificiali, né quantitativamente, né qualitativamente;
– non si aveva nessun criterio specifico di ciò che si doveva intendere per valori alpinistici. Così veniva parimenti considerato grande alpinista tanto un salitore di cime difficili quanto un salitore di cime facili, un appassionato di pericolose avventure come un diligente esploratore alieno da ogni rischio e da ogni avventura, uno che badava solo a moltiplicare il numero delle sue ascensioni come uno che aristocraticamente ne curava soprattutto la qualità.
Che nella sua prima formazione il movimento alpinistico avesse queste caratteristiche è del tutto naturale, che però nel suo ulteriore sviluppo esse venissero mantenute pressoché integralmente fino allora presente dagli Inglesi e dai Francesi, e in gran parte anche da noi, mentre il lato transitorio, superabile, perfettibile di esse venisse da tempo discusso e sorpassato in nuovi atteggiamenti ed in nuove affermazioni quasi esclusivamente in Austria e in Germania, è un fenomeno storico e tecnico oltremodo interessante poiché in esso profondamente si rispecchiano sia valori sportivi che valori spirituali intimamente corrispondenti alle varie nazionalità. Il rendersene ora conto da noi, assumendo appieno i significati e i compiti dei più alti valori, è nitida espressione di rinnovamento spirituale e di evoluzione sportiva ad un tempo, e ciò conformemente e coerentemente alla nostra generale ascesa e rinnovamento.
Il valore dei pionieri
L’attività dei pionieri dell’alpinismo fu molto complessa, essi svolsero un lavoro ideativo, scientifico, esplorativo, organizzativo e sportivo.
Alle generazioni che seguirono questa attività molteplice apparve nei suoi risultati, come un tutto, un totale, che assommava tanta scienza, volontà e operosità da incutere la più legittima ammirazione e reverenza, di modo che non si osò nemmeno stabilire delle valutazioni relativamente ai grandi esponenti dell’alpinismo, ovvero si cadde nell’errore di mettere a confronto la loro personalità sociale con quella dei successori, confronto che evidentemente non può condurre ad alcun risultato, data la varietà e la diversità degli aspetti e delle manifestazioni costituenti le rispettive personalità.
Ma se la personalità dei pionieri appare veramente grande, questa grandezza aprì piuttosto che chiudere ai successori le vie di elevazione.
Ché anzitutto ogni valore deve venir sempre inteso come l’affermazione di una possibilità, e molto della grandezza dei pionieri, come la quantità di cime vergini conquistate, fu conseguenza della situazione storica e non può costituire un fattore di superiorità relativamente ai tempi più recenti, poi ben diverse considerazioni si possono e si devono fare se, invece di limitarsi ad ammirare la personalità dei classici, si esaminano i singoli lati della loro attività.
Ebbero i pionieri ricchezza di mezzi e di iniziative, dovizia di cultura e di idee, entusiasmo e nobiltà di passione, ma il valore di muscoli e di nervi e soprattutto di audacia da essi esplicato fu in realtà assai scarso. Questo valore era allora prevalentemente patrimonio delle guide, patrimonio tuttavia modesto, se lo si paragona anche solo con i primi ardimenti dello sport dell’arrampicamento. Ciò va inteso all’infuori delle contingenze storiche, dei mezzi artificiali e della tecnica relativa, poiché questo paragone va posto per il puro lavoro atletico di roccia, ed ha esempi e dimostrazioni anche nei riguardi di singoli punti. Passaggi che oggi un arrampicatore supera con disinvoltura senza alcun aiuto, furono giudicati molto difficili e faticosi nelle identiche condizioni di esecuzione. Ragione per cui come si deve ammettere che i pionieri hanno dovuto possedere un mirabilissimo spirito d’intraprendenza per affrontare tutto l’ignoto delle loro imprese, così si deve pure riconoscere la limitatezza del loro addestramento e della loro audacia.
A questo proposito è assai opportuna una chiarificazione.
Si dice da tempo, e così spesso da farlo credere un luogo comune, che per affrontare l’ignoto ci vuole del coraggio e che perciò i pionieri ne dimostrarono più di quanto ne abbiano dimostrato gli arrampicatori moderni.
Questa asserzione è invece una grossa sciocchezza. L’ignoto non è il pericolo ma bensì il pericolo del pericolo, l’ignoto si teme in quanto può essere pericoloso, si può tuttavia avere il coraggio di affrontarlo, di affrontare cioè il rischio di aver a che fare con eventuali pericoli, e non possedere il coraggio necessario per superare i pericoli che effettivamente si incontrano. L’arrampicatore moderno non ha solo l’ombra dell’ignoto, il pericolo possibile che incombe sulla montagna, attorno a sé, ma egli ha il pericolo reale, immediato, continuo di movimento in movimento che lo stringe alla gola implacabilmente.
In fatto di audacia la superiorità degli arrampicatori moderni, e dicendo moderni possiamo riferirci al periodo che risale ai primordi di questo secolo, sui pionieri è palese ed incontestabilmente grandissima.
Altrettanto incontestabili furono però i meriti intellettuali che i pionieri dimostrarono collateralmente e conseguentemente alla loro attività alpinistica, meriti che se, a rigore di termini, non possono sostituire l’audacia e la capacità realizzatrice, e debbano quindi in una scala di valori venir necessariamente separati, sono pure degni della più alta considerazione.
Tra i pionieri non si possono non ricordare: v. Barth, Weilenmann, Payer, Grohmann, Ball, Tuckett, Tyndall, Whymper, Freshfield, Sella, Giordano ed altri, tosto seguiti da una numerosa schiera di valorosi come, per fare ancora pochi nomi, Mummery, Schulz, Merzbacher, Purtscheller, Vaccarone, Coolidge, de Falkner.
L’alpinismo inglese
Giudicando dai primi pionieri si dovrebbe dire che allora l’alpinismo era prevalentemente inglese, ma si potrebbe subito aggiungere che senza le guide l’alpinismo inglese non sarebbe mai esistito. Inizialmente tutto l’alpinismo fu dell’alpinismo con guide, però l’alpinismo inglese fu e restò sempre, salvo poche eccezioni, alpinismo tradizionale con guide.
In realtà i primi alpinisti, anche i migliori, furono, per usare una terminologia crudamente esplicita, assai più degli impresari che degli esecutori di ascensioni. Gli Inglesi, forniti di grandi mezzi, accorti ed intraprendenti, innestarono nel nascente alpinismo la loro magnifica volontà di scoperta e di dominio, e, nello stesso tempo, il loro spirito utilitario, la loro tendenza realizzatrice ma superficiale, e così, dato il grande numero di cime allora non ancora salite, raccolsero innumerevoli successi. Cioè, per meglio dire, essi credettero sinceramente di avere a sé e da se stessi realizzati dei successi compensando più o meno largamente le guide, come se un qualsiasi compenso potesse togliere o comunque minimamente variare il merito di un’opera, di un’ascensione a chi l’ha compiuta.
L’importanza fondamentale del “come” viene raggiunta una cima, l’assoluto valore dell’”io” di fronte alla montagna, allo sforzo, al pericolo non venne mai compreso dall’alpinismo inglese. Questi valori costituivano una realtà troppo intima, troppo superiore all’occupazione materiale di una cima, all’utilità di una esplorazione.
Con tale incomprensione l’alpinismo inglese si rinchiuse in seno alla tradizione, con una chiusura ed una restrizione che si resero sempre più manifeste nei confronti con la possente trasformazione dell’alpinismo tedesco. Infatti, quanto più diminuirono nelle Alpi le cime vergini, tanto più gli alpinisti Inglesi estesero fuori della catena alpina la loro brama di conquiste, non trovando quasi più lo scopo di operare nelle Alpi. Di fronte alle stupende affermazioni tedesche dell’alpinismo senza guide gli Inglesi rimasero fermi nelle loro primitive posizioni lasciandosi definitivamente sorpassare. Invano poi tra le grandi imprese dell’arrampicamento moderno se ne cercherebbe una sola di inglese.
Sulle tracce dell’alpinismo inglese seguì quello francese, distaccandosene in parte di recente, ma limitandosi, come quello svizzero, ad una attività strettamente locale.
È facile ora comprendere che numerosissime conquiste alpine generalmente considerate come vanti stranieri sostanzialmente furono opera di solidi montanari italiani, delle nostre guide che umili e incolte non ebbero mai tutta la parte di merito che loro spettava.
L’opera delle guide e i valori sportivi
Vedremo poi come lo sport dell’arrampicamento abbia elevata la figura della guida e tenda ad elevarla maggiormente, e come le moderne guide sportive posseggano una notevolissima personalità di gran lunga superiore a molti alpinisti.
Ritornando al caso generale ed esprimendo i fatti con brutale evidenza si devono porre le questioni:
– È lecito valutare come un buon alpinista chi sputando l’anima per lo sforzo e per l’angoscia della difficoltà riesce, assicurato ad una robusta corda, a seguire la sua guida in un’impresa appena appena difficile?
– È lecito che ogni assegnazione di meriti venga risolta in un pagamento? Che ogni energia intima di razza, che ogni virtù eroica valga soltanto del denaro?
– È lecito che una quantità di salite mediocri possa equipararsi a salite di qualità elevata?
I più fondamentali criteri di verità e di lealtà sportiva impongono che in ogni caso si risponda assolutamente no. Anche se questa risposta contrasta con la tradizione, demolisce dei pregiudizi sentimentali, abbatte delle statue decorative. Perché sopra tutto sta la virile realtà che il patrimonio di sangue e di audacia non ha prezzo, ed è per ogni razza patrimonio inestimabile ed insostituibile.
Eppure la versione affermativa alle questioni poste avvolge con capitali errori di valutazione anche gran parte dell’alpinismo attuale, non solo, ma molti ambienti alpinistici riguardano sdegnosamente l’atteggiamento dello sport dell’arrampicamento appunto perché sportivo! Perché con superiori idealità oppone una eloquente aristocrazia qualitativa alla retorica democratica dei più, perché con logica rigorosa attribuisce al capocordata, chiunque esso sia, guida o no, pagato o no, personalità cospicua o no, il merito prevalente di una scalata.
Chi è l’arrampicatore
Chi segue un capocordata perviene sì a prove di alto valore, come nelle moderne arrampicate abbastanza prossime al limite del possibile, ma sempre in misura assai minore del capocordata, e purché le imprese si svolgano conformemente a criteri di lealtà e coscienza sportiva.
Un arrampicatore è più o meno buon arrampicatore in quanto ha personalmente realizzato delle più o meno grandi arrampicate. Come si possa sostenere che un alpinista non sia più o meno buon alpinista in quanto abbia personalmente realizzato delle più o meno grandi ascensioni, è una cosa che si spiega semplicemente col fatto che tale principio appare troppo severo, selezionando negativamente una quantità di individui che per varie circostanze, preconcetti e incensamenti sono stati illecitamente consacrati alla fama di grandi alpinisti. Si tratta precisamente di coloro che tali hanno creduto di diventare facendo numerose salite, magari nuove, ma di mediocre difficoltà, accessibili cioè a troppa gente per costituire dei valori; che tali si credono perché possiedono dell’erudizione alpinistica, delle capacità letterarie, dei meriti sociali od altro.
Con ciò – e ci vorrebbe della vera malafede per non comprenderlo – la sportività non nega, né minimamente avvilisce i valori spirituali, artistici e sociali, anzi al contrario, per la sua stessa volontà di precisazione e di differenziazione li riconosce e li afferma, ché ogni chiarezza è elevazione e la sportività esige in primo luogo della chiarezza.
Non si fa certo un buon servizio alla memoria dei pionieri sforzandosi di far apparire dell’ardimento dove questo era presente in misura limitata, ma distinguendo i loro meriti esplorativi e culturali si può apprezzare tutta la loro interiore ricchezza e operosità.
Allora come adesso un individuo può essere un valentissimo artista, un interprete, uno studioso della montagna, e come tale, ma soltanto come tale, degnissimo e ammiratissimo, ed essere tuttavia alpinisticamente una mediocrità, incapace di effettuare una qualunque grande ascensione, e in tal caso non può e non deve assolutamente pretendere di essere un eminente alpinista. Il pretenderlo diventerebbe presuntuosa vanità, e quindi un accoppiamento di deficienze di energia e di deficienze spirituali.
Equipaggiamento di Georg Winkler ritrovato nel ghiacciaio del Weisshorn
È doveroso pertanto che la sportività esiga e proceda alla demolizione di questi accoppiamenti di deficienze che purtroppo costituiscono anche al giorno d’oggi l’equivoca base di tante, di soverchie grandezze inconsistenti.
Deve restare in piedi solo ciò che vale intrinsecamente, coi suoi meriti reali di un genere o di un altro, nitidamente, nel proprio campo, e al proprio posto, con feconde alleanze e leali gerarchie di valori.
Quando mai uno scalatore accampò pretese di erudizione per il fatto di essere un grande scalatore? Perché dunque permettere l’inverso? Sarebbe ugualmente assurdo.
Si è insistito sulla precisazione di questi principi perché è proprio dal superamento di tutti i valori alpinistici tradizionali che emerge, coi criteri essenziali dello sport dell’arrampicamento, la peculiare chiarezza sportiva.
L’alpinismo senza guide
Allorché, un trentennio appena dopo la metà del secolo scorso, il movimento alpinistico raggiunse un certo grado di sviluppo, l’alpinismo tedesco, con una superiore comprensione spirituale della situazione, si rese pienamente conto che il valore alpinistico non sta nel fatto materiale di pervenire su di una cima quanto nella affermazione di potenza che esprime tale fatto, cioè nella capacità di raggiungerla, che la vetta è un traguardo e un ideale e che la vera altezza sta nelle nostre energie morali e materiali. Sorse allora l’alpinismo senza guide.
L’alpinismo senza guide non è l’alpinismo che rinnega le guide, come è stato spesso interpretato, ma l’alpinismo che stima le guide come compagni e quindi vuole emularle e magari superarle, che pone la capacità delle guide a valore e considerandola come valore aspira a possederla intimamente, nella sua essenzialità, e non illusoriamente con l’appagarsi di avere le guide al proprio servizio.
Questo atteggiamento, che traduce in un certo senso il profondo individualismo della filosofia idealistica tedesca rispetto alla mentalità utilitaria e superficiale del positivismo inglese, unitamente a quel senso della natura così diffuso e sviluppato tra i Tedeschi, formò le saldissime basi di quella superiorità psicologica che portò prestissimo e mantenne fermamente l’alpinismo tedesco ad un livello molto più elevato di tutti gli altri.
Si potrebbero fare molti nomi, ma qui basta ricordare Zsigmondy e Lammer i quali sovrastano il loro tempo e tutto il tempo a loro anteriore come i giganti della catena alpina sovrastano in altitudine le Prealpi.
Zsigmondy fu un grande alpinista e una grande personalità in ogni senso, la più splendente figura di alpinista dell’epoca classica dei senza guide. Le sue salite furono un magnifico lavoro di scoperta, di spiegazione e di conquista. Il suo procedere calmo, la sua attenta fermezza, il carattere ideale dell’alpinista. Trovò la morte sulla Meije nel 1885.
Lammer ebbe una attività contemporanea e posteriore a Zsigmondy. Nel 1883 con la salita della parete nord della Tamischbachturm si pose al centro della vita alpina. Affrontò quindi vittoriosamente imprese nuove e grandiose non solamente senza guide ma addirittura da solo, con una audacia sconfinata. Il suo eroico comportamento nella sua caduta, col Loria, sulla parete Penhall del Cervino, la sua ascensione da solo e per la prima volta della ghiacciata parete nord della Thurwieserspitze, che trent’anni dopo nessuno aveva ancora osato ripetere, e durante la quale riuscì con la sua volontà indomabile ad uscire da un crepaccio in cui era tragicamente precipitato, la sua salita alla Dent Blanche nella tormenta, e tante altre riempirono il mondo alpinistico di stupore. La sua audacia apparve prodigiosa quanto incomprensibile.
Con l’azione, con l’esempio, con gli scritti, con la parola affermò la sovrana aristocrazia dei valori dell’”io” al disopra di ogni utilitarismo, di ogni moderazione, di ogni limitazione da timori e convenienze, elevandosi con un volo d’aquila che anche la morte vuol fissare dall’alto.
Volle il pericolo per il pericolo, l’ardimento per l’ardimento, con una intensità di volere e una libertà di pensiero che all’alpinismo tradizionale potevano sembrare eresia. Combatté appassionatamente per la nobiltà dello sport, per la diretta naturale affermazione dei valori individuali, e nei suoi magnifici scritti lampeggia tutta la sua natura trascinante.
Lammer, come espressione integrale dei valori dell’”io” lasciò dietro di sé ad enorme distanza tutta la tradizione in genere e l’alpinismo inglese in specie. È del tutto chiaro che lo spirito dello sport dell’arrampicamento è già luminosamente presente.
L’alpinismo senza guide, con la valorizzazione sportiva del capocordata e con l’aspirazione al possesso integrale delle facoltà individuali, fu il grembo fecondo che diede presto vita allo sport dell’arrampicamento, quella vita che doveva portare il nuovo spirito verso le estreme realizzazioni.
La nascita dello sport dell’arrampicamento
Da poco conquistata la meravigliosa Cima Piccola di Lavaredo, Michele Innerkofler, la più grande guida dolomitica del suo tempo, che tante volte aveva portato al successo gli illustri pionieri delle Dolomiti, dopo aver per molti giorni lungamente vagato tra le rupi alla ricerca di una via alla cima, nel 1884 riesce a vincere per la prima volta la proterva architettura della bellissima Croda da Lago, già tentata invano da molti esponenti classici dell’alpinismo, riportando una vittoria che, non a torto, si ritenne di mirabile ardimento.
Studiosi ed alpinisti di fama convennero che le prime ascensioni della Piccola Cima di Lavaredo e della Croda da Lago rappresentavano un periodo nuovo dell’alpinismo dolomitico, e la tradizione successivamente lo confermò poiché essa non poteva e non poté mai né scorgere né comprendere le aquile che dominavano tutti gli spazi e tutte le vertigini. Appena due altre estati sono trascorse.
Siamo nel 1887. Un giovane studente diciottenne, Georg Winkler di Monaco di Baviera, arriva tutto solo nel reame leggendario di Re Laurino, nel gruppo del Catinaccio, in centro alle Dolomiti. Egli vede una titanica splendente lama di dolomia rutilare vivida al sole. Quella che ora porta il suo nome.
“Chi – disse Guido Rey – saprebbe immaginare, a mente calma, un uomo che si afferri al filo tagliente di quella lama e su per esso riesca a trarsi fin sulla punta aguzza, e, giunto lassù, ardisca ridiscenderne?”.
È tutto solo il giovane, egli è armato solamente del suo bel corpo d’atleta che sta per raggiungere la completa vigoria, e della ingenua audacia della giovinezza in fiore. Ma la sua non è una giovinezza, è la giovinezza intera della vita. Egli conosce già le montagne e le rupi, anche nell’estate dell’anno precedente egli ha arrampicato. Invisibile occulta poderosa la legione delle guide e degli alpinisti del passato, con i loro sforzi, con la loro faticosa esperienza, con i loro studi, con il loro coraggio, con tutte le loro imprese, sta sopra di lui, sta intorno a lui. Ma egli non se ne accorge, egli ammira soltanto lo slancio di quella marmorea fiamma, ne è affascinato.
Con la più serena inspirata e soprannaturale audacia egli s’avvicina e sale, sale, sale. Vibranti i suoi muscoli d’atleta, saldissimi i suoi nervi d’arrampicatore.
L’eccelsa solitudine della vetta riconobbe l’eccelsa solitudine di lui.
Ridiscese. Segnò semplicemente sul suo libretto di salite la data, aggiungendo che nella discesa gli si strappò la corda restando sorretto da pochi fili. E non ne parlò.
Si pensi che l’ascesa alla Torre Winkler è, senza confronto, più ardua di quella alla Cima Piccola di Lavaredo ed alla Croda da Lago. Si pensi che Winkler era solo. Si pensi che egli era un giovinetto. Si pensi che egli affrontò l’impresa lì per li, trionfalmente vincendo e umilmente tacendo.
L’immensa legione del passato che lo aveva seguito gesto per gesto, da un appiglio all’altro, sempre più attonita, si ritirò chinando la fronte per non più rialzarla; i puri ardentemente rivissero, e amarono, gli impuri s’annichilirono.
L’anno seguente Winkler scomparve in una lotta con gli elementi avversi del cielo e dell’alpe, e il suo silenzio si chiuse per sempre nel mistero di una morte eroica.
Cos’è il vostro valore, o guide esperte e sagge cui intere generazioni di esperienza non vi avevano ancora portato alle prime possibilità di un giovinetto?
Cos’è la vostra grandezza, o pionieri, o Whymper, o Mummery, o tanti altri come voi fieri, con tutta la vostra scienza, il vostro organizzare spedizioni, con tutto il vostro orgoglio, che non aveva mai osato salire tanto arditamente in alto quanto l’umiltà di un giovinetto? Quale intima essenziale superiorità quella di Winkler!
Tecnicamente il livello dell’impresa di Winkler è quello stesso della celebre parete sud della Marmolada e del Campanile Basso di Brenta. Conquiste effettuate tuttavia quasi quindici anni più tardi, dopo prove studi e tentativi, conquiste che furono molto esaltate nonostante che l’arrampicamento avesse allora ormai sorpassato detto livello.
Tale livello tecnico, che pure oggi risulta assai elevato e che sta forse ai limiti estremi di ciò che si può ancora intendere e praticare come alpinismo, è l’effettivo inizio dello sport dell’arrampicamento.
Con Winkler è nato lo sport dell’arrampicamento. Il giovane atleta tedesco ha aperto nei secoli le porte del più vertiginoso regno dell’avventura!
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