Storia di bivacchi e di zaini

Storia di bivacchi e di zaini
(sulla via Gogna in Marmolada)
di Smaranda Chifu
(pubblicato su smarandachifu.com il 3 giugno 2022)

C’eravamo lasciati che era inverno, anche se inverno quest’anno non lo è mai davvero stato. E vi avevo promesso una quarta puntata delle crono storie del Monte Bianco, che arriverà. Ma arriverà dopo, tipo quando ci saranno 40 gradi all’ombra, la vostra esistenza altalenerà tra la voglia di tagliarvi le vene ancora intrappolati al lavoro e quella di trascorrere le giornate di fronte al reparto surgelati dell’Esselunga.

Non ho avuto tempo per scrivere, non qui almeno, negli ultimi mesi le mie energie sono state risucchiate tutte, pure quelle che manco pensavo di avere, in quella cosa fantastica, abominevole e più terrificante di una placca mellica spietata, ossia la vita. Ma sto arrivando finalmente in sosta e parrebbe che manco ‘sta volta son morta!

Quindi con un balzo in avanti ci proietteremo diretti nell’estate. Bisognerebbe sempre iniziare per gradi no, riportarsi su qualche via lunghetta, uscire dalla falesia come gli orsi dal letargo, pian pianino, riabituarsi. Ma questo se fossi una persona saggia circondata da persone più sagge di me. E invece un cazzo, siamo finiti sulla sud della Marmolada, come prima via dell’anno.

Che son solo 800 metri di parete nei punti più bassi, un bivacco, 30 tiri in due giorni, lo zaino, iddio lo zaino, ma perché nessuno mi aveva mai detto quanto pesa uno zaino per fare le vie in cui devi bivaccare in parete? Ma l’ONU si sta muovendo per risolvere la questione? Apro una petizione su Change.org e chiedo che ci sia una fontanella sulla cengia della Marmolada, se siamo tutti d’accordo.

Insomma di ragioni per le quali non avrei dovuto fare questa come prima via della stagione ce ne sono cento, però quando Rava mi ha trascinata in mezzo insieme a Fabio, in tre, ho ragionato con la pancia e così ci siamo ritrovati una sera in settimana sul pavimento della mia nuova casa, ancora senza cucina in quel momento, a dividere chiodi, friend, rinvii, contare i litri d’acqua, sacchi a pelo, cibo, martello, vestiti, jetboil. Insomma, son 9 kg di zaino, che faccio signò, lascio o gli do fuoco?

Facciamo gli zaini davvero da manuale, due zaini pesanti che verranno portati dai secondi, mentre il primo scala con lo zainetto Decathlon (miglior acquisto della vita) con dentro pochissime cose, nessuna speranza e il solo peso dei sogni infranti. Infatti a scalare ci sarà solo da scegliere di che morte morire: o scali da primo leggero e muori da eroe, o cento giorni da pecora con lo zaino che trasforma i V in bestemmie.

Partiamo venerdì sera direzione Malga Ciapela, il rifugio Falier è chiuso e decidiamo di dormire in macchina al parcheggio per evitare di dover portare su altra acqua (al rifugio non ce n’è finché non lo aprono, la fontanella è chiusa nel resto dell’anno, però credo si possa scassinare, nel caso non ve l’ho consigliato io).

L’avvicinamento scorre bene, il caldo inizia a friggerci l’anima quindi superato il rifugio decidiamo di dare bella mostra delle nostre chiappe proseguendo in mutande fino all’attacco, che lo stile non andasse a pile s’era capito dall’inizio.

Rivederla comunque, quella parete sotto la quale c’ero finita un giorno di un paio di anni fa, semplicemente camminando e chiedendomi chissà quando e chissà se, è stato una bella coccola di questi tempi, in cui mi sono sentita per giorni, mesi e direi ormai un abbondante anno, per motivi molto pragmatici, stanca e triste. Chissà quando e chissà se, per tantissime pareti, per tantissime persone, per tantissime esperienze che poi alla fine basta calmarsi, incamminarsi, che le cose succedono.

Il primo giorno scorre tiro dopo tiro e tiro dopo tiro capisco che dal basso sembrava meno ‘sta parete perché ti frega la prospettiva perché tiro dopo tiro in cengia sembriamo non arrivarci mai. Alla fine smettiamo pure di contarli, ‘sti tiri, ti arrendi e vai avanti, prima o poi arriverà. E via un diedro, e via un camino e via un traverso sul quale stavo per morire e daje pure le placche sulle quali non dovevamo finire ma Fabio si fa abbindolare, la Marmolada racchiude l’essenza delle Dolomiti: ti perdi sicuro, non è nemmeno da considerare il fare la via originale, è un attimo che finisci sulla variante delle placche come noi, coi piedi marci e lo zaino leggero come ‘sto camion di sassi in faccia, i chiodi son pochi e fanno pure paura, l’esposizione è impressionante, il caldo piuttosto straziante.

Arriviamo finalmente in cengia, ci sono ancora dei residui di neve e qualche colata d’acqua che poteva essere sfruttata per portarne meno dietro, però col senno di poi son tutti Bonatti. Ci sistemiamo in un loculino, Rava taglia giù un ottimo aperitivo fatto di taralli e mortadella, io accendo il Jetboil per preparare la cena a base di couscous, uova sode e brodo in dado che non si scioglie, Fabio apre una battaglia contro la parete, tutta sua, cercando di asciugare una goccia che gli cade con costanza addosso con dei fazzoletti, lo stillicidio della Marmolada, chiaramente vince lei.

Che cosa ci sia di bello nel dormire a 500 metri di altezza non ha molto senso spiegarlo, a chi non ha mai provato un’esperienza simile, arroccati su una cengia dove lo spazio vitale è quello dei monolocali degli operai cinesi, mangiando malissimo per due giorni, con questa sensazione di umidità, infilati in un sacco a pelo che ti permette la mobilità di un tronco d’albero, sapendo che il giorno dopo sono altri 15 tiri. E il telefono non prende e chissà se le previsioni meteo son migliorate o peggiorate. Ma se mi scappa la pipì che sbatta alzarmi ora. Chissà i gatti a casa come stanno.

Mi sembra tutto, giustamente, così distante. Il lavoro, il trasloco, il fatto che devo chiamare l’Enel, gli armadi da montare, le persone che se ne sono andate e sì, han fatto un gran male, quelle che non ho saputo tenermi io e le ho perse, la lavatrice che m’ero promessa di fare che chissà mia nonna senza come faceva ma di cosa mi lamento, i ricordi, il dolore, la paura che in questi mesi ho del futuro, questi 500 metri sembrano uno scudo, dove non arriva il telefono sembra non arrivare nemmeno la vita. E mi vien solo da pensare per fortuna, menomale, per qualche ora riuscire a staccare. Chissà il mondo come sta, chissà come starebbe se rimassi qui per un po’, “sì scusa, no non riesco a fare la riunione delle 15, sto su una cengia sulla Marmolada, sìsì, tutto bene, quando m’è passata l’ansia di affrontare la vita scendo eh”.

Ho dormito a botte di una/due ore alla volta, mi sono svegliata e riaddormentata sei volte almeno. Ad un certo punto ho riaperto gli occhi e ho visto una delle Vie Lattee più belle di sempre, piena, evidente.

Quello sulla cengia della Marmolada era un bivacco che volevo fare da tre anni e nel risvegliarmi di notte, con una gamba informicolata e un sasso nella chiappa destra, e vedere la Via Lattea da lì ho capito che nonostante tutto, la mia più grande fortuna è continuare a sentirmi grata.

Il mattino ci accoglie con le nuvole all’orizzonte, la via l’abbiamo fatta giocando un po’ d’azzardo, domenica sera davano temporali e mentre cerchiamo di capire se si stanno anticipando o meno prendiamo la saggia decisione di non farci trovare in parete, sulle placche di VI in uscita, col rischio di farci fulminare addosso. La scelta di uscire dai più facili camini della Livanos si rivelerà molto giusta dato che appena in cima il cielo si rannuvola ancora di più e poco dopo che scendiamo scarica per bene.

Ci fiondiamo giù a tuono dal ghiacciaio (che chiamarlo così, ahimè, è fargli un complimento) della Marmolada, arrivati a valle io, col sorriso che tutto era meno che gentile, intimo ad un pullman di giovanotti sulla 70ina in gita, di riportarci alla Malga Ciapela evitandoci il rientro a piedi sulla strada che siamo seri, non ci meritavamo proprio.

A seguire birra, pizza, un negozio di speck e pezzi vari di maiale, le ciabatte comode e come sempre, quella sensazione nella pancia, lì dove finiscono le costole e inizia il ventre, insomma lì dove stanno le emozioni: che se non fosse mia questa vita, nonostante tutto, io la invidierei.

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Storia di bivacchi e di zaini ultima modifica: 2022-10-19T05:16:00+02:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Storia di bivacchi e di zaini”

  1. Complimenti, bellissimo e spassosissimo racconto…mai pensato di scrivere libri e/o romanzi?? 

  2. Ricordo una volta che era freddo ed ero stanco…. 🙂 🙂 🙂 che ridere sti commenti… Grazie, i tuoi racconti sono bellissimi, hai un dono nel trasformare le emozioni che senti, nutrilo sempre sto dono e nutrile sempre ste emozioni, grazie Smaranda !!!

  3. bella avventura
    i bivacchi sono belli perché arrivano così
    senza preavviso
    nel lontano 1984 ne ho fatto uno sul Picco  luigi amedeo lungo la via Taldo nusdeo
    no problem a parte che il giorno dopo avevo l’esame orale di maturità
    passato con un bel 36 e un calcio nel culo
    un bivacco impegnativo mi è invece capitato scendendo dalla vetta del Makalu in Himalaya
    era il lontano 1993
    a circa 8100 metri la bufera e la notte ci ha fatto perdere le tracce e abbiamo deciso di ripararci in un crepaccio in attesa della luce
    nottata fredda e lunga
    ma in compagnia di amici e sigarette è passata anche quella
    ero in compagnia di Fabrizio Manoni, Dario Spreafico e Leopold Sulowschi
     
     

  4. “Per non congelare, giriamo in tondo tutta la notte intorno a un cespuglio, diametro 3-4 metri.’
     
    Come disse “quel tale”, chi si ferma è perduto.

  5. Mi piace moltissimo il modo scanzonato con cui Smaranda parla delle sue avventure in montagna…

  6. Scendendo molto di livello còme difficoltà di via rispetto al commento precedente, però…
    17 ottobre 2009 Cresta Roma-Udine, gruppo Monviso. Alle 15,30 il meteo peggiora decisamente (non nelle previsioni meteo), escludiamo di finire la via e poi scendere su pian del Re, scendiamo verso rifugio Viso in Francia contandu su locale invernale e telefono di emergenza. Ci arriviamo a 20 metri, ci pare di vedere il Buco di Viso in alto, risaliamo, nevica con vento forte, tormenta, nebbia fitta. Resici conto dell’errore, riscendiamo verso il rifugio: assolutamente non più trovato, da non crederci. Scendiamo fin verso 2100 m finché non finiamo con i piedi nell’acqua. Per non congelare, giriamo in tondo tutta la notte intorno a un cespuglio, diametro 3-4 metri. Nevica fino alle 2 poi si apre, verso le 6 molto freddo, alle 7 scendiamo. A Guillestre, in valle, registrati – 7°. Una notte dura e tanta ansia per chi era a casa.

  7. Ricordo una notte intrappolati sulla cima della Marmolada come la più dura della mia vita, ma anche una delle più belle. Usciti tardino dalla Vinatzer, con niente più che uno zainetto a testa. Acqua finita da ore, cibo neanche portato. Il piano era farla in giornata ma le placche bagnate nella parte bassa ci sono costate qualche ora di troppo. Usciti in cima ci rendiamo conto che la pista ha già rigelato e senza ramponi è impossibile scendere. In qualche modo arrangiamo un gelido bivacco tra le basi cementate della stazione della funivia. Dovremmo passarci quasi 13 ore. La fortuna (?) ha voluto che avessimo con noi un mazzo di carte da briscola. No cibo, no acqua, ma un mazzo di carte. Non ho mai tremato così tanto in vita mia ma di quella fetta di torta plasticosa del Lidl offerta alle 9 del mattino dai primi tecnici della funivia, ricordo ancora ogni boccone. 

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