Stromboli, il cammino di pietra e il cammino di cenere

Introduzione a Stromboli, il cammino di pietra e il cammino di cenere (GPM 058)
di Gian Piero Motti

Bernard Amy è una delle personalità più interessanti del nuovo alpinismo occidentale. Sensibilissimo, fantasioso, sempre alla ricerca dell’introspezione, anche nei suoi scritti riesce a concretizzare tutto un suo mondo di immagini improvvise e di sensazioni non filtrate, ottenendo risultati di alto valore suggestivo. E’ stato autore di un ottimo libro, La montagne des autres, diario di una spedizione alpinistica in Turchia, dove egli cerca non tanto di vedere le montagne con gli occhi dell’alpinista, ma piuttosto di capirle con l’animo di chi in montagna ci vive.

I lettori italiani ricorderanno senz’altro il fantastico e allegorico racconto L’arrampicatore più forte del mondo, apparso sulle pagine della Rivista Mensile del CAI (n. 12 – 1972), dove Amy si serve della parabola per rendere agibile il mondo ermetico e simbolico della filosofia buddista.

Jean-Marc Boivin, Gian Piero Motti ed Enrico Camanni, Torino, 1977

Lo scritto che abbiamo scelto per i nostri lettori, a mio giudizio è uno dei migliori, se non il migliore di Amy. Ancora una volta la realtà si mescola al sogno e all’immagine simbolica, il discorso si svolge su due piani prima paralleli e poi convergenti. Un cammino che procede su un ponte ideale di roccia, che collega tra di loro il Piccolo Sole rinchiuso nella Terra con la luce del Grande Sole. La parete, lungo la quale si raggiunge la perfetta armonia con l’elemento primario (il magma pietrificato) è appunto il ponte che unisce il fuoco prigioniero, che cerca invano di liberarsi proiettandosi attraverso il suo elemento contradditorio (il mare) alla luce del Grande Fuoco.

Il viaggio è la ricerca di una sintesi tra i due elementi antagonisti, l’Acqua ed il Fuoco, al cui contatto si genera la terra e l’aria. La sintesi dura un solo istante, travolta poi dal costante divenire. A parte il contenuto simbolico di grande interesse e suggestione, il racconto è un piccolo capolavoro di arte pittorica e descrittiva, dove il paesaggio di Provenza, la terra italiana, il mare di Sicilia, acquistano una carica espressiva tale da suggerire l’immagine anche a chi non conosce i luoghi. Il racconto, che appunto spazia su tempi e luoghi differenti, per giungere al «presente» senza tempo dell’eruzione, si serve appunto di modi verbali sempre diversi e intrecciati, appositamente voluti dall’autore.

Lettura: spessore-weight(4), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)

Stromboli, il cammino di pietra e il cammino di cenere
di Bernard Amy
(Questo articolo è apparso su La montagne et alpinisme n. 2/1975 con il titolo Le chemin de pierre et le chemin de cendre. Tradotto da Gian Piero Motti è stato pubblicato su La Rivista della Montagna, dicembre 1977)

Fin dalla partenza avevamo capito che sarebbe stato un vero viaggio, di quelli dove ogni istante ed ogni luogo racchiudono in sé tutte le immaginazioni, perché subito, come in uno stato di grazia, si è pronti a recepire qualsiasi immagine. Non è più necessario scegliere. E’ il viaggio che conduce colui che lo intraprende. Ovunque vi è un segno che indica il cammino da seguire. E, tra le tante strade possibili, il viaggio precede ogni esitazione e trova la giusta via che fa scordare le altre. Sempre si incontra qualcuno. Negli ultimi sobborghi della città, camminava da solo senza neanche chiedere un passaggio, con un sacco enorme sulle spalle. Ci fermammo. «Ehi, dove vai? Dai, sali che ti portiamo!» Si girò, un po’ sorpreso. Ma allo stesso tempo gettò il sacco nella macchina e poi entrò. «Vado a Simiane-la-Rotonde».

La risposta rivelava un chiaro accento inglese. «Vai a Simiane? Bene». «Conoscete Simiane?» Era al colmo dello stupore. «E’ la prima volta in una settimana che dei francesi conoscono questo nome!»
– Da dove vieni?
– Dall’isola di Skye. La conosci?
– Un po’. Come ti chiami?
– Chris. E voi, dove andate?
– Per ora ad Aix. Poi… ma prima, se tu vuoi, a Simiane.

Come se noi dovessimo pensare ai giorni seguenti! Il tizio sembrava interessante. Non potevamo lasciarlo così. «Dopo Aix andiamo in Sicilia, allo Stromboli». «Ma va? Allo Stromboli? Dai, raccontami un po’». Ma non vi era ancora nulla da raccontare e durante tutto il viaggio non fece che parlare dell’isola di Skye. Così andammo a Simiane e dall’alto del villaggio ritrovammo i grandi spazi assolati e secchi dell’Alta Provenza. Nella stretta cucina di una vecchia casa, in mezzo alle stoviglie e ai vecchi mobili di legno scuro, bevemmo una tisana di timo delle colline. Gli amici di Chris conoscevano bene l’alta montagna e parlavano delle Alpi lontane. Il timo sapeva di colline e la casa odorava di vecchie pietre. Partimmo al crepuscolo, promettendo di tornare un giorno. Contavamo di lasciare Aix il giorno successivo, domenica. Ma gli amici di Aix che dovevano viaggiare con noi, non erano ancora pronti. Dovemmo rimandare la partenza. Avevamo immaginato una lunga giornata sulle autostrade italiane, ci siamo ritrovati alla Montagne de Sainte-Victoire con le pedule da arrampicata ai piedi, per il momento molto lontani dal nostro vulcano. Le pareti del settore delle Deux Aiguilles ci hanno offerto una bella arrampicata: roccia eccellente, vie chiodate con giudizio, un’arrampicata fine e tutta d’equilibrio, non si poteva chiedere di più per un bel pomeriggio d’inverno. Il sole riscaldava la terra incolta, la roccia era tiepida e il vento soffiava ben alto sopra le pareti e verso le creste più elevate. Sabato, a Simiane, era stato un giorno senza tempo. Questa domenica ci fece credere che altri giorni avrebbero potuto passare senza che le nostre dita potessero toccare qualcosa che non fosse il calcare rugoso della Sainte-Victoire. Il sole è già basso sull’orizzonte quando discendiamo ancora una volta alla base delle pareti. Non sappiamo se arrampicare ancora. Sedersi e veder scomparire la luce a poco a poco: forse non c’è altro da fare. Ai piedi della guglia Eglan’nar, un ragazzo e una ragazza hanno già capito: seduti, guardano il giorno finire.
– Salve, conoscete questo posto?
– Sì. Abbiamo aperto qualche prima.
– Siete di Aix?
– Da poco. Piuttosto di Parigi.
– Ah! Ma allora tu sei «il Parigino»!

Avevamo sentito parlare parecchio di lui. E delle sue vie. Tra le più belle di tutto il massiccio.
– Credi che possiamo ancora fare una via? Ma una bella.
– Fate la Martine. È la più facile delle difficili. Là, a sinistra.

Sopra di noi non vi è che un gran muro di roccia grigia e color malva, sul quale il sole calante allunga delle ombre quasi violacee. E se provassimo?

 

Il giorno successivo lasciammo Aix. Passarono l’Esterel, Nizza, la frontiera e poi le prime autostrade italiane. Dovevamo seguirle fino in Sicilia. Sul largo schermo del parabrezza i paesaggi si susseguivano sempre più velocemente. E con essi i viadotti, le lunghe gallerie e le più belle opere d’arte. L’Italia della campagna romana, delle piccole città mediterranee e dei luoghi archeologici, era come dimenticata, passava in secondo piano, a vantaggio delle monumentali entrate delle gallerie, delle arcate di cemento armato che dominavano le valli, dei viadotti gettati in pieno cielo, ancorati alle pareti rocciose a volte, altre volte diretti in pieno verso il mare. Ammiravamo senza rammarico, senza cattiva coscienza. Le autostrade e lo Stromboli erano il nostro viaggio. L’Italia, sarà per un’altra volta. Ma l’Italia era sufficientemente vicina per apparire e risorgere alla minima occasione. La sera, arrivammo a Firenze. Scendemmo e non ci limitammo alle apparenze, in un mondo dove tutto era stupore. Un po’ assordati dal motore, nella polvere dorata del tramonto osservavamo agitarsi tutta una folla di stranieri di cui avevamo come dimenticato l’esistenza.

Ancora una volta la vecchia città era in attesa di entrare nella notte. Per noi, era la prima volta. Uno di noi si ricordava vagamente di aver dormito un giorno in un ostello per studenti, ma non ricordava più l’indirizzo. Cercammo a lungo. Poi, all’ultimo piano di un vecchio palazzo, un ragazzo ci aprì la porta:
– Buongiorno, siamo degli amici di Marcello.
– Ma è partito da due anni! Da dove arrivate?
– Dalla Francia.
– Volete dormire qui? Entrate.

Su un pavimento di mattoni di una camera, furono stese delle coperte per noi. Mi addormentai sognando il duro contatto della roccia.

Piscità, isola di Stromboli, isole Eolie. Foto: Federico Raiser

Una roccia tiepida, quasi calda e un po’ ruvida, dove gli appigli sono rari. Incuriosito, il Parigino ci guarda mentre ci prepariamo nuovamente ad arrampicare. Metto in ordine il materiale e subito comincio a salire. La notte non è lontana. Bisogna far presto.

Raggiungere il primo chiodo non è un gran problema. Ma ho già capito il tono dell’arrampicata: appigli piccoli e netti, roccia compatta e sopra di noi cento metri di placca senza una cengia o una fessura o qualcosa che possa suggerire la linea di salita. Fermo sul primo chiodo, guardo cosa mi aspetta. I riflessi si mettono in moto: dieci metri più in alto, l’occhio scopre il secondo chiodo e tra lui e me ogni minuscolo appoggio, ogni tacca della roccia. Il tutto è memorizzato all’istante, come analizzato, e la successione dei movimenti che mi permetteranno di salire nasce in me chiara e semplice. I muscoli tendono un braccio, chiudono le dita, allungano una gamba. Arrampico, mi alzo sopra il primo chiodo, attraverso un po’. Con un veloce colpo d’occhio, cerco il secondo chiodo. È ancora molto lontano. Smisuratamente lontano. E il tempo che mi è servito per credere a questa lontananza, è già stato utilizzato dalla fatica per arrivare alle dita e alle braccia. Con mille precauzioni, mi riabbasso al primo chiodo. Ho le mani e le braccia indurite dallo sforzo, cerco di dimenticarlo e provo ancora. Riparto. Ma le caviglie fanno male, un piede comincia a tremare. Rapidamente ritorno al chiodo e poi mi lascio calare fino al suolo. A ponente il sole sparisce tra le alte foreste di pini. Avremo veramente il tempo per salire questa via? Il seguito è forse ancora più difficile. Mi giro verso il Parigino. Lui e la sua amica non si sono mossi. Continuano a guardarci, con il viso in pieno sole. Lui sorride con un’aria un po’ canzonatoria – «Non tanto facile, eh?», sembra voler dire. Mi giro di nuovo verso il sole, che continua a incendiare la foresta di pini. E il Parigino continua a sorridere. Il sole, il Parigino, il sole: devo scegliere.

Il pizzo 918 m, con il fumo dei crateri visti dalla cresta dei Vancori, la vetta dell’isola 924 m di Stromboli. Foto: Federico Raiser

Dopo Firenze prendemmo l’autostrada. Da Roma in poi vedemmo soltanto un’immensa striscia d’asfalto stipata di macchine e di camion. A Napoli ci fermammo appena. La notte era già là, quando passammo all’altezza del Vesuvio, l’autostrada continuava a dirigersi a sud. Domani, saremmo stati in Calabria.

La nave, che per qualche chilometro ci fece attraversare lo stretto di Messina, era una vera nave. Lasciammo le montagne italiane per le montagne siciliane. Ma il mare era presente ovunque e con lui tutta la luce del Mediterraneo. Senza attendere, raggiungemmo il porto di Milazzo. La prossima partenza per Lipari, la più importante delle Isole Eolie, ci lasciava giusto il tempo di trovare un garage per la macchina. «Un garage? E per farne cosa?» ci chiede l’impiegato della compagnia di navigazione. «Ah, capisco… Ma qui non siamo mica in Italia o a Napoli», aggiunge con occhio un po’ complice. Ma perché tentare il diavolo? Lasciammo la macchina in un garage.

Le isole erano così lontane dalla costa, da lasciar credere di partire per andare in capo al mondo. Ma è proprio in un altro mondo che noi andiamo. Anche la folla dei viaggiatori non era già più la stessa. Era gente di mare, né italiana né siciliana, gente delle isole che ritornava dalla sua gente. Il battello, un aliscafo, prese il largo, ben presto raggiunse una prima terra e poi costeggiò la massa fumante dell’isola Vulcano. Lipari era già in vista. Poco dopo vi sbarcammo, sapendo ben poco sul modo di continuare il viaggio. Ci sarebbe stato un battello che andava a Stromboli la sera stessa, o domani? Quali erano gli orari? Ben presto comprendemmo l’inutilità di pretendere informazioni precise, di cui nessuno, al di fuori di noi, sembrava comprendere la reale importanza. Eravamo a Lipari: era già tanto.

L’indomani, il tempo era splendido. Sul finire del mattino, un battello arrivò a Lipari. Proseguiva per Stromboli.

Il vulcano non tardò ad apparire, immenso cono di cenere e di pietre rosse e grigie, solcato da canaloni bluastri. Dal cratere si levava un largo pennacchio di fumo. Giù in basso, a livello del mare, su un piccolo pianoro, si individuavano i cubi bianchi delle case d’un villaggio. «Degli zuccherini sparsi qua e là», in mezzo a qualche macchia di vegetazione e, subito sopra, i pendii regolari e interminabili che convergono al cratere. Tutti stavano sul ponte della nave e guardavano venire questa terra nuova, così perfettamente posata sulla superficie del mare. Girammo intorno all’isola. Un secondo villaggio apparve. Poco dopo, accostammo. Nessun porto, nessuna banchina, ma soltanto un pontone molto precario sul quale, alla mercé delle ondate, i marinai sbarcarono in una sola volta uomini, donne, bambini e bagagli. Poi con un gran rombo di motore, velocissimo, il battello ripartì. Posati i sacchi sulla spiaggia, ce ne restammo immobili a guardare la «nostra» isola. Per essa, per il vulcano, per il villaggio, non vi è che un nome: Stromboli. Basta, per dare a tutto un nome. Il mare, presente ovunque, non lascia alcun dubbio: per lasciare il villaggio non v’è altra strada che il mare. Quanto al vulcano, esso pesa su ogni gesto, su ogni parola, su ogni lavoro della gente dell’isola. Non lo si nomina mai. È «lui», quello che vive al tuo fianco e quello di cui sempre bisogna tener conto. Da lui dipende la vita del villaggio: prima donava le terre fertili, ora il turismo.

Il mare, invece, non conta molto. Un giorno il fuoco si è scatenato, l’isola ha tremato, quasi tutto il villaggio è fuggito. Le case sono state abbandonate. I ricchi vigneti sono stati invasi dalle spinose rose selvatiche. Oggi la gente ritorna poco alla volta. L’isola diviene un posto di vacanza o come luogo di seconda residenza. E la vita riacquista i suoi diritti: una vita quieta, senza grandi progetti. Tanto, «lui» può distruggere tutto, quando lo vorrà.

Per i pochi abitanti di Stromboli, un battello carico di turisti è una pacchia, soprattutto a Pasqua, in stagione morta. Dalle prime case, una ragazza ci venne incontro. Ci offrì un albergo e un pranzo. La seguimmo. L’unica strada del villaggio, abbarbicata su quasi tre chilometri di terrazze e di cornici, saliva, scendeva, risaliva, non finiva più. Ma la ragazza camminava sempre, ogni tanto si girava verso di noi, sorrideva e con un gesto un po’ vago, ci mostrava il seguito del villaggio. «Arriveremo, arriveremo», diceva. «Siete venuti per vederlo, eh? Tutti vengono per lui. Domani, domani salirete».

Ginostra con il fumo del vulcano. Isola di Stromboli, Isole Eolie. Foto: Federico Raiser.

Ho alzato la testa. Credevo di scoprire nuovamente il grande profilo del vulcano. Ma non ho visto che il sole e la sua luce abbacinante che cancellava a metà gli alberi di un giardino. Davanti a noi la ragazza faceva segno di continuare. Ma il sole ormai è scomparso tra gli alberi e io non so più se ho voglia di fermarmi oppure di salire. Il sorriso ironico del Parigino, non l’avrò mica inventato io, per dispetto? No, non so. Ma già le mani aggiustano il materiale appeso al baudrier, il tintinnio rassicurante dei moschettoni mi pervade completamente e, al primo contatto con la roccia, tutta la pace del crepuscolo si impadronisce di me. Un solo tentativo è stato sufficiente per comprendere ogni gesto necessario. Senza sforzo alcuno raggiungo il primo chiodo, lo supero, ritrovo a uno a uno gli appigli e, come sorpreso di aver esitato poco prima, con gli stessi gesti di chi si lascia trasportare dalla corrente, mi lascio portare dall’arrampicata. Essa ha scelto per me la roccia più bella che esista, nella luce di questo istante, dove il giorno sa avere la sua luce più bella. Più nessuna esitazione sui gesti da compiere, sugli appigli da afferrare. In ciascun punto l’appiglio è dove deve essere e basta a costruire il seguito di un perfetto susseguirsi di movimenti, di cui io non son più padrone. Lasciarsi sollevare, lasciarsi portare: questa arrampicata è un nuovo viaggio incastonato nel cuore del nostro viaggio, inscritto nella stessa successione di incanti. Per lasciarsi portare, è sufficiente credere che ogni cosa è possibile.

 

Per avere questa luce, è bastato credere all’eternità del crepuscolo e alle forze formidabili che ora mi sollevano verso l’alto della parete. Per partire così tardi, nel pomeriggio avanzato, ci è bastato credere a quelli che, sull’isola, ci hanno decantato la bellezza del cratere e delle sue esplosioni al calar della notte. Con tutto il materiale da bivacco appresso, lasciammo le ultime case del villaggio, mentre si levava una fresca brezza che sempre in riva al mare è segno della sera imminente. Ben presto, dopo aver attraversato dei cespugli alti e spessi di rose selvatiche, la larga e comoda mulattiera cedeva il posto a un sentiero mal tracciato, che si inerpicava su pendici di lava e di terra rossa. Salivamo lungo un’ampia cresta dalla quale ci si apriva alla vista l’immenso e regolare piano inclinato, alto quasi novecento metri, sul quale si riversano le colate di lava delle eruzioni maggiori. Come un alto forno immaginario, alimentato in continuazione, il vulcano fumava sotto la brezza venuta dal largo e già riempiva l’aria di un acre odore di zolfo e di cenere. Malgrado il suolo inconsistente, salivamo rapidamente. Giù verso il basso, la bianca schiuma che si infrange e delimita il litorale, ormai non era che una sottile striscia chiara che si stagliava sulle nere coste di scorie vulcaniche. Noi ci avvicinavamo sempre più a questo versante smisurato, immensamente liscio e regolare, immagine perfetta del pendio in equilibrio nello spazio e che ancora ci separava dal bordo del cratere. L’intero cratere fumava possente e attraverso una specie di foschia indefinita, che lo rendeva ancora più lontano da noi, la luce obliqua del tramonto vi proiettava delle ombre ancora più lontane e indefinite. Nessuna traccia umana, nessun sentiero tagliava questa superficie ideale. Il nostro sentiero la sfiorava appena, nel tentativo di cercare più a sinistra un terreno roccioso più solido per procedere. A intervalli regolari, un sordo e cupo brontolio si levava dal cratere sempre più vicino. Verso la vetta ci trovammo quasi a salire di corsa, tanta era la nostra impazienza. Giunti in cima, i nostri sguardi non furono né per il cielo, né per il mare, né per le lontane e sfumate coste dell’isola. «Lui» era ai nostri piedi ed era lui che eravamo venuti a vedere. Allo Stromboli i crateri, ce ne sono appunto due, sono posti più in basso della sommità. Seduti sul terreno della cresta, talvolta così caldo da scottare, guardammo a lungo e in silenzio i due giganteschi imbuti, dai quali ogni dieci minuti scaturivano dei lunghi sciami di lapilli e di cenere. Ma tutto ci pareva ancora troppo lontano. A grandi balzi discendemmo i pendii che conducevano al primo cratere. Lì vi erano anche altre persone. Restammo con essi a fissare i nostri sguardi sul lago di lava incandescente, percorso dal fondo del cratere da un impulso vitale di un cuore denudato e attendemmo la prossima esplosione. Il colore della lava era come quello del sole, il cui disco immenso e dilatato in quel momento ruotava sul mare. Nello stesso istante del giorno, la pietra infuocata del cratere e la roccia tiepida e compatta delle pareti di Provenza si trovano in unione e in sintesi, sotto il segno dello stesso astro. Arrampico, e la roccia immobile e statica mi porta sempre più in alto nel grande vuoto a cui s’appoggia la parete. Ho fatto il lungo viaggio e la lava palpitante, pronta a sparpagliarsi lontano laggiù sotto di noi, mi ha fermato ed immobilizzato vicino a lei. Cento metri di roccia, un’unica placca liscia e compatta, perfetta nella sua uniformità, dove un’armonia di gesti sicuri e naturali mi concede di abbagliarmi degli stessi gesti e degli equilibri perfetti. E laggiù, il magma impregnato di fuoco, che presto si innalzerà verso il cielo per poi rotolare nel mare. La roccia immobile, presente per tutta un’eternità. La lava gorgogliante pronta a divenire pietra. La roccia che vive il suo sogno e che si può toccare. La lava trascinata dal fuoco, promessa alle ceneri. Nell’attimo in cui il sole è scomparso dietro l’orizzonte, nell’attimo in cui cessa d’illuminare le foreste di pini e le grigie placche delle Deux Aiguilles, lasciando che le pareti di Provenza e i pendii del vulcano si riempiano di un’ombra vellutata ed impalpabile, le forze titaniche che si sprigionano dall’interno della Terra e il Mare, improvvisamente hanno vinto il peso di tutta la lava ammassata nell’imbuto di roccia e di cenere. E la materia in fusione, come eiaculata, si lancia verso il cielo, si innalza sopra un lago rosseggiante, supera il bordo del cratere e lontano, più in alto di noi, disegna sullo sfondo scuro del cielo una miriade di fili luminosi.

Arrampico ancora, ma le dita ormai percepiscono soltanto la meravigliosa staticità della placca compatta. Guardo ancora e i miei occhi continuano a riempirsi di curve lucenti e vertiginose, create dai blocchi incandescenti che si lanciano verso le tenebre. In quest’attimo, mi viene offerto tutto: la roccia e la terra che mi circonda, immobili nella sera; la lava ed il mare posseduti dallo stesso palpito, che sempre ricomincia all’infinito. La roccia e la terra, la lava e il mare, i due estremi inconciliabili: il solido e il liquido. «La roccia purificata che nasconde nelle sue pieghe il cammino della liberazione, la lava e il mare impuri che non hanno cammino. La roccia, il regno del finito; la lava, il regno dell’infinito. La montagna e le sue onde pietrificate: il tempo che permane. Il mare e le sue montagne instabili: il movimento, e i suoi miraggi. La roccia fatta a immagine dell’essere, principio di identità immobile come una tautologia. Il mare, in perenne contraddizione, il mare, critica dell’essere e di se stessi». La roccia: il presente, l’essere. Il mare: il futuro, il divenire. La roccia ed il mare per un solo istante e per la forza del fuoco primario ed interiore, trasformati in lava, roccia liquida eiaculata dal mare e rotolante nel mare per ridivenire ancora pietra.

Cratere in attività visto dalla cresta dei ” i Vancori”, la vetta dell’isola di Stromboli 924 m. Foto: Federico Raiser

Era già notte quando lasciammo il bordo del cratere. Sotto la cima, su una specie di piattaforma, il cui suolo tiepido odorava di zolfo, installammo il nostro bivacco. Eravamo coricati sulla terra, ma le stelle erano le stelle dell’alto mare. E regolarmente, attraverso la massa intera del vulcano, saliva il sordo brontolio delle esplosioni. Di notte si levò il vento. Di primo mattino ci alzammo nel turbinio di ceneri e di lapilli che pungevano gli occhi e il volto. Il cratere e il suo bordo circolare ora erano come invasi da fumate soffocanti, che ne impedivano l’accesso. Di corsa discendemmo al villaggio. È quel giorno, credo, che conoscemmo il Professore e Carmelo: due strani personaggi, che vivono al margine degli abitanti dell’isola, carichi di ricordi e con un passato velato di mistero.

Di Carmelo non si sapeva bene se era stato principe oppure bandito siciliano. A volte era superbo e affascinante, brusco e gentile, a volte sprezzante, altre volte complimentoso. Aveva viaggiato, conosceva mille storie e mille paesi e rideva mentre ce li raccontava. Ci fece entrare da lui, come se entrassimo nella casa del Signore dell’isola, e ci chiese di accomodarci: «Restate qui, diceva, s’è alzato il vento e la fumata del vulcano ha cambiato direzione. Durerà molti giorni. A volte dura anche una settimana. Volete ripartire subito? Non fateci conto! Finché soffia il vento il battello non tornerà. Ma non importa. Ho dei libri, molti dischi e del buon vino di Sicilia. In estate ho un ristorante, qui. D’inverno mi piace preparare pranzi ai miei amici. Vedrete che roba, gli spaghetti alla siciliana!».

Prigionieri dell’isola? In fondo in fondo l’idea non ci dispiaceva affatto. E ancora una volta il viaggio ci faceva attraversate il cammino di qualcuno che solo in un viaggio si può incontrare. Il vento poteva prendersela calma, per soffiare forte e scoraggiare i marinai di Milazzo. Per ora il nostro tempo era quello dell’isola, di Carmelo e dei battiti impercettibili del cuore del vulcano. Sono uscito di casa. Era un’altra sera. Il cielo era già costellato di stelle. Accanto a me, il vento sollevava la polvere della via. Era passato attraverso i giardini e mi portava un leggero profumo di fiori d’arancio. Giù al villaggio, sulla riva del mare, la risacca era più violenta di ieri. E ora che sapevo, immaginavo ancora i regolari movimenti intervallati del grande orologio sotterraneo, foriero di fuoco e di scintille. Noi eravamo a Stromboli e tutta l’immaginazione e la fantasia erano per la grande massa scura, che già una volta ci aveva trascinati alla deriva nella sua vita di terra. Ci ritorneremo.

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Stromboli, il cammino di pietra e il cammino di cenere ultima modifica: 2019-02-16T05:54:58+01:00 da GognaBlog

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