Temelin e la via dei Ragni

In Bulletin Les Alpes n. 3 del 1974 Christian Dalphin scriveva: “Avevamo già attaccato questa via una prima volta il 30 luglio 1962, Claude Reuille, Bernard Voltolini ed io. Un secondo tentativo ci fu dall’11 al 13 agosto 1962, e questa volta arrivammo a circa 120 metri dalla vetta (Roger Habersaat, T. Grassin, Voltolini ed io).
Al terzo tentativo (9-10 luglio 1966) arriviamo a 100 metri dalla vetta (Marc Ebneter, Habersaat ed io). Abbiamo messo noi tutti i chiodi a pressione attualmente il loco e abbiamo attrezzato noi le due lunghezze più dure (dalla Sosta 5 alla Sosta 7). Il 13 e 14 luglio 1973 con Claude Reuille ho finalmente terminato anch’io la via e ora posso dire che, allorché eravamo arrivati giusto al traverso prima della Sosta 7, avevamo praticamente risolto tutte le difficoltà in artificiale. I tiri più difficili da chiodare che ho mai fatto su granito. Rimanevano solo quattro tiri alla vetta“.

Dopo la prima ascensione dei Lecchesi, di cui raccontiamo qui sotto, e prima della 4a salita di Dalphin e Reuille, la via è stata ripetuta prima da Claudio Corti, Pavel Pochly e Jiri Zrust nell’agosto 1968 poi da Alessandro Gogna e Leo Cerruti, in prima invernale, dal 9 all’11 marzo 1969.

Schizzo della via dei Ragni al Grand Capucin (disegno di Christian Dalphin)

TemelinViaRagni

 

Una nuova via nel cuore del Bianco
di Aldo Temelin Anghileri
(pubblicato nel 1968 su Vita di Club del CAI Sezione di Lecco)

Grand Capucin, parete est: qui ho subito ancora una volta il fascino della montagna e non potrò mai sottrarmi al suo richiamo. Questa vertiginosa parete di granito rosso da percorrere con applicazione della tecnica di progressione artificiale la inserii nel mio “palmares” nel 1965, quando con Cesare Giudici ripetei la via Bonatti-Ghigo, una via che ha una storia nel mondo verticale. Su quei cinquecento metri di sviluppo vennero usati centocinquanta chiodi: e per la prima volta anche nelle Alpi Occidentali, nel gruppo del Monte Bianco, i chiodi furono usati come mezzo sistematico per l’arrampicata.

La Est del Grand Capucin, risalendo allo scorso anno, si affacciava nuovamente nel quadro della mia attività quando Pierlorenzo Acquistapace detto Canella, mi invitò a unirmi a lui, con la prospettiva di tracciare su quella parete composta da diedri di granito una “direttissima” con il tracciato della salita parallelo, 80 metri circa sulla sinistra, della via aperta da Walter Bonatti e Luciano Ghigo nel 1951. Rinunciai all’allettante richiesta, perché in quei tempi tutte le mie attenzioni erano dedicate alla Cima Su Alto in Civetta. Intanto la parete est aveva assorbito l’attenzione di altri alpinisti: si creava la sua storia come conviene a ogni problema alpinistico di un certo rilievo. Questa via respingeva molti tentativi e costituiva quindi una misura per quella categoria di alpinisti alla ricerca continua dei loro limiti nei confronti degli ostacoli prestigiosi che le Alpi possono ancora offrire. Tutto questo mi mise in testa la voglia di tentare a mia volta. Lanciai l’idea a Carlo Mauri, e successivamente entrarono nel giro anche Guerrino Cariboni, Pino Negri e Casimiro Ferrari: con loro sono da tempo affiatato. E così fu deciso che sarei tornato di nuovo al Grand Capucin.

Lasciamo Lecco in due scaglioni: partono prima Carlo, Casimiro e Pino, mentre io con Guerrino li raggiungo poi al rifugio Torino al Colle del Gigante, appena libero dai lavori d’officina. Al rifugio trovo Mirko Minuzzo che, parlando di montagna, non mi nasconde che alla Est del Capucin è interessato direttamente. Il tempo è poco favorevole, ma il sapere che altri aspettano di partire per attaccare la via fa precipitare la nostra decisione. Al pomeriggio del 29 giugno 1968, io e Pino lasciamo il rifugio Torino e percorriamo il ghiacciaio del Gigante, sul versante meridionale del Mont Blanc du Tacul, verso l’attacco: domani mattina gli altri tre ci raggiungeranno.

Giunti ai piedi della Est scrutiamo la parete: siamo di fronte a una selvaggia geometria di puro protogino, dove sarà praticamente impossibile, una volta in parete, sfuggire al cattivo tempo e disimpegnarsi su altri vie più facili. Pino attrezza il primo tiro di corda (35-40 metri) e poi ci disponiamo per il bivacco, che abbiamo stabilito di fare alla base della parete. Una forte emicrania mi è cattiva compagna, e purtroppo non abbiamo con noi nemmeno una pastiglia sedativa. Solo l’indomani mattina quando arrivano gli altri tre potrò ingoiarne una. Il tempo è sempre incerto: c’è nell’aria quella particolare atmosfera che prelude una salita importante.

Gruppo del Monte Bianco, Grand Capucin, parete est
Gruppo del Monte Bianco, Grand Capucin, parete est

È timore reverenziale: uno stupendo obelisco di granito rosso, con la sua monolitica parete est, caratterizzata da fessure, strozzature, diedri e strapiombi, incombe sulle nostre persone. Sono impressionato all’idea di salire così in alto e vivere in un ambiente dalle proporzioni gigantesche in cui tutto, emozione, fatica, resistenza, difficoltà, viene dilatato al di là della dimensione umana.

Pino e Casimiro formano la cordata di testa e continuano ad attrezzare la via. Intanto il tempo è cambiato nel giro di un paio d’ore e io con il mutamento atmosferico sento attenuarsi la mia emicrania fino a svanire: due preoccupazioni che mi angustiavano, ora hanno finito di opprimere il mio pensiero, mi sento sereno. Siamo appiccicati alla grande parete granitica, quando il sole ci investe con la sua radiosa armonia di calore, e noi arrampichiamo godendoci per intero la bellezza della natura che ci attornia. Al terzo tiro di corda troviamo il cordino lasciato dall’Acquistapace in segno del suo limite, e ora Pino dovrà superare terreno sconosciuto a noi lecchesi. Il quarto tiro trova impegnato il mio compagno sulla famosa terrazza, da tutti indicata come confortevole posto da bivacco, che precede il difficile diedro, chiodato a cunei, attrezzato da Giorgio Bertone in un suo tentativo.

Aldo Anghileri, spedizione alla Sud del Lhotse, marzo 1975
Nepal, spedizione Lhotse 1975, Aldo Anghileri

A questo punto è bene precisare che nei vari tentativi, a secondo degli alpinisti, si seguì in questa prima parte della parete un tracciato diverso sia pure parallelo e di una distanza relativa, così come abbiamo visto per l’Acquistapace e per Bertone e come sarà per gli svizzeri, Christian Dalphin, Marc Ebneter e Roger Habersaat. Dopo aver deciso che passeremo la notte sull’ampio “terrazzo” della cengia, do il cambio a Casimiro e mi lego con Pino, sfruttando ancora quattro ore di luce per portarci sempre più in alto. Attrezziamo e ridiscendiamo quindi al posto da bivacco, l’unico posto di tutta la parete in cui si possa passare la notte abbastanza comodamente. Sul duro giaciglio di granito e nella quieta sovranità della solitudine, in mezzo all’universo, si rincorrono i soliti pensieri, i ricordi. Anche noi ci sentiamo più vecchi: i nostri discorsi infatti sono caratterizzati da aneddoti e ricordi, che tornano a sfottò di volta in volta di qualcuno di noi. È sintonia, condivisione, il nostro spirito.

Carlo Bigio Mauri
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La notte livella tutto e le cose appaiono prive di attrattiva e di forma: solo le stelle emanano vita, e con queste impressioni negli occhi ci assopiamo.

Ci svegliamo quando l’alba del primo luglio è già sorta, fredda, radiosa: il tempo è meraviglioso, non c’è una nuvola. Mi lego con Casimiro, risalgo il tratto attrezzato la sera precedente, e su un diedro fessurato, sul quale trovo i segni dei nostri predecessori svizzeri, devo fare fermata sulle staffe. Proseguo quindi su una verginità che mi promette imprevisto e avventura: fatico molto a chiodare con chiodi normali, perché la roccia presenta fessure impossibili. La roccia pur consistente, di puro granito rosso, è levigata, non offre varietà; sono fessure sfuggenti o cieche, qualche minuscolo e mimetizzato appiglio, qualche ruga… oltre quella che in verticale dalla base porta nel mezzo della cima. Su questo tracciato, per risolvere il problema, devo proseguire. È tutto un susseguirsi di diedri, piccoli tetti, strozzature e brevi muri fessurati: si sale sfruttando ogni più piccola asperità.

Affronto 30 metri di chiodatura difficilissima, massima difficoltà, e sono arrivato a una piccola cengia inclinata, dove recupero Casimiro. Intanto i tre dell’altra cordata che segue si prodigano nel recupero del materiale mentre salgono. Riprendo su una fessura verso destra e poi, per evitare di dover chiodare ad espansione, mi appresto ad aggirare un tetto sulla sinistra. Questo passaggio mi costa uno sforzo immane: ma è infine superato. Mi trovo ora sotto il tetto obliquo che presenta nel suo angolo una fessura con un sasso incastrato nel centro. Mi assicuro con il cordino a questo sasso… malsicuro, e infisso in fondo alla parte alta della fessura un cuneo di legno. Arrampichiamo con la massima concentrazione per 10 metri in scalata libera difficilissima ed estrema e alle ore 15 esco su una cengia inclinata, con depositata della neve marcia, e qui faccio fermata.

Un tardo Guerrino Guéra Cariboni
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Ho perso la nozione del tempo, la mente è occupata dal solo pensiero della salita e non v’è posto per nient’altro. Il mio fisico ha ritrovato il consueto equilibrio: le difficoltà stesse mi consentono finalmente di gioire nella salita. Faccio questa considerazione mentre in fermata recupero Casimiro, e pur sentendomi provato, sono felice e ho il morale alto, perché ho superato un tratto dove le difficoltà maggiori si erano concentrate. Mi trovo ora a 120 metri dalla vetta e le difficoltà più preoccupanti da superare sono contenute in circa 70-80 metri, poiché l’ultimo tratto si inclina, e poi ritengo che non mi si presenteranno più fessure infami ed impossibili, ma delle buone fessure che consentano di essere affrontate con sicurezza. Comunque dobbiamo cercare di accelerare al massimo l’andatura poiché è nostra intenzione arrivare in vetta prima di sera senza metterci in gara con l’oscurità. Dopo aver ripreso fiato, riparto deciso e supero 15 metri in cui le difficoltà rasentano il limite estremo. Mi sono rimasti quattro cunei di legno e devo necessariamente recuperare quello sotto, dopo averlo sfruttato, per superare le difficoltà che mi attendono in alto; per gli altri che seguono può bastare la corda lasciata dalla mia cordata.

Su un vuoto che fa accapponare la pelle, all’uscita della fessura, mi devo aggrappare a un grosso masso incastrato e quindi montarvi sopra. Mi muovo con una certa apprensione e con cautela, e il dubbio che quel sasso possa ad un tratto cadere, trascinandomi con sé, e investire i compagni sottostanti, mi toglie il respiro. Ma finalmente sono fuori dalla trappola e senza indugi attacco il diedro della vetta e proprio nei primi tratti di questo faccio fermata.

Casimiro Miro Ferrari
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Dopo mille duri passaggi che avevano tutta l’intenzione di scaraventarmi nel vuoto, mi trovo accovacciato a riposare, e mi vengono spontanee alcune considerazioni sulla salita. Penso che la nostra via, che presenta difficoltà alpinistiche estreme, è una via logica, che noi abbiamo voluto superare senza l’infissione di chiodi artificiali (oltre a quelli già presenti in loco, NdR). Pur di tenere fede a questo principio, ci siamo anche leggermente spostati di volta in volta a secondo dell’asperità, delle rughe, della roccia, abbandonando la linea “direttissima”, per non ricorrere ai chiodi a pressione, dove sul liscio compatto e dritto non vi è alcun mezzo di progressione. E ritengo di aver realizzato una via elegante, classica e pulita, e appunto con chiodatura normale, sviluppatasi su tetti pronunciati e fessure chiuse.

Guardo il maestoso versante orientale della Brenva, una parete di 1500 metri, orrida, repulsiva e bella al tempo stesso, allucinante di rocce e ghiacci, ripidissimi, battuta da continue valanghe. Penso a quella tragica volta che una valanga di seracchi travolse la valente Guida di Courmayeur Arturo Ottoz, nell’anno 1956, durante una ripetizione della via Major. Penso a quando Mauri nel settembre del 1958 scalava da solo la Poire, e Bonatti parallelamente la Major: imprese da alpinisti eccezionali, di razza, da veri fuoriclasse. Mi sorge spontanea ammirazione e, confrontando, vedo che la mia avventura attuale si riduce di dimensioni. Essi operavano in solitaria, su quella maestosa parete, tanto isolati dal mondo da non aver altri pensieri che quelli inerenti la scalata, mentre io sono in compagnia di altri quattro alpinisti che in ogni caso mi saprebbero trarre d’impaccio: e uno di questi è proprio il Carletto Mauri della Pera sulla Brenva…

Riprendo la salita contento, anche perché gli strapiombi non mi impensieriscono più tanto, in quanto buona parte della parete è sotto di noi. Dal basso mi raggiungono le voci dei miei compagni, ma stavolta non sono gli utilissimi suggerimenti che mi grida Carlo Mauri; è una voce che suona diversamente, quella del “Guèra”, che mi chiede quanto manca alla vetta, aggiungendo che secondo le sue impressioni non dovrebbe distare molti tiri di corda. Rispondo celiando che mancano quasi… 200 metri: non ripeto le frasi poco riguardose che mi indirizza e che provocano negli altri matte risate: il nostro solidale spirito di amicizia trova sfogo anche in queste circostanze.

Pino Negri
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Continuo per altri 20 metri su queste fessure caratteristiche, chiodando abbastanza velocemente, e mi trovo impegnato su un diedro sinuoso e liscio. La via fino a questo punto non era stata la solita conferma di fessure ben chiodabili del Grand Capucin, bensì granito compatto con fessure cieche e piastre completamente da superare in libera per tratti di 15-20 metri, senza fissare chiodi. Sono le 19.30 quando riparto, cercando di sbrigarmi il più velocemente possibile, e alla luce del tramonto che si preannuncia con i suoi colori dorati continuo ad arrampicare su difficoltà dalla grinta assai più bonaria in un colatoio-diedro. La verticalità si attenua, fino ad interrompersi: sono le ore 21 circa, quando la vetta è raggiunta, dopo 30 ore di arrampicata.

Grido di gioia e rassicuro l’amico “Guèra” che i 200 metri di distanza si sono notevolmente ridotti. Alle ore 22 siamo tutti in vetta sopra al “Cappuccio” del Grand Capucin: l’ultimo tratto è stato affrontato completamente in libera, in sostanza in cordata unica per il buio. Su una piccola cengia, 7-8 metri sotto la vetta, ho potuto abbracciare i miei amici, perché da tutta la giornata non ci capitava di essere riuniti assieme. In quell’abbraccio trovo il calore dell’amicizia dei miei compagni. Apprezzo i complimenti che mi vengono rivolti, in particolare quelli che mi arrivano da Carlo Mauri.

Mi dice che ha trovato difficoltà molto sostenute in questa via, e che assistendo da sotto al mio procedere si convinceva della continua necessità di materiale tecnico, mentre nel susseguirsi dei difficilissimi passaggi in arrampicata libera non ha mai avuto il dubbio se sarei riuscito a passare: ne era sicuro. Rispondo di essere contento e di aver tratto conforto della loro compagnia e della loro amicizia franca e solidale. Mauri non si è risparmiato nell’aiutarmi moralmente e materialmente, e con lui Negri, Cariboni e Ferrari mi hanno sorretto. Ho avuto l’idea di realizzare questa via come capocordata, ma devo dire che il contributo dei quattro amici che avrebbero saputo sostituirmi in ogni caso è stato determinante. Nei punti più difficili della salita il pensiero che in caso di pericolo avrei avuto il valido aiuto di alpinisti secondi a pochi come impegno, preparazione, tecnica, perizia e coraggio, mi rinfrancava e mi rendeva ogni cosa più agevole. La nostra è stata una vittoria dell’armonia, dell’amicizia. Siamo accomunati da un bisogno assoluto di comunicare, di far partecipi anche gli altri della nostra gioia. E nello stesso tempo voglio partecipare e godere della gioia di tutti come cosa intimamente mia, quasi senza conoscere nessuna distinzione tra me e gli altri. Rievochiamo prima di prendere sonno, i momenti di sofferenza della salita: non ingoieremo più frettolosamente qualcosa faticando nella deglutizione, resa difficile dall’arsura che ci ha accompagnato implacabilmente per tutta l’ascensione. Quando ci destiamo, dopo la notte passata in vetta al “Cappuccio” del Grand Capucin, il mattino chiaro e freddo preannuncia un’altra giornata radiosa, come radiosa per me è stata questa nuova impresa. Radiosa intendo per il mio avvenire di alpinista, in questo tipo di alpinismo che piace a me ed ai miei amici, non solo come impresa sportiva, ma come esperienza completa e rigenerante, aperta all’incontro con altre arrampicate e in primo luogo con la Montagna. Sulla Montagna, dove provo quel senso di gioia, di infinita libertà, in un mondo in cui abbiamo l’impressione che tutto ci appartenga, perché nulla appartiene a nessuno.

Aldo Anghileri durante la prima ascensione della parete sud della Terza Pala di San Lucano, 1972. In primo piano, Piero Ravà
Aldo Anghileri durante la prima ascensione della parete sud della Terza Pala di San Lucano, 1972

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Temelin e la via dei Ragni ultima modifica: 2016-04-11T05:13:40+02:00 da GognaBlog

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